Discorso
12 novembre 2003

Dibattito alla Camera dei Deputati sulla strage di Nassiriya (Iraq)


Signor Presidente, amici deputati, rappresentanti del Governo,

quella di oggi è una tragedia che colpisce l’Italia intera. Mai, in dimensioni così tragiche e devastanti, il nostro Paese era stato colpito, in questo dopoguerra, da un attacco militare e terroristico. Mai le nostre Forze armate avevano pagato un prezzo così alto nel corso di una missione internazionale.
Ci sentiamo vicini all’Arma dei Carabinieri, all’esercito, alle Forze armate tutte, alle famiglie dei caduti, alla trepidazione dei feriti, alle numerose vittime civili irachene che si aggiungono agli altri cittadini di quel paese caduti oggi a Falluja e in altre parti dell’Iraq. Un paese che ci appare sconvolto dalla guerra e in preda al caos.
Un sentimento profondo di solidarietà e di cordoglio, tanto più forte in chi si è trovato – consentitemi di dirlo – per ragioni delle sue responsabilità istituzionali a decidere l’invio di militari italiani in missioni di pace e in chi conosce, in modo anche diretto, la capacità professionale, lo spirito di umanità, l’attenzione alle popolazioni civili, che hanno sempre caratterizzato i nostri militari, che li hanno fatti apprezzare negli scenari più drammatici del mondo.
Non credo che di fronte al barbaro attacco terroristico, nel momento del dolore e dell’orrore, possa venire dal Parlamento la direttiva: ritiratevi! Noi, che se fossimo stati al governo non avremmo mandato nostri militari in Iraq, così come non hanno mandato propri militari molti dei principali paesi europei – la maggioranza di quelli dell’Unione, la quasi totalità dei paesi fondatori dell’Unione europea -, oggi diciamo che, in questo momento, non sarebbe né ragionevole né degno aprire una disputa su questo punto.
Verrà il momento di discutere anche sulla base di un bilancio dell’attuazione della risoluzione n. 1511 che, nei prossimi giorni, attende scadenze determinanti. Occorre verificare a quali condizioni, con quali compiti, in quale contesto di legittimità e di impegno internazionale abbia senso la prosecuzione della presenta italiana in Iraq.
Oggi vi è un appello alla solidarietà e alla coesione. Nessuno di noi può pregiudizialmente sottrarsi al valore di questo appello, ma non sarebbe giusto, neppure verso le vittime, far tacere le ragioni della politica, le ragioni di un esame obiettivo e sereno della realtà.
Solidarietà, certo, per cosa? Per cambiare strada, per aiutare non i nostri soldati, ma la comunità internazionale ad uscire da una situazione disastrosa. L’Iraq non appare sulla via della normalizzazione e della pacificazione: al nord si accendono scontri con i gruppi curdi; l’ONU si è ritirata dall’Iraq, così la Croce Rossa internazionale; nel sud anche tra gli sciiti, che pure furono contro Saddam Hussein, cresce il sentimento antioccidentale.
Ciò è il frutto di una sequela di errori, a partire da una guerra unilaterale non condivisa dalla comunità internazionale, che ha diffuso sentimenti antiamericani e antioccidentali non solo in Iraq, ma in gran parte del mondo islamico; è il frutto di una valutazione sbagliata della situazione da parte di chi credeva che le truppe liberatrici sarebbero state accolte da folle di cittadini festanti; è il frutto di errori che si sono realizzati dal dopoguerra, dallo scioglimento delle forze armate irachene che ha messo allo sbando 300mila persone armate, alla campagna di liquidazione della pubblica amministrazione perché legata al partito Baath, alla campagna contro l’Iran che ha destabilizzato le aree sciite di quel paese.
E, sullo sfondo, c’è l’incapacità dell’Occidente – degli Stati Uniti e dell’Europa – di giocare con forza un ruolo per spingere in avanti con equità un processo di pace nel Medio Oriente che era la principale promessa del dopoguerra verso il mondo arabo; c’è il sostegno acritico all’occupazione militare dei territori, alla costruzione del muro, alla logica della repressione.
Dunque, è evidente che si deve cambiare strada. E’ evidente che questa strategia di lotta al terrorismo non solo non ha ridotto ma ha accresciuto il pericolo: rischia di determinare un allargamento del conflitto, rischia di precipitare il mondo verso quel conflitto di civiltà che è esattamente ciò che i terroristi vogliono.
La strada è certamente l’ONU; è certamente la costruzione delle condizioni per l’autogoverno iracheno; è un rinnovato impegno comune dell’Europa, per il quale vorremmo che il governo italiano facesse di più.
E’ necessaria una svolta e per una svolta noi siamo pronti. La retorica non renderebbe onore neppure a chi è caduto per la pace e nella lotta contro il terrorismo.

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