Discorso
3 aprile 2002

Comunicazioni del Governo sulla crisi in Medio Oriente

Commissioni riunite:Camera: III COMMISSIONE (AFFARI ESTERI E COMUNITARI) Senato: III COMMISSIONE (AFFARI ESTERI, EMIGRAZIONE)


MASSIMO D'ALEMA.

Signor presidente, signori rappresentanti del Governo, colleghi parlamentari, la riunione di oggi è il segno della sensibilità di tanti parlamentari, dei presidenti delle Commissioni e, certamente, dell'opinione pubblica del nostro paese, che vive con angoscia l'escalation del conflitto, il succedersi di atti di barbaro terrorismo ed una repressione spietata che è volta a colpire, in modo sempre più indiscriminato, la popolazione civile, oltre che a distruggere l'Autorità nazionale palestinese. Tutta l'area appare oggi pervasa da una tensione drammatica, tensione che anche in Europa, nella civilissima Europa, si è manifestata nella forma - intollerabile - di atti di antisemitismo, che ci preoccupano e ci allarmano.

Allo stesso tempo l'opinione pubblica e tutti noi avvertiamo quel senso di impotenza cui ha fatto riferimento anche il presidente Selva, ed al quale, tuttavia, si deve dare una risposta attraverso gli strumenti dell'azione politica e diplomatica, azione che deve muovere con maggiore fermezza e determinazione rispetto a quanto non sia accaduto fino ad oggi. Lo deve fare, innanzitutto, con la chiarezza degli obiettivi che si devono perseguire, tra i quali, in primo luogo, vi è il ritiro immediato dell'esercito di Israele dai territori e dalle città palestinesi; una tregua; l'invio di osservatori - parlerei oramai di una vera e propria forza di interposizione - come garanzia di salvaguardia della popolazione palestinese e di sicurezza per i cittadini di Israele; la predisposizione di una conferenza internazionale per la pace che coinvolga, come è stato detto, non solo gli Stati Uniti, ma anche l'Unione europea e la Russia, e che si svolga sotto l'egida delle Nazioni Unite; l'assunzione del piano saudita, che giustamente il Governo italiano ha posto come base per la ricerca di una soluzione pacifica, di un assetto stabile, non più di un processo di pace, bensì di un accordo di pace definito ed internazionalmente garantito.

Bisogna tuttavia ricordare che il Primo ministro Sharon ha recentemente dichiarato che il piano saudita non è considerato da Israele neppure una base di discussione, perché soltanto guardando in faccia ai problemi ed alle responsabilità reali credo che l'azione politica e diplomatica potrà cercare di intervenire in questa drammatica situazione, nella quale appare evidente che l'appello alle parti è, appunto, nient'altro che il ripetersi di un rito di impotenza.

Le responsabilità delle parti sono evidenti: è innegabile, ad esempio, che da parte palestinese si sia accettata la convivenza con forze che mai hanno approvato il processo di pace e l'esistenza di Israele, e che un fondamentalismo islamico pericoloso, drammaticamente pericoloso, abbia potuto mettere radici profonde nei territori palestinesi, conquistare proseliti, organizzare le sue basi.

È vero, tuttavia, che ciò è avvenuto nel quadro di una conduzione del processo di pace, nel corso di questi anni, che, da parte israeliana - a partire dalla drammatica svolta che, dopo l'assassinio di Rabin, portò al Governo di Israele il primo ministro Netanyahu - ha visto una costante opera di sabotaggio degli accordi di Oslo. Se consideriamo che dal 1993 ad oggi gli insediamenti israeliani, cioè la colonizzazione dei territori che dovevano essere restituiti ai palestinesi, sono raddoppiati, che oggi in questi territori vive una popolazione di 380 mila coloni e che la politica di colonizzazione ha proceduto non attraverso iniziative spontanee, ma attraverso lo sviluppo di un disegno che ha portato all'occupazione delle aree strategicamente rilevanti, delle aree di confine, secondo un progetto d'altro canto apertamente sostenuto dal primo ministro Sharon - che non sarebbe quello della creazione di uno Stato palestinese, ma, al più, della concessione ai palestinesi di aree di autonomia amministrativa, smilitarizzate, all'interno del territorio dello Stato di Israele - ci rendiamo conto che una politica di questo tipo, tendente a risolvere la questione palestinese attraverso la creazione di una sorta di bantustan - non sono parole mie, ma del primo ministro Sharon - deve necessariamente puntare alla liquidazione dell'Autorità nazionale palestinese. Infatti, non esiste un solo interlocutore palestinese che possa firmare una pace di questo tipo e soltanto decapitando il popolo palestinese della sua leadership internazionalmente riconosciuta si può imporre una soluzione così ingiusta della questione palestinese e contraria alle risoluzioni approvate dalle Nazioni Unite.

L'escalation del terrore, della rappresaglia, è in sé la fenomenologia rivelatrice di questioni politiche assai più profonde, con le quali credo che la comunità internazionale non abbia fatto i conti fino in fondo, con la necessaria chiarezza e determinazione. Due popoli, due Stati, il piano di pace saudita: tutto questo va bene, ma per imporre queste soluzioni occorre vedere con chiarezza dove sono gli ostacoli e in che modo tali ostacoli possono essere rimossi.

Credo che ciò che accade in Medio Oriente tocchi direttamente gli interessi dell'Italia e dell'Europa. Noi guardiamo con preoccupazione l'evoluzione della situazione mondiale dopo l'11 settembre. Io sono fra quanti hanno ritenuto che fosse indispensabile il ricorso all'uso della forza nella lotta contro il terrorismo. Ma, nello stesso tempo, tutti noi dicemmo che l'uso della forza doveva rappresentare un mezzo estremo, un'eccezione, in una strategia capace di fare leva sugli strumenti della politica, del riequilibrio economico, del dialogo culturale. In realtà, l'uso della forza è divenuto la regola. E quella coalizione contro il terrorismo che aveva coinvolto positivamente tanta parte del mondo islamico e del mondo arabo rischia di sbriciolarsi di fronte all'iniquità della situazione mediorientale e all'impotenza della comunità internazionale, rivelatrici del fatto che le risoluzioni delle Nazioni Unite non valgono per tutti allo stesso modo: sulla base di un diritto diseguale è difficile costruire la pace.

Ora la prospettiva sembra addirittura essere quella di un'ulteriore estensione del conflitto, di un attacco all'Iraq, di una generale destabilizzazione, con conseguenze sulla sicurezza dell'Europa, sulla nostra economia, così dipendente dalle materie prime, dal petrolio. Credo davvero che le iniziative del nostro paese e dell'Europa non siano all'altezza della drammaticità di queste sfide. Lo dico con preoccupazione, con angoscia, non con spirito polemico. Mi limiterò a dire, soltanto per inciso, che in una situazione internazionale di questo tipo bisognerebbe al più presto avere almeno un ministro degli esteri.

Ma, detto questo, non è vero che l'Europa non possa fare nulla. Non sono d'accordo su questa notazione, presidente Selva, nonostante con lei io condivida tante preoccupazioni: l'Europa può fare molto. L'Europa è il principale donatore dei palestinesi e, in realtà, senza l'intervento europeo sarebbe molto difficile quel poco di vita associata, di istituzioni, che si è creata grazie all'intervento europeo. L'Europa è il grande partner commerciale ed economico di Israele. È vero che Israele riceve le armi dagli americani, ma l'economia israeliana vive dell'interscambio con l'Europa e dell'accordo commerciale con l'Unione europea. L'Europa può fare moltissimo, se decide di gettare il proprio peso sulla bilancia di questa crisi; se decide di continuare a guardare, a lanciare appelli, l'Europa non può fare nulla, ma pagherà il prezzo della sua impotenza.


Lo stenografico integrale della seduta



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