Discorso
18 luglio 2006

Camera dei Deputati - Informativa urgente del Governo sui recenti sviluppi della situazione in Medio Oriente

Testo dell'intervento


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Signor Presidente, colleghi deputati, permettetemi innanzitutto di ricostruire la dinamica della crisi del conflitto che sta infiammando il Medio Oriente, che ci riempie tutti di angoscia e che presenta aspetti di inquietante novità.

A differenza che in passato, non si tratta soltanto di una drammatica ripresa del conflitto tra Israele e i palestinesi o di una nuova escalation nel Libano del sud. La novità della crisi che sta colpendo al cuore la sicurezza di Israele e sta, insieme, provocando enormi costi umani e civili a Gaza e nel Libano è data dalla sua potenziale dimensione regionale, dal rischio, cioè, che inneschi una spirale di guerra tale da investire la regione mediorientale. Anche per questo, arrestare questa spirale subito appare decisivo all'Italia e alla Comunità internazionale.

Le origini della crisi vanno ricondotte al confronto nella regione tra le forze che, con realismo, intravedono nella pace e stabilità l'unica reale prospettiva per il futuro e le forze radicali ed estremistiche che credono invece nel conflitto. Sono forze che attraversano i confini degli Stati nazionali, che sono in parte appoggiate o finanziate dall'esterno e sono forze che ritengono di poter imporre con la violenza le loro regole nella regione. È un calcolo pericoloso, costoso in termini di vite umane e destinato ad essere perdente.

Non a caso, la crisi è stata innescata da forze radicali, l'ala oltranzista di Hamas con base a Damasco e guidata da Mechal, e dal gruppo fondamentalista Hezbollah, proprio nel momento in cui si stava aprendo un importante spiraglio per la ripresa del dialogo israelo-palestinese grazie alla mediazione del presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen.

L'attacco, il 25 giugno scorso, del Kibbutz di Kerem Shalom, con l'uccisione di due soldati israeliani e il rapimento del caporale Shalit, è praticamente coinciso con il primo incontro, 22 giugno, tra il primo ministro israeliano Olmert e il presidente palestinese Abu Mazen, che aveva alimentato qualche positiva speranza di ripresa del dialogo israelo-palestinese. Parallelamente, lo stesso Abu Mazen stava negoziando con l'ala moderata del Governo di Hamas la piattaforma politica nota come «documento dei prigionieri», con l'intenzione di condurre al riconoscimento di Israele da parte di Hamas e alla ripresa del processo di pace.

Ma le forze estremiste, come ho detto, non hanno permesso che ciò avvenisse. È seguita la reazione israeliana. A partire dal 27 giugno, è iniziata un'ampia offensiva militare di Israele nella striscia di Gaza, al fine di impedire l'eventuale fuga dei rapitori in altri paesi, di fatto sigillando la striscia di Gaza e il valico di Rafah, dove opera la missione di monitoraggio dell'Unione europea comandata dal generale italiano Pietro Pistolese, che ha potuto riaprire il valico di Gaza, almeno temporaneamente, solo nella giornata di ieri, per motivi umanitari.

La risposta israeliana ha comportato il reingresso delle forze armate nella striscia di Gaza, che era stata abbandonata nel quadro del piano di ritiro unilaterale di Sharon. Operazioni di rastrellamento hanno portato all'arresto di 9 membri del Governo palestinese, di 20 parlamentari, di decine di membri di Hamas, cui è stato contestato il reato di appartenenza a banda armata.

La reazione israeliana, legittima sulla base del diritto di autodifesa, come sancisce l'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, è andata al di là di una ragionevole proporzione che il diritto internazionale richiede, soprattutto per quanto riguarda le tante vittime civili, l'attacco a infrastrutture essenziali, come la centrale elettrica di Gaza, con conseguenze molto gravi per tutta la popolazione e per il funzionamento di servizi fondamentali, come gli ospedali collocati nella striscia di Gaza.

È per questo che il Governo italiano e l'Unione europea, nel condannare fermamente l'azione terroristica dei gruppi radicali islamici, hanno anche invitato Israele a moderare la propria risposta, nell'interesse della sua stessa sicurezza. Rileggiamo la dichiarazione del 30 giugno dell'Unione europea: dura condanna della violenza dell'attività terroristica contro Israele da parte dei gruppi radicali islamici e nello stesso tempo invito ad Israele ad esercitare il massimo di autocontrollo - restraint - nella risposta.

La giornata del 12 luglio ha segnato un repentino salto di qualità nella crisi con l'apertura di un ulteriore fronte di conflitto, quello libanese. Il blitz di un commando di Hezbollah in territorio israeliano ha provocato l'uccisione di 8 soldati israeliani e il rapimento di due. La reazione israeliana è stata immediata con un'escalation militare diretta in primo luogo contro obiettivi Hezbollah, ma che ha colpito infrastrutture civili nel sud del Libano e poi, via via, in tutto il Libano, l'aeroporto di Beirut e i quartiere a maggioranza sciita della capitale, imponendo di fatto un blocco degli accessi aerei e navali alla capitale libanese.

La progressiva estensione delle operazioni militari indica che l'obiettivo perseguito da Israele, anche con il parziale utilizzo di truppe di terra, è quello della totale neutralizzazione della base militare di Hezbollah. L'equipaggiamento militare di questo gruppo, che dispone di un arsenale di migliaia di missili, lo ha dotato di una capacità di risposta che rappresenta una seria minaccia per Israele, soprattutto l'alta Galilea e la stessa città di Haifa, dove gli attacchi di Hezbollah hanno già provocato numerosi morti e feriti.

Tuttavia, l'offensiva militare israeliana colpisce complessivamente il Libano. In questo momento il bilancio delle operazioni militari è già drammatico sia in termini di perdite di vite umane - 220 morti si conterebbero sin qui nel Libano, in grandissima parte tra la popolazione civile; oltre 850 feriti, oltre 100 vittime nei territori palestinesi -, sia per gli ingenti danni a infrastrutture, rete viarie, edifici, aeroporti, che giungono dopo una faticosa e costosa opera di ricostruzione, a cui aveva concorso l'intera comunità internazionale, con l'Italia in prima linea, riportando indietro le lancette dell'orologio ai disastri della guerra civile.

Anche il Governo libanese è posto in una seria difficoltà; e non dimentichiamo che il Libano è una fragile ma preziosa democrazia in quella regione del mondo.

Nel frattempo, la situazione umanitaria a Gaza è letteralmente disastrosa. Il rischio principale, oggi, è costituito da un allargamento del conflitto anche ad altri paesi della regione. È questo uno scenario che la comunità internazionale sta cercando in tutti i modi di prevenire e di evitare: i costi umani sarebbero altissimi, quelli politici ed economici inestimabili.

Colleghi deputati, questa è la rapida ricostruzione della dinamica della crisi, una ricostruzione che spiega sia i dilemmi di Israele, sia quelli dei suoi vicini. Israele ha letto nelle operazioni di commando di Hamas e Hezbollah una regia precisa volta a destabilizzare il quadro locale regionale e che si concretizza, ormai, come una vera e propria minaccia esistenziale per lo Stato ebraico. È evidente che Israele ha la forza militare per rispondere, ma è altrettanto evidente che il rischio politico di una disintegrazione del Libano certo non rafforzerebbe la sicurezza di Israele stesso. Va tenuto conto che Hezbollah non controlla solo il sud del paese: dopo il ritiro delle truppe siriane ed in chiara violazione della risoluzione n. 1559 delle Nazioni Unite, Hezbollah è anche una forza politica sciita libanese, rappresentata in Parlamento e nel Governo.

Il confronto militare nel sud del Libano rischia quindi, se l'escalation non si fermerà, di mettere a dura prova l'unità del paese. Nel frattempo, la Siria, che, come è noto, non ha mai firmato con Israele un trattato di pace, ha dimostrato di volere ancora esercitare un ruolo regionale, potendo, fra l'altro, contare sull'appoggio dell'Iran, il cui Presidente continua a negare il diritto all'esistenza di Israele o, peggio, a parlare della cancellazione di Israele dalle carte geografiche.

Questa è la situazione in tutta la sua gravità. Non si tratta più soltanto del ripetersi di crisi gravi e dolorose, ma che abbiamo già visto in passato: si tratta di una dimensione diversa che coinvolge radicalismo, terrorismo, equilibri di potere regionale. Vorrei dire che se la situazione oggi è così drammatica per Israele, per i palestinesi, per il Libano, per l'intera regione dipende anche dai fallimenti della politica di questi anni. Torna alla mente l'analisi semplicistica di chi considerava la guerra in Iraq come l'avvio di una nuova, straordinaria stagione, l'effetto domino che avrebbe prodotto democrazia e pace in tutta la regione: una visione ideologica, illusoria.

Ci eravamo opposti a quella guerra anche per questa ragione, perché eravamo convinti che la teoria secondo cui avremmo rifatto il Medio Oriente partendo da Baghdad si sarebbe dimostrata una tragica illusione. Per meglio dire, in effetti è stato rifatto il Medio Oriente, ma non con i risultati sperati.

In questo momento, il terrorismo ed il fondamentalismo sono più forti che nel passato e si alimentano di un odio anti-occidentale in tanta parte del mondo arabo ed islamico che certamente la guerra in Iraq ha alimentato. Il fondamentalismo religioso si è rafforzato, in particolare quello di marca sciita, anche perché paradossalmente il regime di Saddam Hussein era un contrappeso rispetto alla forza del fondamentalismo sciita. Insomma, la situazione di oggi è molto più esposta di prima e molto più rischiosa e questo rischio investe non solo Israele, ma tutta la regione, il mondo intero.

Credo anche sia doveroso da parte mia sottolineare come la crisi attuale metta in evidenza come una visione prevalentemente militare della sicurezza di Israele, quale quella che ha prevalso sin qui - omicidi mirati, rappresaglie, restrizioni che aggravano le condizioni di vita dei palestinesi - non solo produce non sostenibili costi umani, ma accresce il livello dell'odio e, quindi, dell'insicurezza. È mia convinzione che chi ha autenticamente a cuore la sicurezza ed il destino di Israele deve preoccuparsi di costruire una pace che è l'unica condizione perché la sicurezza sia autentica e duratura.

Il Governo italiano si è, sin dall'inizio, attivato attraverso i suoi contatti bilaterali con i principali attori della crisi. Abbiamo svolto la nostra azione in costante sintonia con i nostri principali partner. Ho personalmente contattato il Presidente Abu Mazen per invitarlo a fare pressioni su Hamas affinché venisse facilitato il rilascio del soldato israeliano rapito.

Parallelamente, ho espresso al ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni le preoccupazioni per un'escalation della crisi, invitando il suo Governo ad una reazione moderata.

Il Presidente del Consiglio Prodi ha avuto colloqui con il Primo ministro israeliano Olmert e il Primo ministro libanese Siniora. Congiuntamente, in momenti diversi, abbiamo esercitato pressioni verso il Governo siriano - Prodi, parlando più volte con Assad -, al fine di facilitare l'avvio di un dialogo che resta quanto mai problematico. Sia il Presidente Prodi che io abbiamo sollecitato direttamente gli stati della regione - inclusi l'Iran e la Siria, le cui ipotesi di indiretto coinvolgimento sono per noi difficili da verificare - a svolgere un ruolo costruttivo, di convinzione, di pacificazione e, innanzitutto, per la restituzione dei militari israeliani rapiti allo Stato di Israele e alle loro famiglie.

Dirò tra poco del ruolo svolto dal nostro Governo nel G8. Lasciatemi prima sottolineare un aspetto importante per il nostro paese, anche se può apparire marginale nel corso della crisi. L'Italia è stato tra i primi paesi a procedere al rimpatrio dal Libano dei propri cittadini che intendevano lasciare il paese, con un'operazione delicata di cui credo si debba dare atto qui a chi l'ha compiuta, innanzitutto la struttura dell'unità di crisi della Farnesina, con la cooperazione della difesa, che ha portato a compimento, in modo brillante e in stretto coordinamento non solo con gli altri paesi europei ma anche con il Governo libanese e le autorità israeliane, il rimpatrio di diverse centinaia di cittadini italiani via terra, attraverso la Siria, e poi con un ponte aereo, e in parte via mare, con la collaborazione della Marina militare e del cacciatorpediniere Durand de la Penne dal porto di Beirut.

Sono stati rimpatriati 450 connazionali e 340 cittadini di nazionalità non italiana. Calcoliamo che siano presenti in Libano ancora numerosi italiani, circa 700, la maggior parte dei quali al momento non ha chiesto di rientrare in Italia. Si tratta, infatti, di cittadini radicati da tempo in Libano, che si presume chiederanno di rimanere, almeno in parte, fino all'ultimo nel paese. Siamo preoccupati per un gruppo ristretto di connazionali che si trovano nel Libano del sud, l'area più critica dal punto di vista della sicurezza. È allo studio un piano di cooperazione con i partner dell'Unione europea per prestare loro assistenza e condurli in una zona sicura.

Tornando all'azione politica-diplomatica, il Governo italiano ha concorso attivamente, attraverso il Presidente Prodi che ha preso parte ai lavori del vertice del G8 di San Pietroburgo, alla formulazione della dichiarazione sul Medio Oriente, che indica una possibile via d'uscita, ardua ma probabilmente l'unica possibile, dall'attuale crisi. Ne ricordo gli aspetti qualificanti.

Primo: la creazione delle condizioni per un cessate il fuoco. Le condizioni individuate sono, com'è noto, la liberazione dei soldati rapiti, la cessazione dei lanci di missili sul territorio israeliano, la fine delle operazioni militari israeliane, il ritiro da Gaza e la rimessa in libertà dei ministri e dei parlamentari palestinesi detenuti.

Secondo: la presa d'atto che una vera pacificazione in Libano passa attraverso la piena attuazione della risoluzione n. 1559 delle Nazioni Unite, che prevede il disarmo delle milizie presenti sul territorio albanese e il pieno controllo sul sud di quel paese e su tutto il territorio nazionale da parte dell'esercito regolare libanese.

È in questo contesto che la dichiarazione del G8 fa espresso riferimento alla possibilità di una missione di monitoraggio e sicurezza internazionale su mandato del Consiglio di sicurezza dell'ONU. Come è noto, una missione di monitoraggio esiste già nel paese, con la presenza di 2 mila caschi blu. Essa, tuttavia, si è rivelata assolutamente insufficiente. La forza di cui si sta discutendo sarebbe una forza internazionale di sicurezza assai più consistente dell'attuale numero di caschi blu, con mandato delle Nazioni Unite volto a garantire l'applicazione della risoluzione n. 1559. Si tratta di una forza che sarebbe spiegata solo dopo un cessate il fuoco, che dovrebbe garantirne l'applicazione nel tempo. A questa forza delle Nazioni Unite, proposta da Kofi Annan al vertice del G8, il Governo italiano si è detto disposto a contribuire ed io confermo questo intendimento del Governo in questa sede.
Personalmente, pur sapendo che oggi questa questione non è all'ordine del giorno, mancando, sino ad ora, la disponibilità delle parti, in particolare della parte israeliana, ritengo che sarebbe giusto studiare anche l'ipotesi di una presenza di monitoraggio dell'ONU nella striscia di Gaza, allo scopo, al tempo stesso, di fermare la spirale della violenza e di garantire - ed anche di contribuire a garantire - la sicurezza di Israele.

Sono di queste ore alcune dichiarazioni, in particolare una dichiarazione del ministro degli esteri israeliano, Tzipi Livni, e, poi, una dichiarazione del ministro dell'ambiente di Tel Aviv, che fanno registrare una possibilità disponibilità da parte del Governo israeliano ad accettare un dispiegamento consistente di forze ONU nel sud del Libano, allo scopo di garantire la sicurezza di Israele contro attacchi di tipo missilistico e di garantire un possibile futuro cessate il fuoco. Si tratta di segnali positivi che credo debbano essere sottolineati.

È in corso, in questi giorni, una missione ricognitiva dell'ONU, guidata dall'inviato speciale del Segretario generale Roed Larsen. Il Consiglio di sicurezza esamina giornalmente l'evoluzione della crisi. Le diplomazie di paesi arabi moderati - oltre all'Egitto, Giordania ed Arabia Saudita - sono al lavoro. È in preparazione una riunione del «quartetto». Il Segretario di Stato degli Stati Uniti, Condoleeza Rice, ha annunziato come imminente una sua missione nei paesi dell'area.

Ma è anche per l'Europa e per l'efficacia della sanzione esterna che questa crisi costituisce un delicatissimo banco di prova. Xavier Solana si è recato a Beirut nel fine settimana, dove ha espresso la solidarietà europea al premier, Fuad Siniora. L'Alto rappresentante ha riferito ieri di questa missione ai ministri degli esteri dell'Unione europea, riuniti a Bruxelles per il Consiglio affari generali. Nelle sue conclusioni, il Consiglio ha ribadito la preoccupazione per la situazione, in particolare per l'aggravamento della situazione umanitaria, deplorando il numero di morti civili. Il Consiglio ha chiesto nuovamente il rilascio dei soldati rapiti e l'immediata cessazione delle ostilità. Le conclusioni ribadiscono che l'Unione europea riconosce il diritto legittimo di Israele all'autodifesa, ma esortano ancora Israele a non ricorrere ad azioni sproporzionate. Le conclusioni riaffermano l'urgenza che la comunità internazionale si impegni attivamente in direzione di un negoziato politico, l'unica strada che può garantire alla regione una pace duratura.

Come vedete, la linea del Governo italiano è perfettamente coerente con l'impostazione dell'Unione europea. La linea del Governo italiano punta oggi a rendere possibile una forte iniziativa a sostegno degli obiettivi fissati dal G8. La nostra convinzione è che l'Europa possa - e debba - disegnare un suo ruolo in Medio Oriente, proprio cominciando ad assumersi impegni concreti per l'attuazione delle linee concordate a San Pietroburgo.

Se l'Unione europea vuole davvero essere in grado di esercitare un'influenza in Medio Oriente, un'influenza moderatrice su Israele e dissuasiva verso il terrorismo islamico, essa deve rassicurare gli israeliani che la comunità internazionale - e, in primo luogo l'Europa - intende fare qualcosa di concreto per l'attuazione della risoluzione ONU n. 1559, per fermare i gruppi terroristici Hezbollah. In questi termini, del resto, il presidente Prodi si è espresso ieri sera, sia con il premier israeliano Olmert, sia con il premier libanese. L'Unione europea dovrebbe anche dichiarare sin da subito la propria volontà di assumere un ruolo di primo piano per la realizzazione dei passi successivi previsti dal G8, inclusa la Conferenza donatori per il Libano, iniziativa in cui l'Italia intende impegnarsi attivamente.

Infine, l'Europa dovrebbe preparare una posizione autenticamente comune in vista delle prossime decisioni del Consiglio di sicurezza. Abbiamo già visto quanto le divisioni europee abbiano, in passato, pregiudicano la nostra possibilità di influenza in Medio Oriente. È una lezione negativa, da non ripetere.

In conclusione, una crisi drammatica come quella che abbiamo sotto gli occhi, richiede risposte tempestive e coraggiose. L'Italia ha cercato di fare il possibile per muoversi in tal senso, come dimostrano i passi compiuti, non solo i passi politici, ma anche l'impegno umanitario diretto del nostro paese a Gaza e lo sforzo per favorire una convergenza degli europei e del G8, fino ai tentativi di richiamare gli attori regionali ad atteggiamenti responsabili, fino alla nostra disponibilità immediata a sostenere gli oneri, anche militari, oltre che politici ed economici, previsti dalla dichiarazione del G8.

Ma il nostro impegno non basterà certo se rimarrà sul piano bilaterale, se non diventerà un impegno corale dell'Europa e se l'Europa non riuscirà ad avere un'influenza in accordo con gli Stati Uniti, la Russia ed i paesi arabi interessati alla pace.

Date le polemiche interne nate sulle linee dell'impegno italiano, concluderò ricordando i principi che orientano la nostra azione. Sono tre e molto chiari.
Innanzitutto, la difesa della sicurezza di Israele e insieme, sullo stesso piano, l'affermazione del diritto del popolo palestinese ad uno Stato indipendente e democratico.

In secondo luogo, la convinzione secondo cui tale soluzione non può essere raggiunta con scelte unilaterali ma solo con un negoziato tra le parti appoggiato attivamente dalla comunità internazionale. Proprio perché teniamo a che la pace tra Israele ed i suoi vicini sia duratura e non precaria o illusoria, siamo fermamente convinti che solo il negoziato sia la via seriamente percorribile. L'esperienza tragica di queste settimane dimostra che le iniziative unilaterali non bastano e non garantiscono la sicurezza.

In terzo luogo, l'esigenza di costruire progressivamente, a partire dalla pacificazione del Libano, un nuovo assetto della sicurezza regionale, che permetta di fare avanzare i diritti democratici dei popoli, di combattere efficacemente il terrorismo e di opporsi alla proliferazione nucleare.

A tali principi e orientamenti se ne aggiunge un altro che tendiamo regolarmente a sottovalutare: l'assetto futuro del Medio Oriente è una variabile decisiva della nostra stessa sicurezza, della sicurezza europea. Se vi è un'area dove l'Europa deve riuscire ad impegnarsi in modo più unitario e concreto di quanto sia avvenuto fino ad oggi, questa è il Medio Oriente. Paradossalmente, una crisi come quella che abbiamo sotto gli occhi non sottolinea solo la passata debolezza dell'Europa: può anche essere l'occasione di una ripresa e di una iniziativa. Questo è l'impegno verso il quale si orienta il Governo italiano

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