Intervista
28 giugno 2006

Le riforme o sono condivise o sono una forzatura <br>

Intervista di Alberto Gentili, da "Il Messaggero"


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Massimo D’Alema, seduto sul divano di pelle bianca nel suo studio alla Farnesina, accarezza una civetta di pietra: «Sa, respinge il male. Lo riflette contro chi ne è portatore». E indica la libreria a fianco: «Vede? Là sopra ce n’è un plotone, di civette. Stia attento...».

E’ buono, anzi ottimo, l’umore del vicepremier e ministro degli Esteri. La vittoria del ”no”, un po’ come per Romano Prodi e l’Unione intera, vale per D’Alema quanto un gol vincente di Totti alla finale del mondiale di calcio. E molto di più. Ma ora, come accade dopo ogni «fatto politico rilevante», c’è da tracciare la nuova rotta.

Ministro D’Alema, il 61,3% degli elettori dice no alla riforma della Costituzione e un istante dopo voi politici vi lanciate nella ricerca del dialogo per fare...la riforma. Non le sembra un atteggiamento schizofrenico di una classe politica autoreferenziale?
«Non credo che il no possa essere interpretato come volontà di lasciare le cose come stanno. Il no è stato il rifiuto di una riforma brutta e scomposta che avrebbe creato problemi, più che risolverli, e di uno schieramento politico che ha tentato di imporre una sua Costituzione. Del resto le forze del no non hanno fatto una campagna elettorale dicendo che la Carta è intoccabile, ma hanno detto che la Costituzione può essere corretta dopo un confronto su basi nuove».

Quali sarebbero queste basi?
«Prima di tutto di metodo: il Paese ci dice che o le riforme sono condivise, oppure sono una forzatura. Lo stesso vale per la legge elettorale, per la quale penso ciò che pensavo 12 anni fa: un sistema maggioritario uninominale a doppio turno, magari con qualche correzione per garantire una rappresentanza delle forze che non vanno al ballottaggio. Ma questa è solo una mia opinione».

Bertinotti suggerisce un confronto «senza impazienze». E la sinistra radicale avverte: evitiamo gli inciuci...
«Questa è una frase stupida. Nessuno ha mai fatto inciuci. Siamo un Paese, semmai, che ha il problema opposto: la difficoltà a trovare un’intesa, a dialogare. Riguardo alla pausa di riflessione, rispondo che non c’è nessuna fretta. Non dobbiamo fare le riforme domani, abbiamo cinque anni. Ma uno degli effetti del referendum è che si chiude un ciclo. E’ finita la fase delle rivincite di Berlusconi, del tentativo di utilizzare strumentalmente prima le elezioni amministrative, poi il referendum, per destabilizzare il risultato elettorale. Per fortuna adesso è finita».

Ora si può costruire un Paese normale?
«Direi di sì, si apre una fase nuova. Chi ha vinto le elezioni ha il dovere di governare e chi le ha perse può avviare una riflessione politica sul futuro del centrodestra in Italia. Il Paese ha bisogno di un rinnovato progetto del centrodestra, ha bisogno di una destra di tipo europeo».

Nella costruzione del Paese normale serve in Parlamento il contributo dell’opposizione?
« E’ ciò che auspico. Bisogna uscire dalla logica della contrapposizione, della ricerca dello scontro, della delegittimazione dell’avversario per cui, se si perdono le elezioni, ci sono brogli».

Forse dovrebbe uscire di scena un protagonista...
«Il modo migliore di tenere le persone sulla scena è quello di chiedere che se ne vadano. E’ capitato anche con me: appena hanno cominciato a dire che dovevo andarmene, sono stato costretto a rimanere. Ognuno deve risolvere i propri problemi, non spetta a noi decidere chi deve essere il protagonista del rilancio del centrodestra. E di passaggio dico a Follini: l’Italia non ha bisogno del governissimo».

Qual è lo strumento giusto per fare le riforme. Amato suggerisce l’istituzione di una Convenzione.
«Quello dello strumento è l’ultimo dei problemi. Prima di tutto bisogna avviare un confronto politico per vedere se ci sono dei punti di convergenza. Ma innanzitutto è il Parlamento la culla del confronto, è lì che si deve cominciare».

Prodi questa volta vuole essere protagonista del dialogo. E’ rimasto scottato nel ’96 dalla Bicamerale...
«Il governo, allora, non rimase ai margini. In ogni caso è giusto che Prodi sia tra i protagonisti. Tanto più che oggi Prodi non è solo il capo del governo, gioca un importante ruolo politico: la novità che si fa finta di non vedere è che Prodi è il leader del costituendo partito democratico e dei gruppi parlamentari più grandi da trent’anni a questa parte».

Il Professore si è fatto l’assicurazione sulla vita...
«Anche l’altra volta. Non è che in questi dieci anni Prodi sia stato ai margini, il suo lavoro non ha conosciuto soste: è stato anche il capo del governo europeo».

Nel ’94 lei stipulò il famoso ”patto delle sardine” con Bossi. E’ pronto a rifarlo?
«Mi preme precisare che io non mangiai pane in cassetta e sardine. Preferii digiunare. Quel frugale pasto fu consumato da Bossi e Buttiglione».

Fatta la precisazione gastronomica, si può pensare a un’intesa con la Lega per rimodulare il federalismo?
«La maggioranza c’è e si chiama Unione. Riguardo al rapporto con la Lega, dipende in che modo si misurerà con il risultato referendario. Deve abbandonare i toni eversivi, la violenta polemica contro il Sud. Per potere discutere con una forza politica delle riforme, bisogna che questa accetti le regole del gioco».

Maroni dice che sono pronti a cambiare rotta. Che le alleanze sono una tattica, la strategia è il federalismo.
«Ho l’impressione che per la Lega il rapporto con Berlusconi non sia stato solo tattico. Si è costruito un legame ferreo tra Bossi e Berlusconi che non è stato produttivo. E ora la Lega ha visto ridurre la propria carica innovatrice, la sua forza. Tanto più che il referendum dimostra che il centrosinistra sta riguadagnando il Nord, Milano compresa».

C’è un altro tema caldo, quello del rifinanziamento delle missioni militari all’estero. L’ala sinistra della maggioranza punta i piedi...
«Abbiamo preparato un decreto. Un provvedimento importante perché realizza il rientro delle nostre truppe dell’Iraq nel rispetto di quanto scritto nel programma dell’Unione, che non dice affatto che dobbiamo andare via dall’Afghanistan. E prevede, il decreto, una significativa contrazione della spesa militare e un aumento degli impegni per la cooperazione civile».

E l’exit strategy da Kabul richiesta da Prc, Pdci, Verdi?
«L’Italia non può avere una propria exit strategy. L’Italia è in Afghanistan in un quadro giuridico-internazionale molto diverso da quello dell’Iraq. E a Kabul ci stiamo sotto mandato dell’Onu e nell’ambito di una missione della Nato a fianco di altri Paesi europei. Dunque bisogna discutere con i nostri alleati, non possiamo decidere da soli. Noi siamo parte dell’Onu, della Nato, dell’Unione europea e non mi sembra che uscirne sia nel programma del centrosinistra. Detto questo, aggiungo che condividiamo le preoccupazioni di Rifondazione sulla situazione in Afghanistan. E discuteremo con i nostri alleati per rendere più rapido il processo di pacificazione, per evitare che la situazione degeneri».

Ci saranno ordini del giorno, mozioni?
«Tocca al Parlamento decidere. Noi siamo ovviamente disponibili, possono essere un contributo utile».

Utile come i voti dell’Udc?
«Una maggioranza deve essere in grado di sostenere la politica estera del governo. Se ciò non accadesse si creerebbe una situazione gravissima. Riguardo all’Udc, sono dell’idea che in Parlamento ogni forza politica debba votare secondo le proprie convinzioni. A parte l’Iraq, anche quando ero all’opposizione, ho sempre votato sì al rifinanziamento delle missioni all’estero. L’espressione soccorso non ha senso».

Giordano, il segretario, teme la sostituzione del Prc con l’Udc. Vuole tranquillizzarlo?
«Non credo che ce ne sia bisogno. Capisco che per Rifondazione comunista questo sia un passaggio delicato. In ogni caso ci accomuna la preoccupazioni su ciò che accade a Kabul. Anche noi non vogliamo un’escalation militare. La Nato è andata lì per garantire la stabilizzazione, non per fare la guerra».

Dunque niente invio di aerei?
«Questo è un problema che devono vedere i militari. Si ritiene che questi aerei abbiano compiti di ricognizione, non di bombardamento».

Il problema di Rifondazione non è solo l’Afghanistan. Una parte di quel partito vive il governo come una camicia di forza.
«La sfida del governo è una sfida impegnativa per tutti. Ci si deve misurare con le scelte e i passi avanti possibili, con i compromessi. Non ci sono alternative. E quello che deve domandarsi Rifondazione è se il suo impegno nel governo sposta in avanti il Paese. A me sembra che l’Italia indubbiamente stia rilanciando una politica estera innovativa che dovrebbe essere apprezzata. Rifondazione dovrebbe dire: dobbiamo accettare qualcosa che dall’opposizione non avremmo accettato...però la direzione di marcia è quella giusta».

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