Intervista
25 luglio 2003

Guai a lasciare solo Blair, guai a lasciare soli gli Usa

Panorama - Sostegno al dopoguerra in Iraq, rilancio dell'Onu, apertura all'esecutivo italiano. Massimo D'Alema lancia segnali di distensione. Ad alcune condizioni.


Rilassato, in maniche di camicia, alle 9 del mattino di martedì 22 luglio, nel suo ufficio di presidente della Fondazione Italianieuropei, a Palazzo Borghese, Massimo D'Alema legge e commenta con il suo stretto collaboratore Nicola Latorre i giornali italiani ed esteri.
E non rinuncia al gusto di una battuta tranchant sul fatto del giorno: l'incontro tra il premier italiano e il presidente Usa: "Berlusconi sembra essere andato da Bush, al ranch di Crawford, più come ambasciatore americano presso la Ue che come presidente dell'Europa, diciamo...".
Da mesi D'Alema è impegnato in un'intensa attività diplomatica nelle aree più calde del mondo, dal Marocco all'Iraq. E a Panorama ribadisce: "Soprattutto dopo l'11 settembre, la politica o guarda al mondo o non è politica".

La sinistra italiana e internazionale è stata al centro di due importanti riunioni: il vertice mondiale dell'11-13 luglio a Londra, organizzato da Tony Blair e promosso anche da Italianieuropei, e lo scorso fine settimana i lavori a Roma dell'Internazionale socialista, ai quali lei è riuscito a portare un terzo del governo provvisorio iracheno. Quali obiettivi si pone la sinistra di fronte ai cambiamenti mondiali?
A Roma abbiamo messo a fuoco due temi di grandissima rilevanza: il dopoguerra in Iraq e il processo di pace in Medio Oriente. Abbiamo costruito un dialogo con le principali forze politiche e religiose che animano il dopoguerra iracheno. È stata un'operazione molto importante, non affatto scontata per uno schieramento come quello socialista, che in grandissima parte ha contrastato la guerra: è evidente che una parte delle forze democratiche irachene ha un atteggiamento di gratitudine verso gli americani che hanno battuto la dittatura di Saddam Hussein. Ma, nonostante le divisioni sulla guerra, queste forze irachene hanno dimostrato interesse a lavorare con noi. Evidentemente hanno piena consapevolezza che una soluzione militare della costruzione della democrazia nel loro paese è inadeguata.

Che cosa propone per il dopoguerra iracheno?
Lo sforzo che ho fatto sia a Londra che a Roma è stato di delineare una piattaforma sulla quale possa esserci una convergenza anche tra le forze progressiste che si sono divise di fronte alla guerra. Si tratta di una piattaforma di sostegno al processo democratico in Iraq, che punta al rafforzamento della presenza delle Nazioni Unite: sia perché questa è la condizione essenziale per ricondurre il dopoguerra in un quadro di legittimità internazionale sia perché l'Onu è l'unica struttura in grado di affrontare l'emergenza umanitaria e sociale. Tuttora l'Iraq vive grazie al programma oil for food.

Basterà l'Onu?
No, l'altra condizione fondamentale è puntare sull'autogoverno degli iracheni che gestiscono la transizione. Il consiglio di governo, con compiti parziali, che gli americani hanno dovuto costruire di fronte al fallimento della strategia dell'occupazione militare, è un organismo che deve essere rafforzato e portato a una piena assunzione di responsabilità. Così come appare chiaro che anche la gestione della sicurezza non può essere affidata a un esercito occupante, gli stessi americani stanno cercando di mettere su una forza di polizia irachena. Insomma, l'idea di gestire il dopoguerra attraverso una logica di protettorato americano è sbagliata. Penso che sia persino nell'interesse delle potenze che hanno occupato l'Iraq consolidare il processo democratico facendo leva da un lato sull'autogoverno degli iracheni e dall'altro su un ruolo accresciuto delle Nazioni Unite. Sarebbe opportuno, quindi, avere una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza. Questo potrebbe essere un modo di evitare l'isolamento dei paesi che hanno voluto la guerra e avere una comunità internazionale che si assuma una più corale responsabilità per il dopoguerra.

Sta dicendo che gli Usa non vanno lasciati soli, tanto più ora che Bush sta cercando un coinvolgimento internazionale sempre più forte per gestire le aree calde del dopoguerra?
Sì, non vanno lasciati soli. Gli americani si trovano in una evidente impasse della strategia unilaterale e di una visione della lotta al terrorismo esclusivamente imperniata sull'uso della forza. La stabilizzazione dell'Afghanistan non procede e in Iraq gli americani appaiono impantanati in un dopoguerra che costa loro uno, due morti al giorno.

E però le pare poco che, intanto, allo stadio di Kabul al posto dei tagli delle mani o delle lapidazioni ci siano partite di football e a Baghdad la popolazione non sia più terrorizzata da Saddam e dai suoi figli Uday e Qusay?
Questo è vero, ma non toglie che la convinzione degli americani di arrivare in Iraq ed essere festeggiati come liberatori era sbagliata. Sono processi complessi. La visione che gli Usa hanno del mondo è molto parziale e rischiosa anche per gli stessi americani. Dopo due anni di guerra al terrorismo Bin Laden non è stato preso e non è stato catturato ancora neppure Saddam Hussein, la gente continua a morire, le prospettive appaiono molto incerte. Questo dimostra che contrastare il terrorismo in modo esclusivo o prevalente con mezzi militari è un'idea sbagliata. Non sto dicendo che bisognava lasciare le dittature: in Afghanistan abbiamo ritenuto che fosse giusto intervenire anche perché c'erano solide motivazioni pure sulla base del diritto internazionale. Ma l'alternativa non è tra lasciare le cose come stanno o fare le guerre contro tutto il mondo. Ci deve essere un'altra soluzione.

Quale?
Far prevalere gli strumenti della politica, gli strumenti multilaterali. La nostra però è stata un'azione positiva. Avremmo potuto dire: avete voluto la guerra, ora sono affari vostri. E, invece, abbiamo detto: cerchiamo una via perché ci sia una comune assunzione di responsabilità. Ecco, vorrei sottolineare un elemento di non poco conto. Abbiamo preso contatto con le forze del consiglio di governo in Iraq che nell'estrema sinistra qualcuno considera un governo fantoccio, messo su dagli americani. Quindi, non c'è il minimo dubbio che noi vogliamo sostenere il governo democratico iracheno, mica la guerriglia dei seguaci di Saddam.

Ritiene necessario un cambiamento nella strategia della lotta al terrorismo?
Vedo fortemente l'esigenza di una svolta che si muova su due direzioni di marcia: nulla giustifica il terrorismo, ma poiché non è un genio del male a generarlo, vanno rimosse le ragioni storiche, economiche, culturali e sociali che lo determinano; occorre al tempo stesso tornare a un primato della politica e quindi a una visione multilaterale delle relazioni internazionali. La sinistra in questo ha uno spazio per dare il suo contributo.

Il suo amico Tony Blair è nei guai per lo scandalo dei documenti dell'Iraq-gate. Bisogna dargli una mano?
La difficoltà nella quale si trova è determinata dalla sua scelta di fare la guerra con gli americani e non certamente dagli importanti risultati che ha ottenuto nella modernizzazione della Gran Bretagna. Blair ora rischia di pagare un prezzo molto elevato, ma certamente non credo che sia auspicabile la sua caduta. Blair rappresenta in Gran Bretagna la leadership più filoeuropea. E la sua caduta non aiuterebbe certo il processo di integrazione del Continente.

Bill Clinton a Londra l'ha riempita di complimenti. Le ha detto addirittura: mi manchi.
Clinton al meeting di Londra ha fatto il discorso più innovativo riflettendo sulla terza via: se dieci anni fa c'era una destra conservatrice contro una sinistra statalista e ideologica, ora c'è una destra aggressiva e populista che però vuole il cambiamento. Per contrastarla, alla sinistra non basta più ricorrere al pragmatismo, ma deve ricorrere alla forza dei suoi valori e costruire una nuova visione del mondo.

Pensa di dare un suo contributo al semestre di presidenza italiana della Ue mettendo a disposizione del governo il patrimonio di contatti accumulato nella sua attività diplomatica in giro per il mondo?
Certamente voglio mettere a disposizione del Paese il mio lavoro. Tutti noi vogliamo farlo. Basti dire che se il ministro degli Esteri palestinese è venuto a Roma non solo per partecipare ai lavori dell'Internazionale socialista ma anche per incontrare il ministro degli Esteri Franco Frattini e il premier Berlusconi, è stato in seguito a una nostra iniziativa. Si è così avviato un superamento dell'incidente diplomatico creato dal premier in Medio Oriente, quando ha chiesto un incontro ad Abu Mazen ma si è rifiutato di incontrare Yasser Arafat. Isolare Arafat significa indebolire Abu Mazen, e su questo Berlusconi deve rappresentare il punto di vista di buona parte dell'Europa, anziché sdraiarsi a mo' di pelle di leopardo davanti a Bush. Quindi siamo pronti a dare una mano al governo per il semestre, ma certamente se il governo questa mano se la farà dare. La mia sensazione è che Berlusconi viva la presidenza Ue più come un'occasione per rilanciare la sua popolarità e uscire dalle difficoltà interne alla sua maggioranza, che non rappresentare il punto di vista dell'Europa.

Parliamo del caso Sofri. La situazione per la grazia sembra bloccata. Cosa suggerisce di fare?
Il presidente del Consiglio ha già detto di essere a favore della grazia e ha fama di essere un decisionista. Bene, ora lo dimostri con i fatti: abbia la forza e l'autorevolezza per intervenire sul ministro Castelli. Sennò chi comanda in questo Paese: Bossi?

Panorama, di Paola Sacchi

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