Discorso
16 dicembre 2003

Non deve far paura l’Europa a due velocità


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Quasi scontato nei commenti di ieri il parallelo tra il sabato rovinoso dell'Europa e quello trionfale di Bush. Di qua il fallimento della Conferenza Intergovernativa. Di là le immagini di Saddam piegato e sconfitto. Due eventi così diversi a sigillare, secondo alcuni, la paralisi europea di contro all'efficacia della nuova strategia americana dopo l'undici settembre. Che a Bruxelles si sia consumato un insuccesso, dunque qualcosa più che una semplice battuta d'arresto, è fuori discussione. Come pure non c'è dubbio che la cattura dell'ex rais può segnare una svolta nella crisi di quel paese aprendo la via - almeno questo è l'augurio di tutti - a un'accelerazione della transizione democratica dell' Iraq. Resta la contrarietà a una guerra avviata e condotta senza un mandato internazionale dell'Onu e che fin qui ha generato, oltre alla caduta del regime iracheno, un lungo e doloroso elenco di vittime e attentati frutto non già della sconfitta del terrorismo fondamentalista ma di una sua pericolosa espansione. Ragione per cui non sono chiari i motivi che dovrebbero imporci una correzione della linea seguita fin qui. Anzi, tanto più adesso, alla luce dell'arresto di Saddam, è giusto chiedere che la sovranità sull'Iraq venga rapidamente restituita agli iracheni e che si avvii quell'opera di riconciliazione della quale ha parlato nella giornata di ieri lo stesso Tony Blair.

Ora, di fronte al combinarsi dei due avvenimenti, davvero la sola sintesi possibile è nell'indicare "la vittoria dell'America e la sconfitta dell'Europa"? Non vorrei che la foga di alcuni commenti letti in queste ore finisse col rimuovere i termini reali del problema. La verità è che gli accadimenti enormi* dì questi giorni confermano l'urgenza di avere più e non meno Europa. Nel senso di una nostra maggiore capacità d i pesare su scelte e indirizzi di governo della globalizzazione. Da questo punto di vista il fallimento della Cig non è liquidabile col ritorno alla diplomazia del sorriso e delle pacche sulle spalle. Forse in cuor suo neppure Berlusconi crede davvero che da Bruxelles «l'Italia esce con un grandissimo risultato». Parole a dir poco stonate. Così come a poco vale rinfacciarsi i bicchieri mezzo pieni e mezzo vuoti.

La verità è che il progetto di nuova Costituzione europea frana non già sui dettagli tecnici ma sull'assenza di una chiara visione del futuro politico dell'Europa e dei sistema di regole da porre a suo fondamento. Non è cosa da poco. Si dirà che la cronaca recente non poteva che spingere a una conclusione del genere. La spaccatura sull'Iraq, il ricomporsi di un asse franco-tedesco in conflitto con l'iper-atlantismo di Blair, la scelta di violare il Patto di stabilità e, non ultimo, la disarmante politica estera del nostro governa. Quel che affiora dalla somma di questi e altri fattori è una crisi dell'Europa che non si misura sul terreno del Pil ma della sua identità e vocazione. Insomma dell' anima di un'Europa che, posta di fronte a sfide storiche, anziché apparire unita intorno ai suoi valori si è mostrata divisa, furba, disposta a trattare singolarmente il posto d'onore a un tavolo imbandito altrove.

Questo è il punto. Nel fatto che dopo l'undici settembre l'Europa non è stata in grado di assolvere il suo ruolo di grande soggetto globale. Ha smarrito la sua forza indirizzandola verso strategie spesso contrapposte. Coll'effetto di rendere molto ardua, se non impossibile, la ricerca di, un accordo sul terreno dei principi e delle regole di una convivenza sovranazionale. Il risultato è che i presunti interessi nazionali sono tornati a prevalere sulle mete comuni. Certo, l'allargamento a venticinque e la necessità di dar corpo c spirito, oltre che norme, all'Europa politica erano in partenza traguardi ambiziosi. La questione, adesso, è come ripartire, sapendo che senza un sussulto della politica l'ambizione riposta in quegli obiettivi è destinata a fallire, col risultato - a quel punto sì - di dare ragione a quanti vedono negli Stati Uniti l'unico faro della politica globale. Saranno i prossimi mesi a dirci se la risposta a questi nodi passerà per il riemergere di un gruppo di "paesi pionieri" secondo l'espressione dì Chirac.

La mia opinione è che la via delle cooperazioni rafforzate, così come venne definita negli accordi di Nizza, diventa a questo punto la sola strategia perseguibile. E francamente non capisco i timori manifestati verso un'Europa, ancora per una fase, a due velocità. E' la soluzione che sola, nelle condizioni date, può funzionare da stimolo e traino per quelle nazioni tuttora scettiche sulle potenzialità di un'integrazione più coraggiosa. In questo senso il "no" frettoloso di Berlusconi sembra più l'ennesimo riflesso antieuropeo che una scelta motivata e ragionevole. Qualcosa di coerente, del resto, col comportamento dell'Italia lungo l'intero semestre. Se infatti è vero che il fallimento del negoziato non è imputabile in toto al dilettantismo del nostro Presidente del Consiglio, al pari esso è anche figlio di una presidenza italiana che ha manifestato tutti i limiti della sua cultura politica, e in particolare una visione dell'Europa come problema piuttosto che destino della nazione italiana.

La verità è che noi abbiamo finito con l'incoraggiare proprio durante il semestre di nostra presidenza posizioni apertamente antieuropee. Sino al paradosso che sono stati i più "cari amici" di Berlusconi a dare il colpo finale alla trattativa. Cosicché l'Italia paga oggi un prezzo elevato per aver dato seguito a politiche che hanno finito coll'indebolire l'Europa. Diciamo che abbiamo sprecato un'occasione storica. Toccherà adesso al centrosinistra recuperare nella sua agenda una forte matrice europeista, restituendo a questa scelta il carattere di vera discriminante che essa ha avuto nel recente passato.

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