Intervista
7 settembre 2006

«Ora la pace è possibile»

Intervista di Fulvio Scaglione - Famiglia Cristiana


«Vinceremo il terrorismo», dice il ministro degli Esteri, «se sapremo mobilitare il mondo arabo. Ma per riuscirci l'Occidente dev'essere coerente con i valori per cui combatte».

«Puntiamo sul multilateralismo, quindi a dare impulso all’azione dell’Europa e a rivitalizzare il sistema delle Nazioni Unite, e l’abbiamo spiegato in Parlamento ben prima che ci fosse il Libano. L’unico aspetto rimarchevole della nuova politica estera italiana è che quello che abbiamo detto l’abbiamo poi anche fatto».

A Lappeenranta (Finlandia) si è appena svolto il Consiglio dei ministri degli Esteri dell’Unione europea, una nuova missione in Medio Oriente (in Israele, Giordania e Territori palestinesi) è alle porte, le truppe italiane sono ormai arrivate in Libano. Un’altra settimana di ordinario attivismo, alla Farnesina, ed è difficile che il ritmo rallenti. C’è una sfida in corso e Massimo D’Alema, vicepremier e ministro degli Esteri, la descrive così: «Dobbiamo dimostrare che con l’azione dell’Onu e dell’Europa e la cooperazione internazionale può nascere quel nuovo Medio Oriente, dove prevale la pace e avanzano i processi democratici, che con l’unilateralismo Usa e la guerra non è nato. Il multilateralismo ha la sua grande occasione, adesso puntiamo a farlo vincere».

Multilateralismo, Europa, Onu. La ricetta per il futuro è fatta di ciò che ieri sembrava inutile. Che cos’è successo?

«La stagione dell’unilateralismo si è conclusa con uno smacco, basta vedere il dramma senza uscita dell’Irak. Gli stessi americani cercano nuovi orizzonti politici. Non sono più interessati alle Coalition of the willing, alle "Coalizioni di volenterosi" come per l’Irak, ma piuttosto a coinvolgere l’Europa a un impegno più istituzionale della comunità internazionale. In questo hanno trovato nell’Italia un interlocutore interessante. La cosa che più colpisce è che abbiamo avviato la nostra politica in una chiave di rinnovamento rispetto a quella neoconservatrice, con il ritiro dall’Irak che ha anche un valore simbolico, e abbiamo trovato una sponda proprio negli americani. Molti pensavano: o il Governo va d’accordo con gli Usa, e allora apre un confronto con settori della sua maggioranza, o entra in urto totale con la Casa Bianca. È successo, invece, che noi abbiamo l’unità della maggioranza, l’appoggio degli Usa e il consenso dell’opposizione».

Si chiede all’Europa di giocare un ruolo importante. Ma è in grado di farlo?

«Non c’è dubbio che l’Europa fatica a funzionare. Il nuovo scenario mondiale, però, offre l’opportunità di un’azione europea non antagonistica ma complementare a quella degli Usa, e i Paesi europei questa volta hanno fatto gioco di squadra. La riunione dei ministri degli Esteri a Bruxelles, con la presenza di Kofi Annan, è stata un momento di protagonismo europeo quale non si vedeva da anni, e anche di unione, perché la decisione sul Libano è stata unanime. Tutto questo è stato possibile perché per lo stesso obiettivo hanno lavorato pure gli americani. Ne sono testimone, c’è stato un lavoro di squadra con il Dipartimento di Stato, proprio per determinare uno scenario politico nuovo».

Parlando di Libano. Durante le trattative per la formazione del contingente Onu, l’Italia in certi momenti è sembrata addirittura sola. Non avete mai temuto di restare, come si dice, con il cerino in mano, di essere abbandonati dagli altri Paesi?

«Sì, il rischio c’è stato. In quel momento è stato importante mantenere la propria posizione, con la fiducia che la fermezza avrebbe smosso anche gli altri. E poi non eravamo soli: la Francia all’inizio aveva alcune incertezze, ma non è mai mancato il sostegno di Usa, Spagna, Germania, Gran Bretagna. Certo, ci sono sempre rischi se si vuol fare politica a un livello elevato. Se si lascia l’iniziativa agli altri ci sono meno rischi, ma anche meno opportunità».

Lei ora torna in Israele. Molti non gradirono le sue critiche alla condotta della guerra contro Hezbollah…

«Uno può criticare i limiti della politica americana senza per questo essere antiamericano. D’altra parte nessuno verrebbe considerato anti-italiano per aver criticato Berlusconi: sono identificazioni rozze, inaccettabili nei Paesi democratici e tipiche piuttosto dei regimi autoritari. Nel caso di Israele, poi, lo scambio concettuale diventa triplo: se uno critica un atto del Governo israeliano diventa non solo anti-israeliano ma addirittura antisemita. A me è bastato dire che la reazione di Israele all’aggressione di Hezbollah era "sproporzionata", una critica molto misurata e del tutto oggettiva, che aveva tra l’altro due caratteristiche: non era un giudizio morale ma un principio del diritto internazionale; e non era un’opinione personale ma la posizione unanime dell’Unione europea. Io mi sono trovato in Israele all’indomani della strage di Cana, quindi in un momento molto drammatico. Dissi loro: "Dovete fermarvi" e penso che quanto è accaduto dopo non abbia portato giovamento a nessuno, oltre che causare molti morti anche in Israele. Rivendico quella posizione: credo che fosse politicamente giusta e corrispondesse persino ai sentimenti della stragrande maggioranza degli italiani. Salvo taluni intellettuali ed editorialisti che amano coltivare pregiudizi. Comunque adesso il problema, dopo la cessazione delle ostilità, è la costruzione del futuro e noi stiamo cercando di farlo senza strascichi polemici».

Lei parla di pregiudizi. Ma la convinzione che l’Italia sia coinvolta in una guerra tra civiltà diverse pare appartenere a molti, non a pochi...

«La visione della "quarta guerra mondiale" è apocalittica e sbagliata, perché non solo non isola il fondamentalismo ma lo aiuta. Non a caso è proprio Al Qaida a evocare la guerra di civiltà tra l’Occidente cristiano e l’islamismo estremista. Noi dobbiamo dare spazio a una diversa prospettiva, quella di un terrorismo fondamentalista che è innanzitutto nemico del mondo arabo perché ne impedisce il progresso, ne blocca le potenzialità di sviluppo, contrasta con un’interpretazione tollerante dell’islam, che è prevalente in diversi Paesi della regione. Il terrorismo è nemico dell’umanità, non dell’Occidente. Proprio per questo prendemmo subito, qui a Roma, l’iniziativa di solidarietà con il Governo del Libano: perché temevamo che la guerra travolgesse la democrazia libanese, tramutando il Paese in un terreno di coltura di fondamentalismi, accrescendo i pericoli proprio per Israele».

Iniziativa che alcuni giudicarono solo in parte riuscita, se non mancata.

«Sbagliando. La nostra iniziativa non aveva l’ambizione di fermare la guerra. Ma fu la premessa positiva di quanto è venuto dopo. Intanto per la lista dei partecipanti: c’era l’Europa, gli Usa, la Russia e c’erano gli arabi. Il mix giusto. Poi perché diede pronto sostegno al Governo libanese. Infine, se uno legge la dichiarazione congiunta con cui chiudemmo la riunione, ci trova la traccia della Risoluzione 1701 dell’Onu, compresa l’idea di una forza di pace internazionale. Ci sono poi voluti altri venti giorni perché quella linea passasse, ma la linea è stata tracciata qui, in questo palazzo. Quindi noi non siamo solo quelli che mandano i soldati o che, come è stato detto, usano le truppe come Cavour che le spedì in Crimea per conquistarsi un posto al sole. No, noi siamo quelli che hanno gettato le basi per la soluzione politica della crisi».

Ma è davvero possibile pensare la lotta al terrorismo islamico solo in termini di dialogo politico e culturale?

«Vinceremo solo se riusciremo a mobilitare contro il terrorismo la maggioranza del mondo arabo, il che presuppone una lotta appunto sul piano politico e culturale. Ciò non significa rinunciare all’uso della forza, o arrendersi, ma comporta per l’Occidente l’obbligo di mantenersi coerente con i propri valori. Paradossalmente, la concezione dello scontro di civiltà ci ha portato, nei fatti, a mettere in discussione quei valori in nome dei quali combattiamo il terrorismo. Le azioni militari, come abbiamo visto, rischiano poi di colpire civili innocenti, e spesso i bambini. Si può vincere dal punto di vista militare e insieme perdere dal punto di vista politico. Le immagini delle vittime civili scatenano l’odio di migliaia di persone e l’odio genera violenza. In questo confronto, dunque, l’immagine di un Occidente che tortura, o nega i diritti umani o massacra popolazioni civili, alimenta in modo potente il fondamentalismo».

La missione in Afghanistan è alternativa a quella in Libano? Ci si prepara davvero a ridurre là per crescere qua?

«L’Italia non è una potenza globale ed è già molto impegnata sul fronte del peacekeeping, grazie a capacità che ci sono riconosciute da tutti, ma forse già al limite delle nostre forze. Vedremo via via quali sono le esigenze e le possibilità concrete, ne discuteremo con i Paesi alleati. È chiaro però che una media potenza come l’Italia, il cui ruolo si esplica soprattutto nel Mediterraneo, ha due priorità, legate anche alla sicurezza del Paese: i Balcani e il Medio Oriente».

Un’ultima, grande questione: le ambizioni nucleari dell’Iran. Teheran procede e respinge le offerte dell’Onu. Che cosa si può fare, anche alla luce del nuovo mandato che, in Finlandia, i ministri degli Esteri della Ue hanno dato a Solana?

«Da Teheran arrivano messaggi contraddittori: offerte di dialogo e dichiarazioni minacciose, inaccettabili attacchi a Israele e rassicurazioni sul fatto che l’Iran vuole il nucleare civile e non quello militare. L’Iran oggi è a un bivio, deve decidere quale strada prendere. Da un lato c’è l’offerta della comunità internazionale, che chiede la sospensione dell’arricchimento dell’uranio, ma prevede per l’Iran il diritto al nucleare civile, una cooperazione per il reattore ad acqua leggera e una serie di altre opportunità. Dall’altro, un isolamento minaccioso. Io credo che questa sia una fase ancora incerta, in cui si deve incoraggiare l’Iran a fare una scelta positiva. In Finlandia, pur mantenendo una posizione inequivocabile sui punti irrinunciabili, abbiamo voluto affidare a Solana il compito di esplorare tutte le possibilità di dialogo ancora aperte con Teheran».

Ma come farlo?

«In primo luogo con la fermezza: non rinunceremo alla garanzia che l’Iran non si doterà di armi nucleari. Se vogliamo che un Paese non abbia armi nucleari, però, non possiamo nello stesso tempo inviare messaggi aggressivi. Dobbiamo coinvolgere l’Iran in un processo volto a creare stabilità e sicurezza nell’intera regione, anche perché è difficile immaginare progressi in Irak e Afghanistan senza la partecipazione attiva dell’Iran. Con la guerra in Irak l’influenza dell’Iran è enormemente cresciuta. Il che dimostra che prima di fare le guerre bisognerebbe non solo riflettere bene, ma anche aver letto almeno un paio di libri».

stampa