Discorso
6 maggio 2004

Al governo non basta la longevità

L'opinione di D'Alema


I record, nel bene o nel male, fanno notizia. Anche quelli prevedibili.
E un traguardo largamente previsto è quello varcato ieri dal governo Berlusconi, in carica da 1060 giorni. Uno in più del primato conseguito da Craxi negli anni Ottanta. I numeri, d'altra parte, contano anche in politica. E la maggioranza gode oggi in Parlamento di un vantaggio tale da rendere la sua navigazione spedita, almeno sotto il profilo dei rapporti di forza. Ragione per cui si potrebbe liquidare l'anniversario come un fatto minore. Una nota statistica, anche se significativa in un paese a lungo orfano di uno straccio di stabilità. Il punto è che l'aspetto quantitativo da solo non rende il senso di un avvenimento che va interpretato nella sua dimensione più vera. Quella di una valutazione di merito su obiettivi raggiunti e promesse mancate.
Insomma di un consuntivo, parziale fin che si vuole, ma doveroso se la riflessione da encomiastica voglia farsi seria.
E qui purtroppo le note dolenti superano le più pessimistiche previsioni degli avversari. Con una lista di smacchi, ritardi e insuccessi che all'indomani del 2001 pochi avrebbero immaginato. E' vero, in campagna elettorale si usa un linguaggio che non sempre la realtà complessa del governo consente di rispettare alla lettera. Come è vero che alcuni dei problemi aperti non si possono far risalire tout court al successo della destra o all'imperizia del suo leader. L'undici settembre, per citare la data simbolo di una rottura dei vecchi equilibri, o il venire al pettine di antichi nodi connessi al modello di crescita dell'impresa e dell'economia italiane, sono entrambe, seppure in forme diverse, espressioni di un'evoluzione delle cose almeno in parte imprevedibile.
Ma neppure si possono considerare gli eventi del mondo come l'alibi, l'excusatio perenne, di una classe politica sfuggente di fronte alle proprie responsabilità.
E veniamo al punto. L'Italia non ha sofferto in questi anni la crisi d'Eurolandia al pari di quanto è accaduto ad altri. Ne ha sofferto di più come dimostrano analisi e percentuali.
Abbiamo avuto una crescita tra le più basse (e ben distante dalle cifre annunciate dal governo in sede di previsione). Un declassamento del nostro profilo produttivo (col rischio di assistere ancora in queste ore al collasso di un simbolo industriale e di un marchio prestigioso come Alitalia). Siamo pericolosamente indietreggiati nei cosiddetti settori di punta. Quelli dove più accentuata è la sfida della competitività, meno tollerata l'assenza di dinamismo, assolutamente decisiva la capacità di produrre innovazione, ricerca, nuovi saperi. Le ricadute di uno scenario del genere sono davanti a noi.
L'Italia è un paese meno sicuro dei propri mezzi. Dove cresce l'allarme e la tensione sociale in ragione di un'aspettativa di vita e di reddito che si sta via via divaricando dalle opportunità effettivamente disponibili. Un paese dove i più giovani, per la prima volta da anni, paventano un futuro meno garantito e sereno di quello dei loro genitori. E tutto questo senza tornare sul tema spinoso del costo della vita e di un'ansia crescente dei cosiddetti ceti medi, esposti per la prima volta al pericolo di una brusca retromarcia sociale. Sono queste da parecchi mesi le ragioni di allarme del paese. Ansie che, ancora nei giorni scorsi, il capo dello Stato ha tradotto in una riflessione acuta e della quale troppo poco si è discusso. E naturalmente sono queste anche le ragioni che rendono incongruo qualsivoglia tributo alla durata del governo in carica. Anzi, basterebbero i cenni fatti a confermare come il prolungarsi nel tempo di un'esperienza tanto negativa in alcun modo possa compensare il deficit di risultati. Tanto più che una buona parte dei guasti prodotti si sarebbero potuti evitare se solo maggioranza e governo non avessero dedicato tempo e risorse al varo di provvedimenti dalla dubbia legittimità e finalizzati nella sostanza a tutelare gli interessi e le sorti del presidente del Consiglio e di qualche famiglio.
La realtà spiace dirlo è che a pagare il prezzo maggiore per questo scarto incolmabile tra longevità e risultati ancora una volta sarà l’Italia. E in particolare milioni di cittadini tra i quali tanti che a Berlusconi e alle sue promesse avevano creduto. Il che, immagino, renderà ancora più diffusa e profonda la disillusione come testimoniato dai vari sondaggi pubblicati nella giornata di ieri e concordi nel registrare una caduta verticale della fiducia nei confronti del premier e dei consensi al suo partito. Abbiamo perduto tre anni, ecco il punto. Tre anni di tempo prezioso che un governo autorevole e meno prono agli umori del padrone avrebbe dedicato a obiettivi ragionevoli. In primis, il riconoscimento reciproco tra schieramenti, un rispetto maggiore delle regole e del Parlamento, la ricerca di una rinnovata concertazione con le parti sociali, la difesa della nostra autonomia e di uno spirito sinceramente europeista in politica estera. E’ accaduto l’esatto contrario. E ciò non può che caricare sulle spalle rafforzate dell’opposizione la responsabilità di dare gambe a un’alternativa possibile. Ne ha bisogno il Paese giunto al compleanno del governo stanco e col fiato corto ma che ha in sé risorse e capacità per reagire nel modo giusto. Non adagiandosi nella lamentazione e riscoprendo invece le ragioni di un impegno e di speranze comuni. Naturalmente perché accada qualcosa del genere serve una classe dirigente e di governo all’altezza. Meno inclina a celebrare se stessa e più consapevole del proprio ruolo e delle proprie responsabilità.

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