Discorso
14 novembre 2004

Palestina, il futuro nell'urna

di Massimo D'Alema - il Messaggero


Adesso che la lunga agonia di Arafat si è conclusa, e dopo la sepoltura del leader palestinese a pochi metri da quel palazzo della Muqata dove ha trascorso segregato gli ultimi anni di vita, è giusto interrogarsi seriamente sul dopo. Su cosa potrà accadere una volta uscito di scena l'uomo che ha catalizzato su di sé odi e aspirazioni di due popoli condannati loro malgrado a vivere l'uno di fianco all'altro. Personalità complessa, si è ripetuto nei giorni scorsi. E tale effettivamente egli è stato con vita scandita dal suo incessante impegno per affermare i diritti del popolo palestinese, da scelte coraggiose, ma anche da errori e contraddizioni.
Arafat è stato il leader raffigurato con le armi in pugno e con il ramoscello di ulivo in mano: simbolo e padre della lotta armata per la liberazione della Palestina e Nobel per la pace dopo gli storici accordi di Oslo. Egli ha avuto il coraggio di rompere con il passato, cancellando dallo statuto dell'Olp l'obiettivo della distruzione dello Stato d'Israele, ma è stato anche l'ispiratore della seconda violenta intifada quando a Camp David rifiutò le proposte di mediazione di Bill Clinton. Senza questo alternarsi di strategie egli, forse, non avrebbe potuto influenzare quarant'anni di vita politica e di storia. Allo stesso tempo sembra banale, prima ancora che ingiusto, imputare a lui, e soltanto a lui, le colpe di una pace mancata e di un conflitto destinato secondo molti a prolungarsi ben oltre la sua scomparsa. La stessa lettura del mancato accordo del 2000 non regge se tutte le responsabilità si fanno ricadere sul leader palestinese. E non regge per la semplice ragione che le cose furono assai più complesse. Appare, in particolare, curioso che quegli stessi che rimproverano ad Arafat il mancato accordo di Camp David dimentichino che uno dei principali oppositori di quell'intesa fu l'attuale premier israeliano Sharon ed il suo partito che, dall'opposizione, accusavano i laburisti al governo di tradire gli interessi nazionali. Tutto ciò assolve Arafat da quello che tanti, anche in Europa, giudicarono all'epoca un errore grave? Naturalmente no. Ma è sempre necessario, soprattutto quando si ragiona su questi temi, aver chiara la complessità degli scenari e delle scelte. Da lì comunque, dalla mancata firma in calce a quegli accordi parte, come detto, la seconda intifada. E con essa inizia la stagione dell'isolamento progressivo di Arafat, stretto tra le spinte crescenti dell'estremismo palestinese e l'incapacità di individuare uno sbocco, una via percorribile, per una situazione che condanna il suo popolo a una nuova stagione di sofferenze insopportabili.
L'effetto finale sarà l'alimentarsi del fenomeno terrorista, responsabile di odiosi attentati sul suolo israeliano e, insieme, l'inasprirsi della repressione contro i palestinesi con migliaia di vittime e una spirale d'odio inarrestabile. Ma, insisto, anche questi ultimi quattro anni non si possono analizzare secondo uno schema unilaterale. Soprattutto non è dato capire il dramma che si consuma nelle strade di Gaza come nelle vie di Gerusalemme o Tel Aviv, se non si affrontano di petto anche le responsabilità del governo israeliano e della sua leadership. Che sono principalmente quelle d'aver paralizzato sino a cancellarli del tutto gli spazi del dialogo e di una ripresa della trattativa. Da questo punto di vista, come sostengono gli stessi ambienti progressisti in Israele, la morte di Arafat segna la fine del grande alibi sfruttato sin qui per giustificare una politica aggressiva e contraria a qualsiasi negoziato. Venuto meno il “grande Nemico”, è più difficile per Sharon sostenere l'assenza, sull'altro fronte, di interlocutori affidabili. Con il risultato di porre finalmente il capo del governo israeliano dinnanzi alla scelta decisiva: riannodare il filo, per quanto esile, dell'iniziativa politica o insistere lungo la via della repressione militare. La risposta deriverà unicamente dai gesti che accompagneranno il dopo-Arafat. Nel senso che il tempo delle parole, purtroppo, è ampiamente scaduto e la vera discriminante, da ora in avanti, sarà data dai fatti.
Due tappe, in particolare, scandiranno questa verifica. La prima è il segno che assumerà il ritiro unilaterale di parte dei coloni da Gaza. E’ stato detto che in questa decisione, contrastata all’interno dello stesso Likud, è possibile scorgere una svolta nella strategia di Sharon. Mi auguro anch’io che di questo si tratti. Ma per convincersene bisogna conoscere l’approdo finale della proposta. Si parla a tutt’oggi del ritiro di circa ottomila degli oltre duecentomila coloni residenti nella fascia di territorio interessata. Un segnale da incoraggiare se fosse l’avvio di un piano di ritiro assai più ampio. Perché il problema vero è se il governo israeliano intenda favorire effettivamente la nascita di uno Stato palestinese, liberando progressivamente i territori occupati dopo il 1967. Oppure se, in definitiva come più volte hanno affermato diversi esponenti della destra e del governo di Israele , intenda semplicemente ritagliare in modo unilaterale delle aree in cui consentire una autonomia amministrativa ai palestinesi. Aree collocate all’interno dei confini di Israele e sotto il controllo militare dell’esercito israeliano. Si tratterebbe di una sorta di riserve indiane sul modello come mi capitò di sentire personalmente dalla viva voce di Ariel Sharon del “Bandunstan” e cioè delle riserve autonome per i neri che facevano da corona al Sudafrica razzista. Un simile progetto non solo è inaccettabile per qualsiasi leadership palestinese ma è come forse qualcuno dovrebbe ricordare a Sharon contrario alle risoluzioni delle Nazioni Unite e dei principi elementari del diritto internazionale.
Ecco perché è importante che possa esservi al più presto una nuova leadership palestinese in grado di contrastare il terrorismo e di rilanciare il dialogo essendo riconosciuta sia dal popolo palestinese sia dalla comunità internazionale. Davanti a noi c'è un banco di prova rappresentato dalle elezioni che entro sessanta giorni dovranno nominare il successore di Arafat. Si tratta di un passo decisivo verso l'accreditamento del nuovo leader di tutti i palestinesi e per il consolidamento di uno Stato democratico e sovrano. Dunque garantire il loro libero svolgimento è oggi, per molte ragioni, un obiettivo strategico. Sulla questione sono giunti da Washington, dove ieri Bush e Blair hanno discusso anche di questo, segnali incoraggianti. Parole distensive che aprono qualche spiraglio a una svolta nell'atteggiamento europeo e degli Stati Uniti.
Ora si tratta di evitare che questi impegni siano, per i palestinesi, un nuovo inganno e di tradurre appelli e petizioni di principio in azioni conseguenti. E qualcosa si può fare. Anzi, si deve fare. A partire insisto dal voto che sancirà la nuova presidenza dell'Autorità palestinese e dall'invio nei territori di un numero congruo di osservatori internazionali con il compito di vigilare sullo svolgimento regolare e corretto di quella consultazione. Riterrei una simile iniziativa non solo opportuna e ragionevole, ma anche il modo, seppure indiretto, per avviare quella presenza internazionale sul terreno che potrebbe contribuire in maniera significativa alla pacificazione dell'area. Come si vede, la scomparsa di Arafat pone tutti i protagonisti di fronte a problemi complessi. La realtà, come sempre accade quando una grande personalità esce di scena, è che una stagione si chiude e molti fattori diversi concorrono a definire la stagione che si apre. Il punto è che il segno dominante della nuova fase questa volta dipenderà anche da noi. Dall'Europa, dalla neo-confermata amministrazione americana, dall'insieme della comunità e delle istituzioni internazionali. Direi che ha poco senso in giornate così concitate sbilanciarsi sul risultato di un processo che, giocoforza, sarà lungo e faticoso. Ciò non toglie che bisogna riflettere e agire nella speranza di condizionare in positivo l'evoluzione dei fatti.
Come ha scritto Shimon Peres, in un ricordo di Arafat lucido e per certi versi commosso, «dobbiamo spartirci questo piccolo territorio», perché «un popolo cresce quando impara a condividere». La speranza dei più è che dopo il tempo buio dell'odio giunga finalmente quello della condivisione, nella consapevolezza che quando una vita finisce «per tante altre è tempo di cominciare».

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