Discorso
27 giugno 2006

Seguito audizione davanti alle Commissioni Congiunte 3a (affari esteri, emigrazione) del Senato della Repubblica e III (affari esteri e comunitari) della Camera dei Deputati <br>14 Giugno 2006

Testo dell'intervento


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Ricordando un numero notevole di iscritti a parlare, non vorrei che dovessimo, ancora una volta, impedire questo dibattito. Poiché non ritengo di dover fare considerazioni diverse da quelle che ho avuto modo di fare in sedi pubbliche, dopo l'incontro con il segretario di Stato americano, Condoleeza Rice, e più recentemente, dopo l'incontro con il ministro degli esteri iraniano, ritengo che sia più utile per me e per tutti noi che io possa ascoltare le considerazioni dei colleghi ed eventualmente, dopo, rispondere ai quesiti e ai problemi che vengono concretamente sollevati…

… Seguirò lo schema delle domande che sono state poste, quindi mi scuserete se il mio intervento assumerà un carattere disorganico; tuttavia credo che ne potrà acquistare in vivezza, nel senso di creare un dialogo con le Commissioni. Innanzitutto ringrazio tutti i parlamentari che hanno partecipato a queste riunioni, i presidenti delle due Commissioni, e confermo l'auspicio che questo possa rappresentare l'inizio di una collaborazione e di un dialogo. Se questi elementi sono fondamentali in tutti i campi, lo sono in particolare su un terreno come quello della politica estera, nel quale la ricerca del massimo consenso e di indicazioni e suggerimenti che possano arricchire l'iniziativa italiana non può essere considerata episodica, ma è un tratto costante dell'azione di governo.

Vorrei partire dal tema del giorno. Credo che tutti siamo con il fiato sospeso e sentiamo una vivissima preoccupazione per il rischio di un aggravarsi drammatico della crisi israelo-palestinese e della situazione in Medioriente. Il Governo italiano ha rivolto una pressante richiesta all'Autorità nazionale palestinese perché i militanti che hanno rapito il giovane caporale israeliano lo restituiscano allo Stato di Israele, alla sua famiglia, ponendo così fine ad una drammatica crisi, i cui sviluppi sarebbero imprevedibili e le cui conseguenze sarebbero certamente disastrose.

Nel tardo pomeriggio di ieri ne ho parlato al telefono con il Presidente Mahmoud Abbas, il quale mi ha assicurato - e da tante fonti sappiamo che è vero - che il suo impegno personale, in queste ore, è volto ad ottenere la liberazione del militare, per scongiurare un aggravamento drammatico della crisi.

Nello stesso tempo, credo che questa possa essere l'occasione per unirci a quanti - fra questi, mi fa piacere sottolineare il segretario di Stato americano, Condoleeza Rice - hanno rivolto un appello alla prudenza e alla pazienza al Governo di Israele.

Come sapete, le forze armate israeliane hanno chiuso Gaza in un assedio. Il Primo Ministro israeliano ha dichiarato che non esclude di interrompere la fornitura di acqua, gas e cibo alla popolazione che vive a Gaza, e si parla di una possibile offensiva militare su vasta scala.

Tutto questo ci riempie di angoscia, e in queste ore non possiamo che ribadire l'appello italiano, credo condiviso da tutto il Parlamento, affinché da questa drammatica crisi si esca al più presto, con la liberazione dell'ostaggio israeliano, evitando ulteriori spargimenti di sangue ed un aggravamento del conflitto.

Questa giornata di emergenza riporta in primo piano quella che è - a mio giudizio, lo è sempre stata - la vera questione cruciale dell'equilibrio del Medioriente e, più in generale, del rapporto tra mondo occidentale e mondo arabo, ossia la necessità di rinnovare un impegno per dare una soluzione al conflitto israelo-palestinese. Penso ad una soluzione nel senso auspicato dalla comunità internazionale e dall'Europa, che consiste nel riconoscimento del diritto alla sicurezza di Israele, del diritto del popolo israeliano di vivere in uno Stato riconosciuto dai suoi vicini, entro confini certi, libero da minacce di guerra o di atti terroristici, e nello stesso tempo nel riconoscimento del diritto del popolo palestinese di avere una patria, per la quale i palestinesi si battono da tanti anni.

Penso che occorra raddoppiare gli sforzi per uscire da una situazione così drammatica. Nel corso della mattinata abbiamo avuto occasione, il Presidente Prodi ed io, in due separati momenti, di incontrare il Primo ministro libanese. Il Libano è un paese che ha sofferto moltissimo per le conseguenze di questo conflitto: invasioni militari, pressioni, pesanti interferenze nella vita politica libanese, fino al recente assassinio del Primo ministro Hariri. È un paese alla cui stabilità e pacificazione l'Italia ha dato e sta dando un grande contributo. È evidente, però, che anche il futuro del Libano è strettamente legato alla soluzione di questo conflitto.

Per quanto ci riguarda, ribadisco che dobbiamo mantenere quella posizione europea che tende ad esercitare il massimo di pressione su Hamas. Infatti, senza il riconoscimento, da parte del Governo palestinese, degli accordi precedentemente sottoscritti da altri Governi palestinesi - è la condizione minima per una base giuridica su cui negoziare -, senza il riconoscimento del diritto di Israele di esistere e l'abbandono della violenza come mezzo di lotta, senza che si realizzino queste condizioni è molto difficile che torni in campo un interlocutore palestinese internazionalmente riconosciuto e che, quindi, si possa avviare quella ricerca di una pace negoziata, che è l'unica soluzione perché si possa arrivare ad una pace.

A mio avviso, se una cosa è risultata con chiarezza, in questi ultimi mesi, è che l'idea di una pace ottenuta unilateralmente non ha fondamento. Il ritiro unilaterale da Gaza - sebbene tutti abbiamo apprezzato il gesto di buona volontà - ha aperto una fase di ulteriori e più drammatiche tensioni, non ha delineato uno scenario di pace. Questa è la verità ed è ciò che, credo, tutti dobbiamo constatare.

Una pace si potrà ottenere solo attraverso un negoziato, che chiuda le questioni aperte, che definisca i caratteri e i confini dei due Stati, che affronti le questioni più controverse, come quella dei rifugiati palestinesi, e che in questo modo apra la possibilità di un'intesa che possa essere sottoscritta dalle parti e internazionalmente accettata.

È di queste ore la notizia che ci sarebbe un accordo politico, volto ad aprire un negoziato con Israele, tra Hamas ed Al Fatah. Naturalmente si tratta di una notizia troppo recente, perché possa essere commentata nel suo contenuto specifico, tuttavia non si può che auspicare che questa notizia trovi una conferma e che questo accordo produca qualcosa di convincente, in grado effettivamente di sbloccare la situazione internazionale. Ebbene, mentre si esercita - e deve essere esercitata - una pressione sulla parte palestinese, ritengo che, dall'altra parte, la comunità internazionale debba agire per evitare un precipitare drammatico della crisi umanitaria nei territori palestinesi.

In questo senso, abbiamo molto apprezzato la posizione dell'Europa e l'iniziativa della Commissione europea, che ancora recentemente la signora Ferrero-Waldner ha rappresentato nel dialogo con il Governo israeliano e con l'Autorità palestinese. Bisogna intervenire per evitare che la pressione internazionale contro Hamas divenga, in realtà, la via attraverso la quale scaricare sulle popolazioni palestinesi il costo della crisi.

Il rischio è una condizione paradossale, per cui mentre Hamas riceve aiuti da movimenti fondamentalisti o da paesi arabi - testimonianza vi sia che taluni dei suoi esponenti sono stati visti passare con valigie piene di denaro -, gli aiuti non arrivano direttamente alla popolazione o non si pagano gli stipendi dei dipendenti dell'Autorità palestinese, il che significa colpire mortalmente la struttura più tradizionale di Al Fatah. In tal modo, il risultato finale di questa pressione internazionale rischia di essere esattamente il contrario di quello che si propone. In altre parole, alla fine il rischio è che si rafforzino le posizioni dei fondamentalisti e si indeboliscano quelle di chi, ragionevolmente, vuole intraprendere la via del negoziato e della pace.

Per tutte queste ragioni, noi siamo impegnati in questo sforzo europeo. Nello stesso tempo, riteniamo che l'Europa debba anche esercitare un consiglio pressante sul Governo israeliano, un invito alla moderazione. I ministri degli esteri europei - non io personalmente, ma la notizia ha suscitato qualche polemica - hanno ribadito unanimemente, ancora qualche giorno fa, la disapprovazione dell'Unione europea nei confronti della strategia dei cosiddetti omicidi mirati. Siamo contrari alla pena di morte, figuriamoci se possiamo accettare la pena di morte extragiudiziale! Come dicevo, la notizia ha suscitato un qualche scandalo, segno di un certo degrado del dibattito pubblico nel nostro paese. Se il riferire, virgolettate, le posizioni unanimi dei ministri degli esteri europei, compresi quelli dei paesi più conservatori, in Italia è sufficiente per essere tacciati di pericoloso estremismo, allora mi sento un estremista, e ribadisco qui una posizione che non è una mia opinione personale - ancorché io la condivida -, ma è la posizione dell'Europa.

Credo che, nel momento in cui siamo uniti a tutta la comunità internazionale nell'esercitare una ferma pressione su Hamas, dobbiamo nello stesso tempo ribadire i principi cui si ispira la nostra posizione politica, anche nei confronti di altre parti coinvolte nel conflitto.

Io stesso - rispondo a una domanda che mi è stata rivolta -, in diverse occasioni, negli anni passati, mi sono trovato a lavorare intorno all'idea (ne abbiamo anche parlato in convegni internazionali) che l'Europa possa mettere sul tavolo della ricerca della pace una proposta che si muove su due piani, il primo dei quali è quello di una prospettiva di integrazione economica. Si è parlato molte volte della possibilità di una sorta di speciale partnership tra Unione europea e i paesi della regione - Israele, Giordania, Stato palestinese -, anche al fine di favorire, nel futuro, una forte integrazione economica fra queste tre entità, che vivrebbero in un'area geografica assai ristretta e che vedrebbero favorite le prospettive di sviluppo proprio da una forte sinergia economica tra di loro (libera circolazione di merci, di capitali, di persone).

Nello stesso tempo, è stata affacciata più volte l'idea che un gruppo di paesi della regione - non solo Israele, quindi - possano essere associati alla NATO, per rafforzarne la sicurezza, con modalità non dissimili da quelle che sono adottate per i paesi della cosiddetta partnership for peace: l'idea, cioè, che una prospettiva di pace possa essere accompagnata da un'iniziativa della comunità internazionale, in grado di offrire fondamentali risorse ai fini dello sviluppo, dell'integrazione economica e della sicurezza dell'area interessata.

È probabile, quindi, che il sottosegretario Vernetti si riferisse a questo, o che abbia espresso opinioni proprie. Considerato che non si tratta di proposte del Governo italiano per domani, che non avrebbero nessun realismo, ma si tratta di considerazioni che guardano il medio-lungo periodo e di proposte volte a garantire in prospettiva cooperazione, convivenza e sicurezza in quell'area del mondo, la mia opinione è che tutto questo possa essere favorito anche da un impegno della NATO.

Personalmente ritengo che la NATO, in un tempo in cui la sua missione originaria si è esaurita, possa funzionare come security provider in uno scenario più ampio, e che questo non sia in contraddizione con la vocazione dell'Alleanza atlantica. Sinceramente, però, non tradurrei questa opinione nella formula che Israele debba diventare parte della NATO. Questa ipotesi, a mio giudizio, non è realistica e non mi pare neppure che aiuterebbe una soluzione del conflitto. In qualche modo, essa rischierebbe di accentuare la separazione tra Israele e i suoi vicini, mentre quello che si deve studiare è un progetto di sicurezza che riguardi tutta la regione, e non un solo Stato.

Sulla questione dell'Iraq non voglio tornare, non c'è nessun motivo di polemizzare. Tuttavia, trovo che esista una contraddizione di fondo: considerato il tono con cui si continua a ripetere che ritirare i nostri militari e abbandonare l'Iraq sia una cosa profondamente sbagliata, mi domando perché il precedente Governo avesse annunciato il ritiro dei militari entro il 2006. Se questo delitto è così grave, se abbandonare l'Iraq in questo momento è una scelta così drammatica, mi domando perché il precedente Governo avesse solennemente annunciato, nel corso della campagna elettorale, che le forze armate italiane si sarebbero ritirate entro il 2006 dall'Iraq.

Trovo un'evidente contraddizione tra questa posizione che era stata annunciata e i toni con cui, oggi, veniamo accusati - noi, il Giappone e altri - di compiere chissà quale tradimento nei confronti del popolo iracheno. Non soltanto ritengo che noi eravamo tenuti a fare ciò che abbiamo promesso in campagna elettorale - almeno noi, perché pare che altri avessero una diversa disposizione d'animo -, ma credo che il rientro delle nostre Forze armate possa essere gestito in modo tale da non creare vuoti drammatici in Iraq, dove, in realtà, il processo di pace è affidato, secondo me, più che alla pressione militare al processo politico che si è aperto.

Dobbiamo guardare alla realtà irachena al di là di schemi di carattere propagandistico. Del resto, quante volte ci siamo scontrati, tra chi sostiene che in Iraq c'è la resistenza e chi dice, invece, che c'è il terrorismo! In realtà - e credo di non rivelare un segreto, in quanto cito parole del Presidente iracheno Talabani - in Iraq ci sono state e ci sono l'una e l'altra cosa, resistenza e terrorismo.

Il vero dramma iracheno è che il terrorismo di Al Qaeda o dei gruppi più ristretti che si erano organizzati intorno a Saddam Hussein aveva trovato il terreno fertile anche di una resistenza nazionale contro le truppe occupanti, che il Presidente stesso dell'Iraq ha definito «una resistenza nazionale aperta con cui dobbiamo negoziare». Tant'è vero che stanno negoziando.

Questa è la grande novità, oggi, sulla scena irachena: si è aperto concretamente un negoziato tra la resistenza e il Governo di riconciliazione nazionale, che ha come obiettivo quello di isolare i gruppi terroristici. Ovviamente ci sono anche i gruppi terroristici, ma dopo il colpo dato al terrorismo con l'uccisione di Al Zarqawi, in questo momento, l'obiettivo è quello di cercare di isolarli, offrendo ai diversi gruppi, che hanno animato una resistenza che certamente ha avuto dimensioni assai più ampie degli atti terroristici, la prospettiva di integrarsi in una dialettica politica di tipo democratico.

Alcuni di questi gruppi hanno accettato - avete visto che a questo si è accompagnata una cospicua azione di liberazione di prigionieri che erano stati arrestati nel corso di questi anni -, altri gruppi resistono. Una parte di questi gruppi, inoltre, pongono come condizione per trovare un'intesa che ci sia un calendario del ritiro delle forze armate straniere dall'Iraq. Insomma, la realtà è molto più complicata di come ce la raccontiamo.

Lo dico anche per coloro che, a un certo momento, è sembrato che negassero l'esistenza del terrorismo in Iraq. Il terrorismo, invece, c'è e c'è stato un terrorismo stragista che ha innanzitutto determinato lutti tragici per il popolo iracheno. Basti pensare allo stragismo di Al Qaeda contro le popolazioni sciite. In quel caso, ha operato un terrorismo stragista e, nello stesso tempo, hanno operato anche gruppi di resistenza nazionale. Il vero problema politico era separare gli uni dagli altri: isolare il terrorismo e aprire la strada ad una riconciliazione con quelle forze che si sono opposte alla presenza militare straniera. É quello che sta accadendo oggi, è quello che sta facendo meritoriamente il Governo di riconciliazione nazionale, che noi sosteniamo in questa opera.

Dobbiamo sostenerlo, perché questa è esattamente la strada per una pacificazione, e secondo me lo è molto più che un'imponente presenza militare straniera. Come ha detto Jack Straw - non un pericoloso estremista di Lotta continua -, la presenza delle forze armate straniere è parte del problema e non solo della sua soluzione. È evidente che la presenza di forze armate straniere è stato un elemento catalizzatore dell'azione violenta.

Credo che in Iraq le cose potrebbero mettersi nella direzione positiva di un processo di pacificazione e che noi dobbiamo dare il nostro contributo politicamente, sul piano dell'assistenza e del sostegno, nelle forme compatibili con la sicurezza degli italiani che si trovano in Iraq. Quanto alla domanda che mi è stata rivolta, considerato che abbiamo deciso di ritirare le nostre forze armate, non possiamo metterle a disposizione della sicurezza di chi, privati o imprese, decidano di recarsi in zone di conflitto. Non è questo il compito istituzionale delle nostre Forze armate.

Le forme di cooperazione che intendiamo mantenere sono quelle compatibili con la garanzia della sicurezza del personale che sarà impiegato in Iraq. Certamente, dunque, avremo un'intensa cooperazione che si svolgerà a Baghdad, dove peraltro il Governo iracheno gradisce che tale cooperazione ci sia. La richiesta principale che ci siamo sentiti rivolgere è quella di rafforzare quelle missioni di formazione del personale, militare o di polizia, in cui siamo fortemente impegnati, che fanno capo alla NATO, all'Unione europea, o di rafforzare la presenza di tecnici italiani nei ministerial assistance team, gruppi di assistenza del Governo che si va costituendo. Credo, invece, che il cosiddetto PRT non sia nelle nostre possibilità, anche perché l'assunzione di quella responsabilità, come abbiamo detto più volte, avrebbe comportato il mantenimento nell'area di 800 militari italiani, una posizione chiaramente non compatibile con l'annuncio di un rientro delle nostre forze armate.

A chi ha giustamente criticato la logica delle guerre preventive e unilaterali, rispondo che non credo che il conflitto in Afghanistan possa essere riportato sotto il titolo di guerra preventiva e unilaterale. C'è una differenza sostanziale, di natura politica e giuridica, tra la guerra in Iraq e la guerra in Afghanistan, che non è stata preventiva. L'azione militare in Afghanistan si è sviluppata dopo che da quel territorio è partito un attacco terroristico contro gli Stati Uniti d'America; quell'azione, quindi, si è mossa nel pieno rispetto della Carta delle Nazioni Unite, con l'autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dopo che era stato rivolto un invito al Governo dell'Afghanistan a sospendere la sua collaborazione con i gruppi terroristici che operavano nel territorio. Inoltre, l'azione militare in Afghanistan è avvenuta con il sostegno di un'ampia coalizione internazionale, che ha compreso l'Unione europea, i paesi arabi, e via discorrendo.

Non si può, a giudizio mio e del Governo, mettere la situazione dell'Afghanistan sullo stesso piano della situazione dell'Iraq. Noi siamo in Afghanistan sotto l'egida delle Nazioni Unite e nell'ambito di una missione della NATO a cui partecipano anche numerosi paesi europei che non ne fanno parte, compresa la Svizzera.

Certamente si può essere preoccupati per la situazione in Afghanistan. Personalmente lo sono, e dirò come, a mio avviso, si può agire per affrontare i problemi delicati che si pongono e il rischio di un'escalation del conflitto, che non è certamente un nostro obiettivo. Tuttavia, non può sfuggire la fondamentale differenza esistente tra le due guerre. Pertanto, ritengo che non sia plausibile che si apra un dibattito sulla possibilità di una unilaterale exit strategy italiana dall'Afghanistan: noi siamo in quel paese con la NATO, con l'Unione europea e con l'ONU, e l'Italia non può uscire né dall'ONU, né dalla NATO, né dall'Unione europea. Questo non fa parte del nostro programma e mi pare che il Governo lo escluda (mi scuserete la battuta)!

Noi possiamo, dobbiamo e vogliamo aprire un confronto, anche con i nostri alleati, sulle prospettive della situazione in Afghanistan, poiché non c'è dubbio che oggi ci sono molti motivi di preoccupazione. Si è aperto, al riguardo, un dibattito internazionale. Basta pensare al lungo articolo del Washington Post sul Governo Karzai, nel quale si esprimono molti dubbi sulla capacità di tenuta di questo Governo e si presenta un'analisi molto preoccupata della situazione in Afghanistan. Basta leggere le dichiarazioni dello stesso Karzai, il quale ha rivolto una critica durissima alla condotta delle forze della coalizione, in particolare al modo in cui è stata condotta sin qui la missione Enduring freedom, per il suo alto costo in vittime civili, e via dicendo.

Si è aperta, insomma, una polemica, che però non è un «caso» italiano: non dobbiamo essere provinciali, non è un problema della maggioranza di centrosinistra, la verità è che si è aperta una discussione internazionale. Le parole di Karzai nei confronti della coalizione cha opera in Afghanistan non sono state pronunciate da un esponente della sinistra radicale, ma dal capo del Governo che noi sosteniamo, quello democratico. Le cose scritte dalla stampa americana sull'Afghanistan sono evidentemente il segno che esistono una preoccupazione e un dibattito internazionale sull'Afghanistan.

Penso che noi dobbiamo discutere con i nostri alleati. Non c'è dubbio che la missione non può evolversi nel senso di una escalation militare. Certo non sono fra quanti auspicano il ritorno del regime dei Talebani, che a me faceva orrore sin da quando prese il potere e fu festeggiato in tutto il mondo occidentale come una grande vittoria della libertà: mi faceva orrore allora, figuriamoci adesso. Non è certamente il regime dei Talebani quello che si deve auspicare. Tuttavia, il rischio è che questa azione militare trovi consenso in settori della popolazione, prenda la forma di una guerra etnica - pensiamo ai pashtun - e che il Governo di Kabul veda ristretta la sua effettiva sovranità ad una porzione molto piccola del paese.

È evidente che c'è un problema che riguarda le regole di ingaggio. Trovo positivo il fatto che si vada verso una rapida conclusione della missione Enduring freedom, che la responsabilità divenga una responsabilità multinazionale e che, in realtà, la sicurezza sarà assicurata dalla missione ISAF, perché le regole di ingaggio sono diverse e vi è anche una diversa misura nell'uso della forza.

Occorre, poi, un'azione politica di riconciliazione nazionale, occorre intensificare l'azione civile di cooperazione. Al riguardo, il Governo proporrà al Parlamento la conferma dello stanziamento per il nostro contingente militare, ma contemporaneamente un forte aumento dell'impegno di carattere civile, di cooperazione, nei limiti delle disponibilità finanziarie. Come diversi colleghi hanno sottolineato, mi aspetto una forte solidarietà da parte delle Commissioni affari esteri, anche per cercare di risollevare le sorti del bilancio del ministero.

Certamente dovremo approvare un decreto, per ragioni di scadenze, ma il decreto potrebbe essere lasciato «a perdere», come si dice, e il Parlamento potrebbe esaminare un disegno di legge. Trovo apprezzabile, comunque, che il Parlamento approvi un ordine del giorno, una mozione, che possa servire di indirizzo per l'azione di governo. Questo non solo non è scandaloso, ma è certamente apprezzabile su questioni delicate come quelle relative all'insieme delle missioni militari.

In questo provvedimento, lo annuncio, il Governo apposterà anche una cifra modesta per il Darfour. Non abbiamo un piano, ma esiste un appello delle Nazioni Unite e noi vogliamo prevedere una disponibilità finanziaria per rispondere all'appello stesso. È un messaggio politico, evidentemente, perché in questo momento nessuno ha un piano di intervento, tuttavia, noi siamo disponibili anche a dare soltanto un apporto logistico alle forze dell'Unione africana. Comunque, abbiamo voluto testimoniare che non chiudiamo gli occhi di fronte alla tragedia umanitaria del Darfour e che siamo disposti a dare una mano all'ONU in questa direzione.

Come ho detto nella precedente audizione, il Governo non è affatto contrario a che il Parlamento svolga un'analisi, anche approfondita, delle missioni militari italiane (ce ne sono circa 28, in quel decreto): a che punto sono, quali risultati hanno conseguito, quali prospettive hanno. Questo non è soltanto un diritto del Parlamento, ma credo che possa essere un'azione utile al paese, all'opinione pubblica; può anche rappresentare l'occasione per far conoscere meglio all'opinione pubblica l'opera delle nostre Forze armate - un'opera che io ritengo di grande valore, in tante parti del mondo - di tutela della pace, della sicurezza e via discorrendo.

È anche giusto, del resto, che il sesto paese al mondo per contributo a missioni internazionali di pace possa compiere in Parlamento un'analisi sullo sviluppo di queste missioni, compreso un approfondimento della situazione in Afghanistan. Non soltanto possiamo ascoltare i nostri militari e le numerose voci civili - in Afghanistan, oltre alla cooperazione pubblica, abbiamo la presenza anche di numerose organizzazioni non governative, che rappresentano forse una delle presenze internazionali più significative in quel paese -, ma ritengo che sarebbe molto utile sentire il rappresentante personale del Segretario generale delle Nazioni Unite in Afghanistan, il quale ci ha dichiarato la sua disponibilità - raccolta dal sottosegretario Vernetti, che è stato in Afghanistan - a venire a discutere con il Parlamento italiano e con le sue Commissioni. Sto parlando della persona da cui dipendiamo: noi siamo in Afghanistan nell'ambito di una missione la cui responsabilità politica sul campo è svolta dalle Nazione Unite.

Le preoccupazioni circa la situazione in Afghanistan le abbiamo espresse in tutte le sedi internazionali, e non sono ovviamente solo nostre, tanto è vero che nella prossima riunione ministeriale del G8, che si terrà a Mosca fra due giorni, questo tema è all'ordine del giorno e sarà affrontato sulla base di una relazione del ministro degli esteri tedesco, essendo la Germania il paese che, dopo gli Stati Uniti, probabilmente ha il più forte impegno militare nel paese, con la presenza di oltre 3 mila militari.

Certamente, dunque, le preoccupazioni sull'Afghanistan sono condivise. L'approccio, lo ricordo, non può essere simile alla vicenda irachena: dobbiamo affrontare queste preoccupazioni insieme ai paesi europei, ai paesi della NATO, ai paesi con i quali condividiamo questa difficile missione internazionale.

Il senatore Mantica ha sottolineato alcuni temi molto importanti. Il primo è il tema più generale del nostro impegno in Africa, al di là del Darfour, a cui ho fatto un cenno, o della Somalia, a cui mi sono riferito nella scorsa audizione. Noi stiamo lavorando in questo gruppo di contatto per la Somalia, dove certamente lo sviluppo degli avvenimenti è assai problematico, tuttavia conferma l'analisi che il nostro paese aveva fatto, e che purtroppo non è stata ascoltata dai nostri alleati. Consideriamo apprezzabile la missione svolta dall'onorevole Raffaelli: da questo punto di vista, c'è una notevole continuità di analisi, rispetto al lavoro che abbiamo ereditato; lo dico perché il senatore Mantica se n'è anche direttamente occupato, quindi da questo punto di vista vorrei dargli atto che l'impostazione dell'azione italiana verso la Somalia è stata da noi valutata positivamente.

Adesso il problema delicato è quello di favorire un dialogo fra i movimenti islamici, che godono di un grande favore popolare, e le autorità transitorie; un dialogo che non sarà reso facile dal fatto che questi movimenti hanno scelto come loro leader un esponente del fondamentalismo. La situazione, dunque, è molto complessa, ma l'impegno politico nostro esiste e tende a favorire un dialogo che garantisca una transizione pacifica in quel paese.

Più in generale, credo che sia maturo il tempo per lavorare ad un nuovo vertice tra Unione europea e Africa. Il precedente vertice de Il Cairo risale ormai a sei anni fa. Da allora, l'azione europea verso l'Africa si è sostanzialmente fermata, ha avuto un carattere episodico; neppure l'impegno della presidenza britannica è riuscito ad ottenere risultati molto concreti, malgrado la volontà politica di Tony Blair di segnalare, in questa azione verso l'Africa, un rinnovato impegno umanitario dell'Europa e della Gran Bretagna. Si terrà, nei prossimi giorni, una riunione euroafricana a Rabat, che però acquista un significato abbastanza circoscritto ai temi delle migrazioni nell'area del Mediterraneo occidentale.

Noi lavoriamo per arrivare ad un nuovo vertice euroafricano. Questo è l'obiettivo che ci proponiamo, perché alcune questioni - penso ai flussi migratori che dall'Africa, attraverso la Libia, si rivolgono verso il nostro paese - non possono essere affrontate in una logica di emergenza, ma hanno bisogno, per essere affrontate, di essere inquadrate in un rinnovato impegno verso l'Africa, verso i temi dello sviluppo e della difesa dei diritti umani in questa parte del mondo.

Per quanto riguarda la cooperazione, il Governo intende promuovere in Parlamento un dibattito per la riforma della cooperazione italiana. Si tratta di un vecchio impegno, che il Governo intende realizzare. In questo ambito, penso che lo strumento di un'agenzia, che separi nettamente le attività gestionali rispetto a un compito di indirizzo politico, che deve spettare al Ministero degli affari esteri, possa essere lo strumento rispondente all'esigenza di un rilancio della cooperazione italiana.

Per quanto riguarda l'Iran, non ho mai detto che noi non applicheremmo le sanzioni. Ho solo lamentato che l'Italia rischia di dover pagare una pesante taxation - le sanzioni sarebbero pesanti in particolare per i paesi che hanno più intense relazioni economiche con l'Iran, e noi siamo in Europa i primi partner commerciali dell'Iran - without representation, in quanto noi siamo rimasti tagliati fuori da questo negoziato. Abbiamo cercato di ritornare nel negoziato, allo scopo di spingere il Governo iraniano ad accettare le proposte - il cosiddetto pacchetto - messe a punto dalla comunità internazionale, in particolare dai paesi europei che hanno condotto il negoziato, che alla fine è diventato un negoziato condotto da Solana. Considero, peraltro, che questo sia un fatto positivo, in quanto nel protagonismo di Solana vedo l'Europa tutta e non soltanto alcuni paesi europei.

Ora siamo in una fase molto delicata, in cui le pressioni internazionali si moltiplicano, e noi speriamo che si possa arrivare ad una soluzione. È evidente che condividiamo l'obiettivo che l'Iran non abbia le bombe atomiche. Questo è un obiettivo prioritario, che siamo persuasi si possa conseguire attraverso un'azione politica in grado di prospettare all'Iran anche dei vantaggi, non soltanto delle minacce. Sappiamo bene che paesi in cui c'è una forte spinta nazionalistica, radicale, non si piegano soltanto con le minacce. Questo, al contrario, a volte rischia di eccitare sentimenti nazionalistici di contrapposizione.

Il vantaggio è anche che l'Iran possa normalizzare il sistema delle sue relazioni internazionali ed essere riconosciuto come un partner peraltro necessario in un'area del mondo - penso all'Afghanistan e all'Iraq - dove è difficile pensare ad una stabilità senza la partecipazione attiva e volonterosa dell'Iran.

Questa è la nostra posizione, una posizione di appoggio alla comunità internazionale per una soluzione pacifica e diplomatica di questa crisi, in grado anche di aprire uno scenario nuovo di collaborazione in quella parte del mondo. A questo fine, condivido l'orientamento espresso da molti colleghi circa la necessità di un'azione dell'Italia per rilanciare il processo dell'unità europea.

Per la verità, il Consiglio europeo non ha fatto compiere passi in avanti enormi, da questo punto di vista. Prevale un sentimento di attesa, soprattutto per quanto attiene al processo costituzionale, mentre sul piano dei cosiddetti progetti concreti c'è un'attività più fattiva (sui temi dell'energia, sui temi della cooperazione in materia di lotta alla criminalità, e via dicendo). Insomma, c'è una certa volontà di fare insieme qualcosa che dimostri la vitalità dell'Europa, c'è attesa rispetto alle prospettive del Trattato costituzionale.

Anche noi vogliamo fare qualcosa sul terreno delle cooperazioni europee. In particolare, come avrete visto, il Presidente del Consiglio, anche con un'azione personale, sta lavorando ad un progetto per il Mediterraneo, che impegni un gruppo di paesi europei. Si tratta di un progetto, tra l'altro, di carattere economico, attraverso la creazione di una banca per lo sviluppo del Mediterraneo, costituita da paesi europei, paesi dell'altra sponda del Mediterraneo e capitali privati (quindi un'istituzione pubblica e privata). Al riguardo, abbiamo già registrato un forte interesse: Francia, Spagna, Grecia, ma anche Austria e Germania sono disponibili, quindi il pacchetto dei paesi europei è già significativo; per quanto riguarda i paesi dell'altra sponda del Mediterraneo, per ora abbiamo registrato l'adesione dell'Egitto, ma siamo convinti di poterne raccogliere altre.

Vorremmo, però, che questa iniziativa si accompagnasse a progetti di cooperazione anche sul piano scientifico e culturale, come la creazione di due università euro-arabe.

Insomma, vorremmo mettere qualcosa di concreto dentro le politiche euromediterranee, che finora sono state una cornice, ma senza iniziative concrete significative. Tutto questo ha il significato di non stare con le mani in mano, in un periodo di riflessione. È certo che il passaggio cruciale per l'Europa, nel corso della prossima primavera, sarà allorché le elezioni francesi e la presidenza tedesca rappresenteranno il momento in cui noi crediamo fermamente si debba rilanciare il progetto costituzionale per l'Europa.

Noi naturalmente lavoreremo per questo. Stiamo lavorando con altri paesi perché riteniamo che il momento cruciale sarà a cavallo del cinquantesimo anniversario del trattato di Roma, le elezioni francesi ed il Consiglio europeo del giugno 2007, ossia tra primavera ed estate dell'anno prossimo. Tuttavia, in attesa di questo momento cruciale, bisogna moltiplicare le iniziative, i colloqui, i contatti.

L'incontro con il segretario di Stato americano è stato un incontro positivo, al di là delle speculazioni giornalistiche. Innanzitutto, gli americani hanno apprezzato il modo in cui abbiamo affrontato la vicenda irachena, con senso di responsabilità, laddove certamente c'era una diversità di giudizio e di valutazione. Non c'è dubbio che non abbiamo scelto la via di una rottura, di una lacerazione, e questo atteggiamento anche di attenzione nei confronti del Governo iracheno è stato apprezzato dagli americani. Magari avrebbero preferito che lasciassimo in Iraq i nostri soldati, ma nella diversità di valutazione c'è stato un apprezzamento per il modo in cui abbiamo gestito questo passaggio.

Al di là di questo punto, che è stato uno dei temi del dialogo, la mia sensazione è stata che l'amministrazione americana oggi sia alla ricerca di una collaborazione con l'Europa e che, rispetto a qualche anno fa, ci sia molto più interesse a collaborare con l'Europa nel suo insieme che non a reclutare in Europa un gruppo di paesi willing, disponibili ad accompagnare le scelte unilaterali degli Stati Uniti. Evidentemente, l'esperienza di questi anni ha determinato un cambiamento di passo, anche nella politica americana. L'idea che l'Italia sia un paese che si impegna per rilanciare l'unità dell'Europa non è parsa in contraddizione con la possibilità di avere una partnership positiva, in questo quadro nuovo, con gli Stati Uniti d'America. Ed è esattamente l'indirizzo che noi intendiamo dare alla politica estera italiana: amici degli Stati Uniti e impegnati forse più di prima. Fini si è irritato, per questa mia affermazione, ma è naturale che ognuno si proponga di fare di più, è umano. Alla fine, quando si fanno i bilanci, si vede se è stato fatto di più o di meno, ma non ci si può urtare per il fatto che uno si proponga di essere più europeista. A dire il vero, se mi fossi abbandonato, avrei detto «più e meglio». Si tratta di un proposito, i consuntivi li vedremo alla fine.

Penso che oggi sia possibile operare in questo senso, in modo non contraddittorio, in un rapporto positivo con gli Stati Uniti e in un forte rilancio del nostro impegno europeo. Impegno che, d'altro canto, è stato sottolineato, oltre che dalle azioni del ministro degli affari esteri, dalla presenza sulla scena europea del Presidente del Consiglio, in numerosi incontri e visite che hanno caratterizzato, in queste prime settimane, una rinnovata presenza dell'Italia in Europa, com'era negli auspici e nei programmi dell'attuale Governo. Stiamo negoziando, con il Ministero dell'economia e delle finanze, non soltanto un'adeguata disponibilità di risorse, ma anche la possibilità di una gestione più flessibile del bilancio del ministero. Di questo, quando saremo più vicini alle scadenze economiche, torneremo a discutere. Certamente per noi sarà prezioso il sostegno delle Commissioni affari esteri, che, ovviamente, hanno interesse che il Ministero degli affari esteri

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