Intervista
29 settembre 2006

Oggi anche Berlinguer vorrebbe il partito democratico

Intervista di Stefano Brusadelli - Panorama


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Il compromesso storico di Enrico Berlinguer? Una scelta coraggiosa e da rivalutare, dopo decenni di critiche demolitorie, da destra e da sinistra. E che, nella politica di oggi, trova una sua continuazione nella costruzione del partito democratico.

Nell'autunno del 1973, quando sul settimanale Rinascita il segretario del Pci firmò in successione tre celebri articoli (il primo datato 28 settembre) per teorizzare sull’onda del colpo di stato cileno la necessità di un accordo con la Dc, Massimo D'Alema era capogruppo al consiglio comunale di Pisa. Questa intervista è un bilancio inedito di quegli anni aspri, ma anche una riflessione sui nuovi approdi della sinistra italiana.

Nel settembre del '73 lei aveva 24 anni. Quali furono i sentimenti di un giovane dirigente comunista dinanzi alla svolta di Berlinguer?

Ricordo anzitutto settimane di intensa emozione. Il golpe contro Salvador Allende mi colpì profondamente per vari motivi. Ci sentivamo molto vicini al Cile perché lì agivano forze politiche con la stessa radice di quelle italiane (democristiani, socialisti, comunisti) e perché l'esperienza cilena doveva dimostrare la possibilità di costruire il socialismo per le vie democratiche. Inoltre in quei giorni era ospite a Pisa Ernesto Ottone, il numero due della gioventù socialista cilena, che avrò il piacere di rivedere a fine dicembre quando sarò in Cile ospite del presidente Michelle Bachelet. E anche la scelta di Berlinguer di far uscire a puntate la sua riflessione creava attesa, emozione.

Rimase sconcertato quando, nell'ultima puntata del 12 ottobre, fu apertamente teorizzato il «compromesso storico» con la Dc?

In quegli anni, sull'onda del '68, la via democratica al socialismo perseguita dal Pci era sottoposta a forte critica dai gruppi estremistici, veniva considerata illusoria. I fatti cileni sembravano dare ragione a questa convinzione. Ricordo che all'Università di Pisa vennero Vittorio Vidali e Rafael Alberti a sostenere, subissati da applausi, che l'errore dei frontisti spagnoli fu quello di non essere stati da subito abbastanza duri con gli avversari. E ci furono critiche dallo stesso direttore di Rinascita, Gerardo Chiaromonte, al quale non piaceva la parola compromesso.

Un'avversione da lei condivisa?
Io ricordo piuttosto la convinzione di Antonio Gramsci secondo il quale la polemica contro i compromessi è una manifestazione di primitivismo culturale.

Infine quale fu la sua posizione?

Fui allora, come ora, convinto che la proposta di compromesso storico ebbe grandi meriti. Il primo fu avere rovesciato l'impostazione estremistica che stava avanzando, rilanciando invece l'idea che si doveva lavorare per allargare le basi del consenso. Processo che non fu compiuto in Cile, il che Berlinguer indicò come un errore. Poi offrì uno sbocco realistico alla politica della sinistra, che dopo le illusioni del '68 aveva vissuto un amaro risveglio con le elezioni del '72 e la svolta a destra del governo Andreottì-Malagodi. E, infine, fu alla base della grande avanzata del Pci al voto amministrativo del '75 e alle politiche del '76.

Poi però gli anni dei governi di solidarietà nazionale, dal '76 al 79, furono tutt'altro che esaltanti per il Pci.

Certo, in quegli anni misurammo le difficoltà, e il nostro logoramento. Ma vi furono anche grandi meriti: fu arginata la crisi della società italiana, fu sconfitto il terrorismo. La solidarietà nazionale fu una sconfitta per il Pci, che però in quella fase politica di democrazia bloccata non aveva alternative, ma non lo fu per il Paese.

Dal 75 fino all'80 lei fu segretario della Federazione giovanile comunista. Ebbe mai modo di discutere direttamente con Berlinguer la politica del compromesso storico?

Nell'aprile del '79 partecipai ai funerali di Ciro Principessa, un attivista della Fgci
pugnalato da un estremista di destra nel quartiere romano di Torpignattara. C'era anche Berlinguer, con il quale ebbi modo di fare una lunga passeggiata. «Capisco» mi disse «che questa politica non può essere compresa da voi della Fgci, che siete in condizione di sofferenza. Ma non abbiamo alternative». Ho sempre pensato che questa sofferenza fosse anche la sua, perché la contestazione che veniva da larga parte della Fgci era probabilmente condivisa anche dai suoi figli.

Però avere sostenuto come leader della Fgci il compromesso storico la legò fortemente al segretario...

Berlinguer ha sempre manifestato per me stima e affetto. Dopo l'assalto degli autonomi a Luciano Lama alla Sapienza di Roma, nel febbraio '77, venni invitato a partecipare a un tesissimo comitato centrale e, addirittura, a tenere una delle due relazioni. Mentre io sostenni che il partito non doveva comunque perdere i suoi legami con i movimenti giovanili, Paolo Bufalini, dopo di me, disse l'opposto e fece una sdegnata difesa dell'ordine democratico. Berlinguer, che doveva tirare le conclusioni, restò a casa, accusando una intossicazione da datteri, e le conclusioni toccarono a me.

Non le capitò mai, dopo la conclusione della solidarietà nazionale, di sentire un'autocritica da Berlinguer?

No, anzi credo che nella sua mente avesse intenzione di tornare, prima o poi, alla politica del compromesso storico. Anche l'anticraxismo Io spingeva in quella direzione. Ricordo che nel 1982, da segretario regionale del Pci in Puglia, tentai di dar vita in Regione a un governo con la Dc. In direzione la mia linea fu duramente attaccata sia da Giorgio Napolitano sia da Pietro Ingrao, ma Berlinguer mi difese. Mi chiamò e mi disse: «Se puoi, va' avanti». Ma non se ne fece nulla perché Craxi minacciò la crisi nazionale.

Alla base del compromesso storico c'era l'idea che col 51 per cento non si poteva governare. Oggi l'idea viene ritirata fuori da Giulio Tremonti, con l'argomento che per governare le trasformazioni nei paesi europei sono necessarie larghe intese.

Premesso che è singolare come Tremonti tiri fuori quest'idea adesso e non quando governava il centrodestra, dagli anni 70 le cose sono cambiate. L'Italia è diventato un paese normale, dove si può governare anche con il 51 per cento. Inoltre oggi è venuta meno tra i due schieramenti quella affinità che legava le grandi forze democratiche che avevano fatto insieme la Resistenza e la Costituzione.

Insomma, respinge l'idea che si possa dar vita in questa legislatura a un governo di larghe intese.

Ma se non siamo riusciti nemmeno a cambiare insieme la Costituzione!

Lei è un fautore del partito democratico. L'intesa tra i Ds e la Margherita, dove c'è una forte componente cattolica, sarebbe piaciuta a Berlinguer?

Penso di sì: Berlinguer era aperto verso la cultura cattolica e liberale, e ho sempre pensato che la sua analisi della questione morale fosse improntata anche da quelle posizioni culturali. È stato un grande leader comunista, ma sapeva guardare oltre i confini del movimento operaio.

Eppure, sulla via della costruzione del partito democratico ci sono molti ostacoli, n primo quello dell'etica, della difesa della vita.

Questo non lo vedo come un impedimento. Le mie posizioni sui temi etici sono molto diverse da quelle di Livia Turco, eppure stiamo senza problemi nello stesso partito. E anche nella Margherita già convivono Enzo Bianco e Paola Binetti.

Il dibattito sull'eutanasia non aiuta...

Trovo condivisibile l'impostazione del filosofo Umberto Galimberti: il prolungamento della vita umana con forme di accanimento terapeutico non è meno artificioso della sua interruzione volontaria. Credo ci sia un terreno sul quale trovare un punto d'incontro tra laici e cattolici per non infliggere inutili sofferenze a chi non vuole vivere a tutti i costi.

C'è anche l'ostacolo costituito dalla collocazione del futuro partito democratico nel Parlamento europeo.

Anche questo non mi sembra un ostacolo insuperabile. Oggi gli europarlamentari della Margherita stanno nello stesso gruppo di Marco Pannella, che non ha propriamente le loro stesse idee.

Dunque secondo lei la collocazione dovrà essere quella del Pse?

Trovo giusta l'impostazione di Piero Fassino. Posto che la principale forza riformista italiana non potrà isolarsi dalle altre forze riformiste del mondo, occorre che alla creazione del partito democratico in Italia corrisponda la creazione di un nuovo contesto di centrosinistra in Europa. Anche se ci vorrà tempo.

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