Discorso
17 giugno 2004

Cerimonia in ricordo di Enrico Berlinguer


berlinguer140_img.jpg
Signor Presidente della Repubblica
Signor Presidente della Camera dei Deputati
Cara signora Letizia Berlinguer, cara Bianca, cara Maria, caro Marco, cari Giovanni e Luigi


Enrico Berlinguer è stato uno dei protagonisti maggiori della storia dell’Italia repubblicana. Egli fu senza dubbio tra le grandi personalità della generazione che venne subito dopo quella dei padri fondatori della Repubblica. E fu anche uno dei pochi leader italiani nel Dopoguerra ad avere assunto un rilievo nella vita politica internazionale dove seppe conquistare stima e prestigio e suscitare attenzione verso l’esperienza del comunismo italiano non solo negli ambienti politici ma anche in un’opinione pubblica più larga. E tutto ciò appare ancora più singolare e straordinario in quanto Enrico Berlinguer fu un leader politico che non raggiunse mai la possibilità di governare il nostro Paese.

L’Italia e il mondo di oggi sono profondamente mutati rispetto al suo tempo. E’ caduto il muro di Berlino. E’ finita la Guerra fredda. L’Unione Sovietica è scomparsa e l’intero castello del socialismo reale nell’Est europeo è crollato.

Non esiste più un vero e proprio movimento del comunismo internazionale e la sinistra si trova ad operare in uno scenario nuovo e assai diverso rispetto a quello nel quale Berlinguer elaborò la sua critica al dogmatismo sovietico e la sua visione dell’eurocomunismo e della Terza via.

In Italia quel sistema dei partiti di cui egli fu uno dei protagonisti – e di cui difese il valore democratico, pure percependone i limiti e la crisi – è crollato all’inizio degli anni ’90.

Non esistono più il suo partito – il Pci – la Democrazia cristiana, il Partito socialista e le altre formazioni che hanno dato vita alla cosiddetta Prima Repubblica.

Ci misuriamo in un quadro del tutto nuovo con le sfide di un bipolarismo che, sia pure confuso e fragile, ha consentito tuttavia nel breve volgere di un decennio sia agli eredi del Movimento Sociale Italiano sia agli eredi del Pci di governare il paese. Cosa questa che nei quarantacinque anni precedenti sarebbe stata considerata impensabile.

Molte cose dunque sono cambiate. E nulla è come prima. Eppure Enrico Berlinguer, che potrebbe apparirci ed è per molti aspetti, uomo di un altro tempo continua a esercitare un grande fascino persino tra giovani militanti che non lo hanno mai conosciuto. Continua ad essere al centro di dibattiti controversi e appassionati e a venire considerato una fonte ispiratrice per la politica di oggi.

Si tratta davvero di un segno straordinario della sua personalità e del suo carisma, dell’impronta lasciata dalla sua esperienza umana, politica e intellettuale.

Io voglio solo esprimere l’auspicio che accanto al dibattito politico nel quale non può che essere considerato legittimo da parte di chiunque riferirsi all’insegnamento e al pensiero di Enrico Berlinguer, si sviluppi più ampiamente una riflessione critica e una ricerca storiografica capaci di affrontare più serenamente non solo la valutazione sulla sua opera ma sull’intero periodo storico di cui egli fu protagonista accanto ad altri. Un periodo complesso e drammatico così cruciale della storia italiana e così importante anche ai fini della comprensione dei problemi di oggi.

In questa sede non c’è da parte mia la pretesa di contribuire a tale ricerca né del resto questo è il luogo per alimentare un dibattito destinato a proseguire in futuro. Più semplicemente abbiamo la volontà di ricordare insieme, con un omaggio sincero, un uomo che seppe conquistare rispetto e stima non solo da parte dei suoi compagni ed amici, ma anche da parte di molti avversari. Un uomo, soprattutto, che ebbe e continua ad avere l’affetto di moltissimi cittadini comuni. Cosa certamente non facile in un paese da sempre diffidente verso la politica e i suoi protagonisti.

Della prima giovinezza di Enrico Berlinguer – che nacque a Sassari il 25 maggio del 1922 da Mario Berlinguer e Mariuccia Loriga – ha scritto magistralmente Giuseppe Fiori. E la sua biografia resta una lettura essenziale per comprendere i caratteri, i sentimenti e l’ispirazione ideale di Enrico.

Crebbe in una famiglia della borghesia intellettuale, aperta e di forte ispirazione democratica.

Dal nonno paterno, Enrico, di cui prese il nome, repubblicano e mazziniano, a quello materno, scienziato igienista di idee socialiste e positiviste, al padre Mario, coraggioso avvocato antifascista, deputato liberaldemocratico a 33 anni accanto a Giovanni Amendola e poi esponente del Partito d’Azione.

Il fratello Giovanni ha rievocato di recente la formazione giovanile di Enrico e sua: le prime letture all’epoca proibite, poi la scelta di diventare comunista nell’estate del ’43 alla vigilia della liberazione della Sardegna.

Certamente, come molti giovani della sua generazione, egli fu spinto a quella scelta dal sentimento antifascista e dalla considerazione che il Pci era nella lotta contro il regime la forza più conseguente e attiva. Ma pesò anche, come egli ebbe a ricordare molti anni dopo in una intervista a Enzo Biagi: “l’incontro con operai e artigiani che avevano seguito Bordiga e che anche durante il fascismo avevano conservato i loro ideali. C’era nelle loro vicende molta suggestione.”

Colpisce in un uomo con il suo carattere – timido, schivo, quasi aristocratico nei tratti – questa capacità di rapporto con le persone più semplici che mantenne per tutta la sua vita. Questa attenzione così piena di rispetto e di umanità che nasce anche dalla solidarietà verso chi vive l’esperienza della fatica e soffre sulla pelle l’ingiustizia sociale.

Tutto ciò fu molto importante nella sua formazione e si collocò alla radice di quel suo comunismo etico più che ideologico che ne fece una personalità per molti versi singolare.

E’ questo un tratto profondo che aiuta a capire perché egli, molti anni dopo, rivendicò con orgoglio come un suo merito l’essere rimasto fedele agli ideali della propria giovinezza.

Credo che Enrico Berlinguer non amasse la battuta celebre e pungente di Giancarlo Pajetta secondo cui si era “iscritto giovanissimo alla Direzione del Pci”. In primo luogo perché contestava che fosse vero.

Ricordo che quando fui inviato, dopo l’esperienza di segretario della Fgci, a far parte della segreteria regionale della Puglia, mi disse, forse per incoraggiarmi, che anche a lui era capitato di tornare in Sardegna per aiutare il segretario dell’epoca, Renzo Laconi. E aggiunse che l’esperienza aveva avuto per lui un grande valore formativo.

In effetti quella era la regola, piuttosto severa, del partito di allora. Più che una carriera burocratica quello che si doveva seguire era un percorso educativo fondato su esperienze diverse, prove di direzione e occasioni per conoscere la realtà internazionale, in un vero e proprio processo di formazione della classe dirigente governato dall’alto in modo selettivo e illuminato, almeno fino a quando quel modello ha ben funzionato.

Lungo questo cammino Berlinguer sviluppò le sue qualità che comprendevano la disciplina e il senso del partito, espressione quest’ultima carica di ambiguità, e che però nella sua versione migliore non significava rinuncia alla propria individualità ma capacità di porre le proprie ambizioni al servizio di una causa comune e di un organismo collettivo, senza vanità e arroganza.

Berlinguer, per i risultati del suo lavoro e anche per l’equilibrio politico dimostrato nel confronto aspro e complesso che seguì la morte di Togliatti, seppe affermarsi fino ad essere indicato come la personalità sulla quale puntare per la leadership del partito.

E’ il febbraio del 1969 quando, a conclusione del XII Congresso del Pci, egli affianca Luigi Longo assumendo la carica di vicesegretario.

Enrico Berlinguer si affaccia così sulla scena politica italiana e si presenta a quella parte larga di opinione pubblica che non lo conosceva. Lo fa con un discorso di grande apertura politica e culturale rivolto in prevalenza alla generazione più giovane. Quella protagonista del 1968 e verso la quale egli getta da subito un ponte che si rivelerà fondamentale per il destino della sinistra italiana.

Da quel momento Berlinguer diventa uno dei protagonisti della vita politica e lo sarà fino alla drammatica serata di Padova, il 7 giugno di vent’anni fa, quando il male improvvisamente lo aggredisce sottraendolo per sempre all’impegno e alla vita.

I quindici anni che vanno dalla rottura del 1968 fino alla scomparsa di Berlinguer sono stati un periodo cruciale per la storia del Paese. Una stagione segnata da grandi trasformazioni e sfide drammatiche per la nostra democrazia.

E’ quella l’Italia che vive il declino del centrosinistra, che conosce le grandi lotte operaie e giovanili, il moto di liberazione femminile e i mutamenti del costume e del senso comune testimoniati dalle battaglie per i diritti civili. Ma è anche un paese – non va dimenticato – nel quale si accresce la difficoltà del sistema politico e delle istituzioni a dare risposta ai grandi bisogni sociali e a un nuovo spirito pubblico.

Anche in altri paesi negli anni ’60 e ’70 si manifestarono fenomeni analoghi che dettero avvio a ricambi radicali nella classe dirigente e nelle esperienze di governo.

In Francia inizia nel ’68 la lunga marcia di Mitterrand verso l’Eliseo, mentre in Germania si avvia quel processo che, preceduto dalla Grosse Koalition, porterà l’Spd alla guida del paese.

In Italia questa prospettiva di alternanza nella guida del governo appare preclusa e il paese risulta prigioniero di un’anomalia segnata da un lato dalla fragilità delle sue istituzioni democratiche, con la costante tentazione autoritaria di una parte della classe dirigente e il peso di poteri illegali, dall’altro dall’esistenza di un forte partito comunista non abilitato però a rappresentare un’alternativa di governo nell’Europa ancora divisa dalla guerra fredda.

E’ in questo contesto che l’Italia si misura con il rischio di un indebolimento e persino di un degrado del sistema democratico.

Un rischio che Berlinguer percepì in modo acutissimo.

La strategia del compromesso storico fu il modo in cui egli cercò di forzare i limiti entro i quali si sviluppava l’azione del Pci; di consolidare e difendere il sistema democratico attraverso il dialogo e la cooperazione tra le grandi forze popolari, cercando nello stesso tempo di avvicinare i comunisti all’area e a una cultura di governo.

Questa strategia non è riducibile all’esperienza dei governi di unità nazionale.

Nel 1978 ad Eugenio Scalfari che gli chiese di spiegare con parole semplici cosa fosse davvero il compromesso storico, Berlinguer rispose: “Noi siamo certi che l’Italia è un paese che ha bisogno di grandi trasformazioni sociali, economiche, politiche: un rinnovamento profondo delle strutture della morale pubblica, dell’organizzazione sociale. E’ impossibile cominciare e condurre avanti queste trasformazioni senza l’accordo delle grandi forze sociali (operai, la borghesia produttiva, contadini, masse giovanili, femminili) e politiche (comunisti, socialisti, cattolici, laici). Questa corresponsabilità storica non vincola necessariamente tutti a partecipare alla maggioranza e al governo. Sono possibili, di volta in volta, formule politiche, coalizioni di governo e maggioranze diverse. Purché rimangano quella comune responsabilità, quella solidarietà nazionale, quello sforzo di comprensione reciproca e soprattutto l’impegno comune di trasformare il paese. Questo è il compromesso storico.”

E’ certo possibile ritenere oggi che per rendere effettivo quel ricambio di formule di governo, e dunque concreta un’alternanza fra forze progressiste e conservatrici come accadeva nel resto d’Europa, sarebbero state necessarie innovazioni più radicali di fronte alle quali lo stesso Berlinguer si arrestò.

Ma sarebbe assurdo rimproverare a lui di non aver compiuto cambiamenti e svolte che richiesero anche ai suoi successori (e noi tra questi) anni di maturazione che si compirono soltanto di fronte a rotture storiche profonde: la caduta del Muro di Berlino e il mutamento radicale del contesto mondiale.

Vale piuttosto la pena di ricordare come senza l’assunzione di quella comune responsabilità da parte del più grande partito di opposizione difficilmente il Paese avrebbe affrontato con successo la sfida dell’eversione e del terrorismo e la grave crisi economica e finanziaria che investì l’Italia alla metà degli anni ’70.

Il ruolo di frontiera del Pci di Berlinguer valse, se non ad evitare, almeno ad arginare la crisi del rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni e a consolidare nel Paese un quadro di valori largamente condivisi. Componente essenziale questa nella tenuta di ogni democrazia.

In questo senso fu fondamentale il suo impegno nel rapporto con il mondo cattolico. Una relazione che si spinse oltre i confini del dialogo, coltivando un vero e proprio incontro sul terreno dei valori e della concezione dell’etica pubblica.

Su questo piano, del resto, oltre alla ricchezza dell’elaborazione politica e intellettuale, fu il suo profilo umano a fare di Berlinguer un leader comunista singolarmente compreso e apprezzato e persino amato da molti cattolici italiani.

Penso che tutto ciò contribuì non poco a far uscire l’Italia dal clima della guerra fredda e a gettare le basi per una collaborazione più organica tra una parte del mondo cattolico e la sinistra. Collaborazione senza la quale non avrebbe mai potuto realizzarsi in questo paese una vera democrazia dell’alternanza.

Egualmente, fu nel quadro della politica del compromesso storico che maturò quella convergenza sulle grandi scelte della politica estera e quel mutamento della collocazione internazionale del Pci che resta forse il contributo più importante di Enrico Berlinguer al rafforzamento della nostra democrazia italiana.

Giorgio Napolitano in una recente e bella conferenza sull’impegno europeista di Enrico Berlinguer ha rievocato il rapporto che si costruì fra Altiero Spinelli e il segretario del Pci. Si trattò di una collaborazione viva, resa più semplice da una stima reciproca e da una sincera convergenza ideale e politica.

Dice Napolitano; “Fu Berlinguer a far proprie le impostazioni più avanzate dell’europeismo italiano” portando a compimento l’evoluzione di un decennio cui avevano contribuito grandi personalità come Giorgio Amendola, Nilde Jotti, Silvio Leonardi.

Egli superò coraggiosamente ogni possibile e poco credibile distinzione tra scelta europeista e scelta atlantica arrivando a sostenere che anche la prospettiva del socialismo in Occidente, perseguita dal Pci, fosse meno a rischio grazie “all’ombrello protettivo della Nato” rispetto all’egemonismo sovietico e alla teoria brezneviana della sovranità limitata”.

Credo si possa dire che questa visione non venne nella sostanza mai meno neppure nei momenti di conflitto e contraddizione come furono quelli degli anni successivi di crisi della politica di distensione e di contrasto sulla scelta degli euromissili.

E’ ancora Giorgio Napolitano che ricorda la testimonianza di Altiero Spinelli nei giorni della scomparsa di Berlinguer: “Quest’uomo chiuso e intenso mi piaceva e la sua scomparsa mi rattrista fino al fondo dell’anima”. E ancora, “egli ha capito come pochi il significato della politica europea (…) se ne va lasciando in eredità un partito democratico europeo”.

Berlinguer cercò di spingersi oltre e cioè di proiettare su scala internazionale quel nesso tra comunismo e democrazia che fu proprio dell’esperienza italiana. Fu il tentativo dell’eurocomunismo e la ricerca di una terza via.

Ma questo sforzo si rivelò, pure nella sua generosità, fragile e utopistico perché privo di interlocutori significativi nel campo comunista e perché si scontrò con il prevalere di una cristallizzazione dogmatica e totalitaria all’Est dopo il sussulto della Primavera di Praga.

Rimase la ricollocazione del Pci sulla scena internazionale e l’avvio di un dialogo con la sinistra democratica europea, in particolare con la Spd di Willy Brandt: eredità comunque importanti per la democrazia italiana e premesse per le innovazioni future della sinistra nel nostro paese.

Con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro si avvia il declino della solidarietà nazionale che porterà, dopo la sconfitta del Pci nelle elezioni del 1979, a una fase nuova della vita politica italiana.

Sono gli ultimi anni della vita e dell’azione politica di Enrico Berlinguer. In verità questo passaggio si accompagna anche ad un brusco peggioramento dello scenario internazionale dove all’irrigidimento sovietico fa riscontro una ventata neoconservatrice in Occidente.

Concorsero dunque molti fattori all’esaurimento della fase politica della solidarietà, ma fu la scomparsa di Moro che fece venire meno un punto di riferimento essenziale della politica berlingueriana.

Credo che poche persone abbiano vissuto drammaticamente come Enrico Berlinguer il contrasto tra la politica della fermezza divenuta irrinunciabile per la difesa del sistema democratico e la consapevolezza che il prezzo di quella scelta potesse essere la vita di Aldo Moro. Non solo perché la elaborazione di Berlinguer sul compromesso storico si svolse in parallelo con la ricerca morotea su una terza fase della storia della repubblica e fu anzi Moro a indicare nel modo più netto una visione della solidarietà in funzione del compimento della democrazia e della possibilità dell’alternanza, ma anche perché fra i due vi era una comprensione e una fiducia sul piano personale.

Entrambi avevano il senso della pesante responsabilità della politica e dei suoi costi in termini umani. Il che non significa rinunciare all’ambizione personale o all’esercizio del potere ma colloca questi aspetti nell’ambito di una concezione della politica come servizio e responsabilità e nello stesso tempo come svolgimento di grandi disegni storici.

Con la morte di Moro e la successiva fine della politica di solidarietà sembra chiudersi per Berlinguer il tentativo di una rigenerazione del sistema democratico e dei partiti dal suo interno.

Ai suoi occhi viene avanti una nuova idea della politica come occupazione dello Stato, clientelismo, individualismo arrogante e senza scrupoli.

Egli percepisce acutamente e con ragione il rischio di una degenerazione del sistema politico. E ponendo la questione morale pone in realtà il problema della democrazia e delle sue basi di consenso e di legittimazione che si sgretolano se viene meno il nesso tra etica e politica.

Difficile dire che avesse torto.

Gli anni che seguirono dimostrarono che il rischio di un collasso era reale e la mancata capacità della politica di curare i propri mali finì per delegare ad altri poteri il compito di determinare un ricambio sommario e brutale della classe dirigente del paese.

Tuttavia dobbiamo dire, noi che fummo con Berlinguer – toto corde – in quell’aspra battaglia, che il nostro errore fu nel non vedere anche le ragioni degli altri. Ragioni che solo alcuni fra di noi seppero riconoscere.

La questione morale si presentava anche come l’altra faccia di una democrazia bloccata, incapace di favorire governi stabili, una chiara distinzione di responsabilità tra maggioranza e opposizione, un ricambio di classi dirigenti.

E invece noi guardammo a lungo con diffidenza l’idea di una radicale riforma delle istituzioni o di una democrazia governante, preoccupati dal rischio che un mutamento in chiave presidenzialistica o nuove leggi di segno maggioritario potessero ridurre non solo gli spazi democratici ma il peso condizionate del Pci e delle istanze da esso rappresentate.

In questo senso la diversità comunista non fu soltanto la difesa orgogliosa e legittima di un patrimonio morale ma anche la preservazione di un’anomalia italiana e della non candidabilità al governo della maggiore forza di opposizione.

Non è mia intenzione entrare nel dibattito, ancora così vivo, che pone a confronto il Berlinguer del compromesso storico con il suo impegno degli ultimi anni.

Dibattito dove alcuni privilegiano il periodo della solidarietà, considerando gli anni successivi come un momento di arretramento o di involuzione settaria, mentre altri valorizzano la radicalità innovativa della sua opera dal momento in cui egli si liberò dalle pastoie del compromesso con la Democrazia Cristiana.

E’ una discussione legittima ma fortemente segnata, come è comprensibile, dalla passione politica.

Preferisco vedere gli elementi di continuità ed anche cercare di liberare l’immagine dell’ultimo Berlinguer da quel duello con Bettino Craxi che ha finito per rappresentare, nell’immaginario di molti, i due maggiori leader della sinistra italiana come i duellanti del racconto di Conrad.

La mia opinione è che l’ultimo Berlinguer non sia riducibile allo scontro con Craxi. Non solo perché lo scontro e l’incomprensione fra Pci e Psi proseguirono ben oltre la scomparsa di Enrico Berlinguer. Ma perché in modo non meno aspro – nel quadro di una collaborazione conflittuale di governo – gli anni ’80 furono segnati anche da uno scontro fra Psi e Dc; mentre con la politica del preambolo si era allentato gravemente anche il filo del dialogo fra comunisti e democristiani.

Insomma nella crisi drammatica degli anni ’80 ciò che venne meno fu proprio il senso di una comune responsabilità fra le forze democratiche. Segno questo che si era esaurita tutta una fase della storia italiana e che in modi diversi erano entrati in crisi le culture politiche e le formazioni popolari che avevano sorretto la costruzione della democrazia dopo il fascismo e la Resistenza.

Enrico Berlinguer fu partecipe e testimone di questa grande crisi.

Non ha torto chi, come Aldo Tortorella, recentemente ha osservato che Berlinguer parlando “dell’esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione d’Ottobre” si riferisse non soltanto all’Est europeo ma anche alle ragioni fondative del Partito comunista italiano.

Egli si batté appassionatamente per ridare un fondamento ideale all’agire politico innanzitutto del proprio partito.

In questa ricerca seppe rivolgere lo sguardo al futuro spingendosi – ultimo grande leader comunista – ben oltre i confini della sua tradizione. Sull’onda di quei pensieri lunghi che lo appassionavano egli cercò nuove chiavi per interpretare la realtà e le sue contraddizioni, per indagare il senso delle grandi trasformazioni globali.

Lo fece affrontando i temi della liberazione femminile e della contraddizione di genere; misurandosi con il contrasto tra Nord e Sud nel quadro di una globalizzazione priva di governo e portatrice di nuove disuguaglianze e di pericoli di guerra; affrontando il rapporto tra sviluppo e ambiente e quindi del modello di sviluppo e quello della sconvolgente rivoluzione tecnologica nel suo rapporto con la democrazia e con la condizione umana.

In questo impegno Berlinguer incrocia non a caso la riflessione delle personalità più moderne della sinistra europea: da Willy Brandt a Olof Palme e anticipa molti dei grandi nodi che la politica e la sinistra si troveranno ad affrontare negli anni successivi e sino ad oggi.

La sua sfida si interrompe qui.

Bruscamente spezzata nel vivo di un impegno umano e intellettuale vissuto fino all’ultimo con rigore strenuo fino alle ultime parole pronunciate su quel palco di Padova.

Viene in mente ciò che aveva scritto in una lettera a Gillo Pontecorvo nel marzo del 1972, “Caro Gillo sono un po’ “cresciuto” ma tu non immagini quanto sento i limiti della mia forza, così impari alle responsabilità che mi sono cadute addosso”.

Questo contrasto tra la sua apparente fragilità e la forza della sua personalità fu certo una delle ragioni del suo fascino e tante persone gli vollero bene anche per questo. Perché – come scrisse Giuseppe Fiori – lo sentivano autentico, non scisso tra immagine e realtà. Un uomo giusto e non soltanto predicatore di giustizia, un uomo morale e non solo un predicatore di moralità in un’epoca di immoralismi persino teorizzati come necessità.

stampa