Discorso
1 novembre 2003

No all'uso politico delle sentenze


La sentenza della Cassazione che assolve il Senatore Andreotti dall’accusa d’esser stato il mandante dell’omicidio di Mino Pecorelli è un fatto importante e positivo. Importante per la personalità dell’imputato, protagonista indiscusso dell’ultimo mezzo secolo di storia italiana. Positivo perché chiude, definitivamente, una pagina tra le più drammatiche del tormentato decennio alle nostre spalle. Per un uomo che ha vissuto, come egli stesso ha ricordato in un commento a caldo, sessant’anni della propria esistenza dentro le istituzioni e al servizio di esse, quella di ieri è stata senz’altro una giornata di liberazione. La fine di un tormento logorante che egli ha scelto di affrontare con grande dignità, senza mai offrire l’impressione di volersi sottrarre in qualsiasi modo alle sedi deputate del giudizio. Un atteggiamento che gli è valso la stima rinnovata di amici e colleghi di partito, unitamente al rispetto di molti avversari politici. Sentimenti ai quali, personalmente, mi unisco senza riserve.

Oggi, con questa sentenza, la Cassazione ha sancito la sua innocenza “per non aver commesso il fatto”. Assoluzione piena, dunque, che va a sommarsi alla precedente assoluzione dall’accusa di concorso in associazione mafiosa. Ora, al di là delle specifiche sentenze, resta la realtà di un personaggio politico di primissimo piano, colpito da accuse terribili e infamanti. E resta la sua ostinazione a voler affrontare un calvario giudiziario così doloroso, evidentemente sorretto in ciò dalla convinzione della propria innocenza e da un giudizio di inconsistenza sulle accuse mossegli. Alla fine, la Giustizia lo ha premiato, dando ragione e credito alla linea difensiva scelta dai suoi avvocati nel corso degli anni. Fin qui i fatti, sui quali ognuno può giudicare. Personalmente, come cittadino e come uomo politico, mi sento sollevato da una sentenza che sgombra il campo dall’ipotesi inquietante di un ex capo di governo complice della mafia o mandante di assassinii. La ritengo una notizia che fa bene al paese, che può rassicurare l’opinione pubblica e, spero, depotenziare quella polemica distruttiva intorno alla nostra storia passata tanto cara alla componente più spregiudicata e incolta della nuova classe dirigente. Si tratta, per altro, di una sentenza che fa onore alla Magistratura italiana e che conferma la sua capacità di giudicare serenamente. Ciò dimostra anche l’infondatezza della tesi secondo cui senza una separazione delle carriere non è possibile avere una giustizia equilibrata, rigorosa e priva di condizionamenti. La verità è che in Italia la Magistratura giudicante ha dimostrato in tanti casi, recenti e non, di saper decidere con serenità e non in modo prevenuto. Ma la vicenda Andreotti ci parla anche d’altro. Può aiutarci a capire quanto sia dannosa la logica che voglia rileggere la storia d’Italia con le sole categorie del procedimento giudiziario e non con gli strumenti, qualitativamente ben diversi, della riflessione politica e storica. Non lo dico – ci mancherebbe – per negare autonomia e legittimità all’azione della magistratura e dei giudici ai quali spetta, sempre e comunque, il compito di esercitare sino in fondo le proprie funzioni. Lo dico per evitare che questa sentenza d’assoluzione, al pari di altre sentenze anche di segno diverso, venga letta e interpretata come un giudizio storico incontrovertibile sulla natura di complessi processi politici e delle responsabilità individuali a quelli connesse. A scanso d’equivoci, insisto su un punto. Bene ha fatto il senatore Andreotti a difendersi “nei” processi che lo hanno coinvolto e non dagli stessi. Ed anche per questo egli merita il rispetto dovuto a un uomo che ha mostrato, in momenti difficili, un elevato senso dello Stato e delle istituzioni. Tutto ciò non toglie che sia possibile e magari necessario proseguire, su altri piani e con altri mezzi, l’indagine storica e la riflessione politica sulla storia d’Italia, sui limiti e sugli errori della classe dirigente che ne ha guidato le sorti e lo sviluppo lungo cinque decenni di storia. In questo senso, le vecchie polemiche, rinvigorite nella giornata di ieri dallo stesso Andreotti, in merito a presunte responsabilità di Luciano Violante nell’ispirazione di alcune inchieste giudiziarie non aiutano e rischiano soltanto d’alimentare quella spirale perversa della quale per anni Giulio Andreotti è rimasto prigioniero. Ora, sul merito dei rilievi che gli sono stati mossi l’onorevole Violante replica oggi in modo puntuale e dettagliato.

A me sia consentito soltanto citare il passo che la relazione finale della Commissione Antimafia da Violante presieduta – relazione, lo ricordo per inciso, votata all’unanimità dai membri della commissione stessa – dedicò al senatore Andreotti e alla sua corrente politica; “Risultano certi alla Commissione i collegamenti di Salvo Lima con uomini di Cosa Nostra. Egli era il massimo esponente in Sicilia della corrente democristiana che fa capo a Giulio Andreotti. Sulla eventuale responsabilità politica del senatore Andreotti, derivante dai suoi rapporti con Salvo Lima, dovrà pronunciarsi il Parlamento” (i corsivi sono miei). Come si vede, in quella relazione non si denunciavano responsabilità penali d’alcun genere, dal momento che ciò avrebbe sì imposto una trasmissione degli eventuali atti ad una Procura competente. In quel documento si indicava un problema politico e su di quello si invitava il Parlamento a discutere nelle forme e con le prerogative che sono ad esso proprie.

Lo ricordo perché non vorrei che, a proposito di un uso politico della giustizia, si facesse intanto un uso politico della sentenza dell’altro ieri. Pericolo che ci esporrebbe a nuove fatue polemiche su presunti mandanti o complotti, coll’effetto di spegnere il riflettore su un confronto, di gran lunga più significativo, intorno alle responsabilità politiche della lotta alla mafia e ai collegamenti tra la mafia stessa e l’ambito dello Stato e delle istituzioni. Questa riflessione storica non solo non può venire aperta o chiusa dalle sentenze dei giudici, ma dovrebbe essere nell’interesse di tutti, e in primo luogo – mi permetto questo garbato richiamo – del senatore Andreotti, ora che egli è finalmente sollevato dal peso di accuse personali insopportabili. Tanto più un discorso del genere dovrebbe risultare convincente se riteniamo che la chiarezza e la trasparenza della lotta politica siano un valore non meno rilevante dei contenuti che la animano. In questo senso, l’archiviazione delle accuse al senatore Andreotti, potrà servire anche ad archiviare buona parte dei veleni che hanno inquinato, in anni recenti, la politica italiana, restituendo l’onore personale a chi è stato ingiustamente accusato e consentendo a noi tutti di affrontare quella riflessione politica, storica e culturale che finora si è cercato malamente di condurre in una sede impropria.

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