Discorso
15 ottobre 2003

Medio Oriente, pace possibile

da Il Massaggero


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Un fatto nuovo, imprevisto, importante. L'accordo tra "colombe" come è stata soprannominata l'intesa raggiunta a Ginevra tra un gruppo di esponenti laburisti e una delegazione palestinese ha in sé le potenzialità di una svolta radicale. Qualcosa che travalica gli stessi contenuti del piano messo a punto e investe la natura del conflitto arabo-israeliano e le possibilità concrete di giungere, dopo decenni, a una pacificazione insperata. Qual è dunque la novità di fondo della proposta? Perché l'ex ministro laburista, Yossi Beilin, e il suo collega palestinese, Yasser Abed Rabbo, dovrebbero arrivare lì dove altri, prima di loro, hanno clamorosamente fallito?
La risposta è prima di tutto nel messaggio che giunge dalla Svizzera. Una pace nel senso di un accordo equilibrato e condiviso dalle due parti è possibile. Detta così l'affermazione pare scontata, ma non lo è. Quel che colpisce infatti in una trattativa durata alcuni anni è l'ostinazione con la quale si è cercato un accordo. In questo senso la potenza del gesto è nel denudare il re, nell'indicare alle cancellerie occidentali, alla Russia e, in primis, a Sharon e Arafat, una verità per molti versi scomoda.

In Israele e Palestina oggi si continua a morire non perché una pace sia impossibile, ma perché in questi anni non la si è voluta e cercata come sarebbe stato possibile e necessario. Cosa prevede in concreto il piano elaborato nei giorni scorsi? In sintesi, un compromesso. Parola cara a uno scrittore ebreo come Amos Oz e che allude, nella sua accezione nobile, alla capacità di affrontare i problemi, anche quelli apparentemente insolubili, con pragmatismo. Eccoli, allora, i punti fondamentali di un accordo possibile: i palestinesi riconoscerebbero Israele come lo Stato ebraico impegnandosi a stroncare ogni forma di terrorismo, Israele si ritirerebbe entro i confini del 1967 con la sola eccezione di alcuni territori, i profughi palestinesi rinuncerebbero al loro diritto al ritorno ricevendo in cambio parte consistente delle colonie attuali, Gerusalemme verrebbe divisa e i quartieri arabi diverrebbero parte dello Stato palestinese che controllerebbe anche la Spianata delle Moschee dove una forza di pace internazionale garantirebbe libero accesso a tutti i fedeli, mentre il Muro del Pianto rimarrebbe sotto piena sovranità israeliana. Ognuna delle due parti, in una logica di questo genere, è stata costretta a offrire qualcosa. A cedere anche su questioni che fin qui erano apparse non negoziabili.
Eppure ci sono riusciti. Personalità di spicco, dell'uno e dell'altro campo, nel momento più buio della crisi hanno scritto i presupposti di una pace possibile e li hanno offerti ai protagonisti della trattativa vera, al governo israeliano e all'Autorità palestinese. Con quali esiti vedremo nelle prossime settimane, anche se le prime reazioni indicano abbastanza chiaramente le responsabilità politiche della situazione attuale. Il premier Sharon ha bollato i suoi compatrioti come "irresponsabili", gente che in un passaggio drammatico sceglie di flirtare con il nemico. Tutt'altro che parole incoraggianti. David Grossman ha replicato ieri alle accuse auspicando che il governo d'Israele possa «accogliere con piacere ogni strada che serva a rianimare il processo di pace...». Una reazione saggia, moderata, da parte di un intellettuale che solo pochi giorni fa aveva scritto a proposito dell'obiezione di coscienza di alcuni piloti militari israeliani che «... quando uno Stato impartisce ai propri piloti l'ordine di sganciare una bomba su un quartiere fra i più popolosi del mondo, con la consapevolezza che molti innocenti potrebbero rimanerne uccisi... esso agisce né più né meno come un'organizzazione terroristica».
Non voglio alimentare polemiche che personalmente non ho mai cercato. Mi resta difficile capire perché, di fronte a giudizi di tale durezza, non debba apparire chiaro a tutti come si possa e si debba conciliare la condanna più netta del terrorismo arabo, la pietà verso le vittime innocenti che esso produce e, insieme a ciò, un giudizio politico, esplicito e severo, nei confronti di una leadership quella di Sharon responsabile in questi anni d’aver esasperato il clima, contrastato ogni spiraglio di dialogo, indebolito le componenti avversarie più moderate e, quel che è più grave, finito coll’alimentare tra i palestinesi un sentimento di isolamento, impotenza e disperazione che è da sempre naturale alleato delle frange più estremiste. Ecco perché e duole dirlo la reazione del premier israeliano a questa nuova proposta di dialogo e di accordo, addolora ma non stupisce. Perché è la conferma di quale e quanta sia la sua responsabilità nell’aver accelerato colpevolmente i fattori di una crisi apparentemente senza sbocco.
Non sono tra quanti, denunciando questa situazione, fingono di non scorgere le colpe presenti nel campo palestinese. Né, in questo contesto, voglio rimuovere le responsabilità di Yasser Arafat che, nonostante abbia scelto di non smentire i negoziatori palestinesi, si è senza dubbio rivelato incapace di favorire l’affermarsi di una nuova leadership moderata, più credibile e forte nella gestione delle future trattative. Cresce insomma la sensazione che siano tuttora in campo i protagonisti di una stagione che dovremmo avere alle spalle. E non solo psicologicamente, dal momento che in una vicenda così tragica i torti e le ragioni non si possono mai addebitare unicamente agli uni o agli altri. Oggi servirebbe davvero il prevalere di una mentalità diversa, di una visione lunga, capace, per usare ancora le parole di David Grossman, di mettere ogni cittadino nella condizione di «fare il possibile per promuovere il dialogo». Da Ginevra è giunto in queste ore un segnale importante. Sprecarlo sarebbe un atto colpevole e incomprensibile.

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