Discorso
5 novembre 2003

Assurde accuse a Prodi per il sondaggio della Ue


Mi sono chiesto come avrei risposto al quesito – così mal posto – del sondaggio europeo che tanto fa discutere e indigna. L’unica risposta giusta sarebbe stata non rispondere. Personalmente non accetto l’idea che uno Stato, un singolo Paese, possa essere considerato di per sé una minaccia per la pace. La considero un’idea figlia di quella concezione degli stati-canaglia che è all’origine del manicheismo neo-conservatore americano e della stessa dottrina di guerra preventiva. In questo senso, un quesito ambiguo può persino alimentare l’idea che la sola esistenza di un determinato Stato costituisca una minaccia per tutti gli altri. Capisco come tutto ciò possa aver toccato un nervo scoperto in un mondo, quello ebraico, che vede misconosciuto da alcuni, e non da oggi, il diritto stesso dello Stato d’Israele ad esistere e che non può avere dimenticato le tragedie generate dall’antisemitismo fino dentro il cuore dell’Europa. Ma per queste stesse ragioni ritengo che si dovrebbe essere più attenti e rigorosi nell’uso, talora improprio, di quella espressione – antisemitismo – giustamente avvertita come terribile. Un sondaggio, per quanto malamente condotto, può esser tacciato di antisemitismo? Oppure, come grottescamente si è fatto con l’aggressione strumentale a Romano Prodi, si può accusare della stessa colpa chi quel sondaggio ha commissionato?
Insisto, possiamo considerare antisemita il 60 per cento dei cittadini europei? E che dire dell’altro 53 per cento che, contemporaneamente, ha denunciato il pericolo incombente dall’Iran o dalla Corea del Nord? Probabilmente, almeno in parte, si tratta delle stesse persone dal momento che la rilevazione consentiva una risposta multipla. Sono contrario per principio all’uso chiassoso e propagandistico dei sondaggi. In primis perché non li considero delle sentenze e tanto meno dei test elettorali. Non servono a stabilire i torti e le ragioni, né a legittimare o delegittimare chi governa. Questo modo di usare le statistiche ha contribuito a imbarbarire la vita politica e civile e a impoverire il confronto delle idee. I sondaggi servono, al massimo – e se fatti bene – a cogliere meglio i sentimenti e le opinioni dei cittadini.

Di ciò la politica deve tenere conto, senza tuttavia rendersene schiava, chè altrimenti rinuncerebbe in tutto o in parte alle sue prerogative, ai suoi valori e scopi, limitandosi a rispecchiare l’opinione contingente della maggioranza, con tutte le sue possibili degenerazioni. Ma se è sbagliato sostituire l’etica dei sondaggi all’etica della convinzione di weberiana memoria, è egualmente errato criminalizzare un sondaggio o non cercare di capire quale ne sia il significato e il messaggio. Su questo vorrei si ragionasse senza pregiudizi. Se avessero chiesto ai cittadini europei, in modo certamente più sobrio e prosaico, “la politica di Sharon aiuta oggi la pace in Medio Oriente?”, credo che la stragrande maggioranza degli intervistati – e io con loro – avrebbe risposto “no”, e lo avrebbe fatto senza timore di venire catalogati come antisemiti. Ecco, forse di questa opinione i governi europei – compreso quello italiano – dovrebbero tenere conto. L’onorevole Fini ha sostenuto ieri che l’errore del sondaggio consiste nel mettere sullo stesso piano gli aggrediti e gli aggressori. Ma chi sono gli aggrediti? E chi sono gli aggressori? Nella tragedia del Medio Oriente non è così facile operare questa distinzione. Il rischio, infatti, è di scadere in una visione rozza, manichea, e soprattutto improduttiva sul piano politico. Israele è certamente un paese aggredito da un terrorismo barbaro e fanatico che nulla al mondo può giustificare. Ma è anche l’aggressore del popolo palestinese, di cui occupa la terra e reprime la rivolta uccidendo con la forza delle armi centinaia di civili inermi (per la precisione sono quasi tremila negli ultimi anni).

La tragedia della Terra Santa sta proprio in questo destino incrociato di due popoli, di due paesi, di due classi dirigenti che possono essere aiutati a trovare la via della pace solo se si riconosce loro una comune responsabilità nella spirale terribile della guerra e dell’odio. Se si muove invece dal pregiudizio secondo cui c’è un aggredito che ha diritto di difendersi e un aggressore che deve ritrarsi non si farà mai un solo passo verso la pace. Questa è la realtà. Tutta la logica della road map si fonda proprio sul parallelismo degli obblighi e degli impegni delle due parti e la posizione di chi dice, “prima fermate i terroristi, poi fermeremo le colonie”, così come quella speculare di chi sostiene “prima ritiratevi, poi fermeremo gli attacchi”, sono, l’una e l’altra, un impedimento alla pace. Per la pace hanno invece lavorato quegli israeliani e quei palestinesi i quali con grande coraggio hanno affrontato gli stessi nodi che la road map rinvia, cercando di definire i contenuti di un accordo sulle questioni più difficili, e indicando un cammino di pace concretamente possibile. Mi spiace dover dire che il governo Berlusconi, schierandosi acriticamente a fianco di Sharon e della sua politica, ha ridotto di molto la possibilità per l’Italia di svolgere un ruolo positivo nella ricerca della pace. Il Medio Oriente avrebbe bisogno di un’Europa capace di essere egualmente vicina al popolo israeliano e al popolo palestinese, ed egualmente capace di spingere con fermezza i leaders di entrambe le parti a muovere sulla strada del dialogo e dell’ascolto reciproco. Speriamo che l’Europa – che oggi trova il modo di azzuffarsi persino attorno a un sondaggio infelice – si ponga invece, presto o tardi, all’altezza di questo compito e della sua funzione.

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