Massimo D’Alema, la notte della battaglia elettorale americana, ha dormito benissimo: “Ho una grande fortuna, non vengo preso dalla fibrillazione per i risultati. Anche nel 2000, alle regionali, a mezzanotte e mezzo sono andato a dormire. La mattina dopo mi sono svegliato e mi sono dimesso da Presidente del Consiglio”. Mercoledì tre novembre, con tre Stati ancora da assegnare, il Presidente Ds riconosce a John Kerry l’onore alla armi: “I democratici hanno fatto una bella campagna elettorale. Con la guerra in corso, Bush avrebbe dovuto raccogliere un plebiscito. Invece è stato costretto a battersi voto per voto, in una situazione incerta fino all’ultimo”. D’Alema trae due lezioni dalle presidenziali americane: “La destra non si batte solo con il politically correct, ma accettando la sfida sui valori. E non c’è spazio per i radicalismi: si vince solo se si capiscono le ragioni della destra, in particolare il bisogno della sicurezza, e si dimostra che la loro è una risposta illusoria, la nostra più efficace”. Niente più campagne elettorali affidate ai Michael Moore, dunque, in America come in Italia.
Nonostante le bugie sulle armi di distruzione, le torture, i morti in Iraq, Bush ha superato Kerry nel consenso popolare. La guerra paga?“La guerra paga. Sempre. Fa scattare un sentimento di paura che genera stabilità. Il cambiamento inevitabilmente produce incertezza. Il dato che più mi colpisce è la spaccatura della società americana, non solo verticale, tra partiti, ma anche orizzontale: i democratici prevalgono nelle aree più evolute, nelle grandi città, sulle due coste. In mezzo c’è un America profonda che si è riconosciuta in Bush, Kerry piaceva di più agli europei ed è normale che nella nostra opinione pubblica ci sia sentimento di delusione e di distanza: ma forse tanti americani lo hanno vissuto come un presidente da esportazione, lo hanno poco compreso e poco amato”.
Gli americani hanno votato ragionando sulle paure, sul timore di un nuovo 11 settembre. Ora il dialogo tra Stati Uniti e Europa diventa più difficle?”Il problema è vedere se nei prossimi mesi l’Europa sarà in grado di condizionare gli Usa e di spingerli verso un multilateralismo efficace, utile. Se si accentuano le divisioni dell’Europa non ci sarà un dialogo, ma un gruppo di Paesi che si accodano, come è stato finora. Non è detto che una seconda amministrazione Bush non voglia cercare con l’Europa un rapporto diverso. Anche se questa destra è più imprevedibile e dunque più pericolosa”.
Cosa la preoccupa?”La destra di Bush non è una destra pragmatica, non ha nulla della tradizione realpolitik alla Kissinger che favoriva il colpo di Stato in Cile al tempo stesso parlava con la Cina. No, questa destra è fondamentalista, crede di avere una missione quasi di tipo religioso da dover assolvere, ha una visione della globalizzazione come omologazione ai valori dell’Occidente che è inaccettabile. E non è casuale che anche in Italia ci sia una conversione clericale della destra liberale. Si gurada non alla Chiesa dell’universalismo cattolico o della pace, ma alla Chiesa delle crociate. L’idea dello scontro di civiltà spinge la classe dirigente più cinica e laicista a cercare nelle radici giudiaco-cristiane un patrimonio di fede capace di mobilitare le masse in un prolungato conflitto contro l’Islam. Perfino Stalin si ricordò della Santa Madre Russia quando ne ebbe bisogno. Questo ripiegamento clericale è funzionale a una strategia di guerra che considero catastrofica”.
Il problema è come battere questa strategia. Di fronte alla destra che pensa di riscrivere la tavola dei valori, Kerry è apparso freddo, compassato.”Kerry partiva da una condizione difficilissima, ipotizzare un testa a testa fino a qualche mese fa sarebbe sembrato un eccesso di ottimismo. Ma certo, la destra non si sconfigge solo con il pragmatismo. Non si vince abbassando il profilo e rifugiandosi nel politically correct. Dobbiamo batterci con le nostre bandiere: la tolleranza, la convivenza, un ordine mondiale più giusto, le politiche ambientali. Dobbiamo rimettere in campo uno spessore ideale e una cultura democratica che è l’unica in grado di prevenire i conflitti”.
Ma dall’elettorato americano la sinistra di Kerry è stata avvertita come debole contro il terrorismo. E la destra forte.“E’ un problema che esiste. Per essere credibile la sinistra si deve misurare con l’uso legittimo della forza: non possiamo lasciare alla destra il tema della sicurezza perché altrimenti lasciamo alla destra la possibilità di cavalcare la paura. Noi dobbiamo dire, al contrario, che la destra vince con la paura, ma non produce sicurezza. E che sta intaccando i grandi valori democratici, la libertà personale, i diritti individuali. C’è un ricorso alla violenza, alla tortura che non fa più nemmeno scandalo. Putin è un modello di questa nuova destra, unito alla tradizione illiberale di quel paese. In Cecenia sono tornati gli squadroni della morte, Amnesty International denuncia 50 mila civili uccisi, festeggiati in nome della lotta al terrorismo. In Iraq i morti non hanno più un nome, sono una statistica. Non c’è nulla di più lontano dei valori dell’universalismo cristiano. E invece si sconfigge il terrorismo restando fedeli ai valori in nome dei quali combattere”.
La radicalizzazione del voto in America, l’irruzione in campagna elettorale di Michael Moore e degli altri “scaldacuori” ha fatto bene a Kerry?”Non credo. Questo radicalismo che una volta avremmo definito piccolo borghese, di cui conosciamo le versioni nostrane, non aiuta a vincere. Aumenta le fratture, diffonde linguaggi e messaggi che eccitano i tuoi elettori, ma ti fanno apparire incomprensibile a tutti gli altri. Non c’è spazio per un estremismo che non si preoccupi di capire le ragioni per cui vince la destra. Anche in Italia si è detto che ha vinto Berlusconi perché noi siamo stati abbastanza anti-berlusconiani. Una palese sciocchezza”.
Gli odiati girotondi, insomma. Ma prima della scossa di Mooore, Kery era sotto di dieci punti nei sondaggi…“D’accordo, questo tipo di campagna serve a mobilitare i tuoi. Ma è solo la metà del lavoro: poi bisogna seminare il dubbio negli altri, senza galvanizzare il campo avversario, senza mobilitarli contro di te. Non serve ironizzare, non servono il disprezzo e la demonizzazione dell’avversario. Certi toni radicali hanno perfino mobilitato l’America profonda, a favore di Bush. Bisogna capire dov’è la forza della destra. Loro cavalcano una paura che c’è, è reale, fondata. Il terrorismo spaventa tutti i cittadini. Sta a noi dimostrare che la risposta della destra è illusoria. E starà all’Europa superare le proprie divisioni per cercare di condizionare la nuova amministrazione americana, spingendola a tornare a una visione multilaterale”.
Che conseguenze ci saranno in Italia? La vittoria di Clinton precedette quella di Prodi, la vittoria di Bush quella di Berlusconi. E ora non teme che altri quattro anni per Bush siano una spinta per il centro-destra italiano?“Non ci sono più automatismi. Non credo che le elezioni americane cambieranno il corso della politica europea. Qui da noi la situazione è più aperta e incerta. Avremo il tentativo di Berlusconi di utilizzare le elezioni americane per ridarsi slancio dopo una sensazione di declino e di sconfitta. Il che, a dir la verità, non è neppure dannoso per il centro-sinistra”.
Perché?“Perché andare alle elezioni certi della vittoria sarebbe stato pericoloso. Oggi siamo di nuovo messi di fronte alla complessità della sfida. Questi risultati sono un ammonimento importante: la contestazione a Berlusconi non basta, dobbiamo dare il meglio: la coesione, oltre le divisioni, e la forza di un progetto di governo”.