Discorso
30 maggio 2006

Lettera di Massimo D'Alema al Corriere della Sera


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Caro Direttore,
confesso che non ho ben capito il senso dell'articolo di Gianni Riotta («Addio alle armi», Corriere del 28 maggio); ma avendo una grande stima dell'autore sono portato a credere che la confusione del messaggio possa derivare anche dal fatto che noi non siamo stati abbastanza chiari circa le intenzioni del governo italiano a proposito del nostro impegno in Iraq. Partiamo dal punto fondamentale. Riotta ricorda che il governo Berlusconi aveva già annunciato il rientro del nostro contingente dall'Iraq entro il 2006; il centrosinistra aveva fatto da tempo di questa scelta un punto irrinunciabile del proprio programma elettorale.

Cosa c'è di tanto sorprendente nel fatto che il governo confermi tale decisione? In realtà questa scelta era assolutamente scontata e attesa anche dai nostri alleati; né si può ragionevolmente sostenere che la sua attuazione riveli un «pericoloso cedimento alla sinistra radicale» trattandosi invece, come è evidente, della attuazione di un impegno assunto da Prodi e da tutta la coalizione. Intendiamo discutere il rientro del nostro contingente con il nuovo governo iracheno e quindi con gli Stati Uniti (nel già previsto incontro con Condoleezza Rice). Nei prossimi giorni lo stesso presidente del Consiglio avrà occasione di parlarne con Tony Blair. E' una scelta che sapremo gestire tenendo conto delle conseguenze per il popolo iracheno e della necessità di coordinarci con le forze della coalizione nel quadro delle responsabilità cui l'Italia fa fronte in Iraq. In secondo luogo a me pare del tutto assurdo un dibattito sui tempi e le procedure; compete al ministero della Difesa e ai responsabili militari definire tempi e modi per un rientro ordinato e con il minimo rischio possibile per i nostri soldati che hanno già pagato un tributo rilevante di sangue.

Come già previsto prima delle elezioni, a metà giugno la nostra presenza in Iraq scenderà a 1600 uomini dai 2700 attuali. Stiamo valutando «un pacchetto» di iniziative per rafforzare il nostro impegno sul piano economico, civile e politico a sostegno della ricostruzione democratica dell'Iraq. Di questo intendo discutere personalmente con i rappresentanti del governo iracheno. È evidente tuttavia che le nostre iniziative non potranno essere tali da richiedere la presenza in Iraq di una rilevante forza di protezione militare. Che senso avrebbe prevedere il rientro dei militari e poi rimandarli per la protezione dei civili? Ritengo che in questo modo si darebbe l'impressione di ingannare semplicemente gli elettori e la opinione pubblica. Gianni Riotta nel suo articolo si riferisce più di una volta all'etica; la coerenza fra gli impegni che si assumono con i cittadini e le cose che si fanno è a mio giudizio un aspetto cruciale del rapporto fra etica e politica. Non voglio tornare sulle ragioni del nostro dissenso rispetto alla guerra in Iraq e alla lunga catena di «errori» che si sono succeduti nel corso del drammatico dopoguerra e che ora vengono riconosciuti anche dai principali protagonisti. Noi vogliamo marcare una discontinuità a proposito dell'Iraq.

Ma questo non autorizza certo a pensare, come sembra dedurre Riotta, che l'Italia stia per modificare il suo atteggiamento generale verso le missioni di pace o l'impegno per la difesa dei diritti umani e per la gestione delle crisi. Abbiamo impegni importanti in Afghanistan; abbiamo una presenza decisiva nei Balcani; siamo — non da ieri, ma dagli anni in cui il centrosinistra era al governo — uno dei Paesi più impegnati nel mondo con le proprie forze armate: il sesto per numero di militari impiegati all' estero. Altro che addio alle armi! I nostri soldati e i nostri carabinieri hanno guadagnato all'Italia il rispetto della comunità internazionale, servendo con grande coraggio e capacità. E continueranno a farlo con il governo di centrosinistra. Ho trovato assai intelligente e pertinente il riferimento di Riotta alle radici culturali della sinistra e alla «dialettica della storia». Ma bisogna fare attenzione rispetto ai rischi di un cattivo storicismo. In effetti nella cultura antica della sinistra c'era l'idea che lungo il cammino della costruzione di una società più giusta anche la violazione dei diritti umani, la tortura e il massacro dei civili potessero essere considerati come eventi accettabili. Noi ci siamo liberati di queste convinzioni, che sembrano sopravvivere in una certa concezione «muscolare» dell'espansione della democrazia con la forza.

Vorrei mettere in guardia il mio amico Gianni Riotta da questi entusiasmi ideologici che nel corso di questi anni si sono scontrati amaramente con la realtà, costringendo gli stessi ideologi neoconservatori a ridimensionare la loro fiducia nella teoria della guerra preventiva e dell'uso unilaterale della grande potenza americana. A proposito di ideologi neoconservatori colgo l'occasione, caro Direttore, per una battuta di replica all'intervento garbato, colto e spiritoso di Giulio Tremonti. L'idea che la sfida della globalizzazione possa essere affrontata attingendo alla visione kantiana nel senso di un mondo regolato dal diritto oppure facendo leva sulla politica di potenza e sulla forza come unica regola delle relazioni internazionali. Insomma quell'alternativa tra Kant e Schmitt che Tremonti ha sottolineato con la matita blu non è un'idea mia ma di Jurgen Habermas («L'Occidente diviso»). Tuttavia mi inchino di fronte all'autorità "filosofica" di Tremonti. Si potrebbe anzi proporre uno scambio. Se avessimo potuto qualche anno fa fare di Tremonti il vate della filosofia europea e di Habermas il gestore dei conti pubblici italiani vi sarebbe stato certamente un grande vantaggio. Soprattutto per il nostro Paese.


Massimo D'Alema
Vice Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri

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