Discorso
23 luglio 2003

La grazia a Sofri e il ruolo di Berlusconi

Il Messaggero - L'opinione di D'Alema


Di Adriano Sofri e della sua parabola umana e giudiziaria ho avuto modo di parlare a più riprese, anche di recente. Ho cercato di farlo sempre con la delicatezza e il rispetto dovuti all'uomo e a quanti sono coinvolti, al pari di lui, in una vicenda assai intricata e dolorosa.
Nel corso degli anni mi sono recato alcune volte nel carcere di Pisa.
Con Adriano ho parlato, discusso. Non potrei dire d'averne seguito da vicino l'esperienza dura della detenzione. Posso giurare, però, che fa una certa impressione varcare il portone di quell'edificio e vedere che cosa è Sofri lì dentro, cosa rappresenta per altri detenuti come lui.
Un punto d'appoggio, un aiuto, se il termine non fosse improprio si dovrebbe dire un "leader", nel significato più ricco del termine.
Questo e altro come si usa ripetere da mesi è oggi Adriano Sofri.
Per come lo conosco, non credo abbia apprezzato granché l'ultimo temporale piovutogli addosso. Ha reagito, come sempre, con quella sua sobrietà, quel prolungato silenzio su di sé così esplicito in un uomo che, per tutto il resto, ha fatto della parola e dello scritto una metafora della libertà che non ha. Sulla materia complessa della grazia ad Adriano Sofri, come è noto, il ministro Castelli ha detto la sua. Lo ha fatto ahinoi con tutta la grevità che gli è propria dalle colonne di un giornale di partito. Non mi stupisce il fatto in sé. Né mi indigna vorrei rassicurare Giuliano Ferrara il fatto di misurarmi con le riflessioni del Guardasigilli circa l'opportunità e la ragionevolezza di un atto di pacificazione del paese. Semplicemente, il punto non è questo. Può darsi anzi è assai probabile che la Lega abbia scelto di giocare col destino personale di un uomo soltanto per il gusto dell'ennesima manovra di parte. Un calcio a questo, uno sgarbo a quello, nell'idea che quel che conta per Bossi e i suoi è soprattutto ingabbiare le mosse dei propri alleati. Insomma stringerli a sé in un abbraccio mortale. Non sarebbe la prima volta che questo accade e neppure l'ultima. La questione, però, insisto, è altrove. E precisamente a Palazzo Chigi. Il problema ancora una volta è il presidente del Consiglio, il suo atteggiamento, la coerenza che egli sceglierà di avere. Sarebbe fin troppo facile ricordare al ministro Castelli chi volle seppellire, due anni fa, ogni speranza di un'amnistia verso la quale una parte importante del Parlamento aveva mostrato interesse e disponibilità. Furono gli stessi che, poche settimane fa, hanno affondato alla Camera il cosiddetto "indultino".
Amici e colleghi di Castelli, eredi di quel leghismo d'assalto che, esattamente dieci anni fa, esibiva provocatoriamente un cappio nell'aula di Montecitorio. Ma Berlusconi? Come reagisce il presidente del Consiglio se egli intende reagire ad un ministro che sceglie di ignorare in forme e modi tanto eclatanti non solo e non tanto l'orientamento di una parte larga della pubblica opinione e delle forze politiche di maggioranza e opposizione, ma la stessa presa di posizione del premier? Ha scritto qualche mese fa Silvio Berlusconi a proposito di Adriano Sofri, "nel più assoluto rispetto per le valutazioni del capo dello Stato e per le prerogative specifiche del governo sotto il profilo istruttorio, e nella massima considerazione per i sentimenti della esemplare famiglia Calabresi... credo in coscienza che sia matura una decisione favorevole alla grazia". Scherzava o parlava sul serio della sofferenza di una famiglia e del futuro di un uomo? Perché delle due l'una. O il presidente del Consiglio, al di là del rispetto dovuto alle prerogative del suo Guardasigilli, crede a ciò che scrive. E allora egli dovrebbe prendere atto, ancora di più oggi a qualche mese da quello scritto, del clima d'opinione che esiste nel paese su questa specifica vicenda, facendosi carico di un invito esplicito al ministro Castelli perché la proposta di grazia venga inoltrata agli uffici competenti. Oppure è lecito dedurre che non solo il premier tratti con colpevole leggerezza una materia così delicata per i suoi risvolti umani e istituzionali, ma che, oltre a ciò, egli non abbia di fatto alcuna autonomia e autorevolezza nei riguardi di uno e non il meno significativo dei suoi ministri. Un uomo politico può compiere degli errori. Questo capita a tutti. E non c’è errore che non si possa cercare di correggere. Quella che difficilmente un leader può recuperare, una volta perduta, è la dignità dei propri gesti e delle proprie azioni.
Mi auguro che non sia questa la deriva prescelta dal nostro presidente del Consiglio.

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