Discorso
25 ottobre 2006

"La seconda occasione dell'Europa"

Testo dell'intervento all'Istituto Universitario Europeo di Firenze


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La tesi che intendo sostenere è che l'Europa abbia ancora di fronte a sé una opportunità.

Chiamiamola una seconda occasione, dopo la battuta d'arresto, la vera e propria crisi generata dallo stallo del processo costituzionale. Ho constatato di persona il malessere francese sull'Europa quando, come deputato europeo, sono stato invitato a prendere parte ad alcuni eventi della campagna referendaria in Francia. Ne ho riportato un'impressione vivissima e assai dolorosa della frattura tra l'Europa e l'opinione pubblica di un grande Paese fondatore. Su un'Europa tutto sommato incolpevole, si sommava l'insieme di paure di una opinione pubblica alla ricerca di protezione contro le sfide della globalizzazione. Il problema e' che l'Europa non veniva vista come la risposta a queste sfide, ma anzi come un fattore di ulteriore aggravamento. Credo che solo se sapremo presentare l'integrazione europea come la forza che ci consente di gestire la globalizzazione, recupereremo un rapporto di fiducia.

Certo, le previsioni pessimistiche sono incoraggiate da una tendenza al declino negli andamenti demografici, negli indicatori di competitività di economie esposte all'emergere di nuove potenze globali, e dalle tendenze alla ri-nazionalizzazione delle politiche.

Ma è vero anche che la crisi del 2003-2005 - la crisi interna sul Trattato costituzionale, la grande crisi esterna delle divisioni sull'Iraq - si è lasciata alle spalle delle importanti lezioni: è ormai chiaro che, dividendosi all'esterno e all'interno, gli Stati membri nazionali, che siano piccoli o grandi, pagano prezzi notevoli e rischiano l'irrilevanza. Nell'Europa divisa non c'e' salvezza per nessuno di fronte alle grandi sfide.

Nel dramma iracheno hanno contato poco quelli che si sono accodati alla coalition of the willing; ma anche quelli che vi si sono opposti, facendo anche leva su un certo anti-americanismo, non sono stati in grado di influire sul corso degli avvenimenti.

La crisi nel rapporto fra cittadini ed Europa, drammatizzata dai no al Trattato costituzionale, non è irreversibile. Se guardiamo ai dati degli ultimi sondaggi di Eurobarometro, risulta abbastanza chiaro che i segni di ripresa economica hanno anche determinato un primo recupero di fiducia nelle istituzioni europee. Il che conferma quello che già sapevamo - i cittadini vogliono un'Europa dei risultati rispetto alle loro preoccupazioni dominanti: l'occupazione e la sicurezza. E un'Europa in grado di produrre risultati e' un'Europa in grado di recuperare popolarita'.

Va detto, infine, che è aumentata la pressione “esterna” all'integrazione: la domanda di Europa che viene in genere da un sistema internazionale post-bipolare, ma ancora alla ricerca di un assetto successivo. Un'Europa unita, in grado di incidere sugli assetti internazionali, e' una delle condizioni di un multilateralismo efficace nella gestione di crisi e sfide globali.

L'Europa ha ancora un'occasione di fronte a sé. Ammesso che colga il cambiamento strategico in atto.

La pressione viene ormai dall' esterno

Se guardiamo all'evoluzione dell'integrazione europea negli ultimi 50 anni, vediamo che è stata rivolta prevalentemente all'interno: la riconciliazione intra-europea dopo il secondo conflitto mondiale, l'abolizione delle barriere economiche e il mercato comune, la moneta sono stati fattore di sviluppo e di stabilita'. Si è trattato della conseguenza di un disegno politico, ma anche di un riflesso della guerra fredda e dell'equilibrio bipolare: l'Europa divisa non poteva che essere un “teatro strategico” più che un attore strategico.

In tutta la prima fase di vita della Comunità, di conseguenza, gli Stati membri hanno mantenuto integralmente le loro prerogative esterne, eccetto che nel campo del commercio. E' una impostazione messa in crisi dalla rottura storica del 1989 e che non regge alla caratteristica dominante del mondo di oggi: la distinzione fra ciò che è interno ed esterno è largamente sfumata. Ciò che eravamo abituati a considerare “interno”(per esempio il controllo dell'emigrazione) tende a diventare un problema comune; ciò che consideravamo esterno (la minaccia, le nuove minacce) si sposta anche sul piano interno.

Io credo che l'Europa abbia dimostrato una grande capacita' di affrontare la novita' stategica generata dalla caduta del Muro di Berlino. Sotto la guida della Germania, h promosso la riunificazione del Continente, attraverso l'allargamento. Eguale capacita' di risposta non vi e' stata rispetto all'altra data periodizzante: l'attacco terroristico dell'11 settembre, cui l'Europa non e' stata in grado di rispondere con una strategia comune.

In sintesi: l'Europa dei primi '50 è stata rivolta all'interno; l'Europa dei prossimi 50 anni esisterà se esisterà all'esterno. Se farà della sicurezza internazionale, in aree e settori vitali per le nostre economie e società, la sua priorità. I cittadini europei sembrano esserne più consci delle élites. Chiedono all'Europa di diventare un attore globale (anche se vorrebbero che ciò avvenisse a costo zero, se guardiamo ai bilanci); le maggiori resistenze continuano a venire da elite nazionali che vedono sempre nella politica estera un “domaine réservé”.

E' evidente che tutto ciò include la gestione delle sfide economiche legate alla globalizzazione. Per fare solo due esempi. La politica commerciale comune non potrà in ogni caso più prescindere da una visione strategica e da politiche di sicurezza comuni (come trattare il problema della Cina, ad esempio).

Maggiori successi nelle politiche di sviluppo, nella riduzione della povertà, sono la condizione per una risposta più efficace alle nuove dimensioni della sicurezza, a cominciare dall'emigrazione.

L'Europa è direttamente esposta a un vastissimo arco di crisi - un arco che va dalla Bielorussia ai Balcani occidentali, al Caucaso, al Medio Oriente e al Nord Africa. Senza contribuire a stabilizzare queste aree di crisi, i paesi europei non potranno aspirare a gestire né i problemi migratori né le questioni di sicurezza energetica. Al tempo stesso, la questione mediorientale è ormai diventata, nel contesto del dopo- 11 settembre, una componente dei conflitti interni alle nostre stesse società.

E' proprio su questo difficile versante - sul versante della proiezione strategica - che si offre all'Europa una seconda occasione per ripartire. Leggerei come primo segno di risveglio la risposta europea alla crisi libanese. Accettando di fornire il contributo prevalente di truppe internazionali nell'ambito della missione ONU, l'Europa ha giocato un ruolo politico di primo piano. Non piu' un semplice “payer” ma un “player” strategico, ossia un attore politico e militare in una regione per noi prioritaria. La vicenda libanese ha messo anche a nudo i limiti della capacità di funzionamento delle istituzioni europee nel loro assetto attuale: si è trattato ancora di una “coalition of the willing” dei paesi europei, tuttavia sulla base di un mandato europeo, un passo in avanti importante anche sul piano istituzionale. In fondo non ci sarebbe stato bisogno di alcuna decisione comune europea (CAGRE del 25 agosto) per l'invio delle forze dei singoli Paesi.

Altrettanto importante è una seconda sfida esterna, quella del rapporto con la Russia e del tema, strettamente collegato, della sicurezza energetica. E' interesse comune dei paesi europei stabilizzare il “vicinato comune” dall'Ucraina al Caucaso: il che impone forme di cooperazione, ma anche inevitabili tensioni con Mosca, apparentemente decisa a mantenere il controllo sul proprio vicino estero. Nel settore energetico abbiano interessi in teoria complementari: l'Europa chiede sicurezza negli approvvigionamenti dalla Russia, la Russia chiede sicurezza nella domanda. Ma siamo ancora lontani da regole certe di cooperazione, soprattutto quando la Russia ambisce ad entrare nel settore di distribuzione europeo.

Anche in questo caso, si può parlare di seconda occasione. Così come, nel secolo scorso, l'integrazione del carbone e dell'acciaio è servita a fondare l'Europa, in questo nuovo secolo una politica energetica comune verso l'esterno può servire a rafforzarla. Il nazionalismo energetico ci condannerebbe a una insicurezza permanente.

Cinque banchi di prova

Possiamo individuare alcune prove su cui si misurera' la nostra capacita' di fare crescere un ruolo internazionale dell'Europa.

Prima e piu' immediata: salvare il negoziato multilaterale in sede WTO. Ne ho parlato ieri con il Direttore Generale dell'Organizzazione, Pascal Lamy. Sono convinto che sarebbe un grave errore sottovalutare la portata politica di questo negoziato, il rischio che si risolva in un insuccesso. L'Europa deve sostenere con forza e con il coraggio di un 'ultimo miglio', che comporta anche qualche sacrificio, un accordo globale che e' un passaggio importante verso un assetto multilaterale in grado di regolare i rapporti commerciali internazionali.

In una seconda sfida ci sentiamo particolarmente impegnati. Dal 1 gennaio 2007 l'Italia siedera' nel Consiglio di Sicurezza. Vorremmo contribuire alla piena applicazione dell'art.19 (coordinamento delle posizioni europee), spesso disatteso nella pratica. E' un esercizio complesso, ma ci sforzeremo di sollecitare a Bruxelles un esame preventivo delle questioni di maggior rilievo all'ordine del giorno dell'agenda di New York in modo che i Paesi UE membri del CdS (5 su 15) possano farsi portatori di posizioni condivise. Se riuscissimo in un esercizio del genere, l'Europa conterebbe molto di piu'. Ciascuno dei Paesi conterebbe di piu'. Perfino il loro voto conterebbe di piu'.

Va in una direzione simile una proposta non nuova ma da rilanciare: in tempi non infiniti, sarebbe auspicabile arrivare a una rappresentanza comune del'UE nel Fondo Monetario Internazionale e nella Banca Mondiale.

Quarta proposta: utilizzare Forza di Reazione Rapida Europea nella logica di una standing force delle Nazioni Unite, stabilendo anche nuove forme di cooperazione tra UE, NATO, ONU.

Quinta sfida, infine: sviluppare una vera e propria politica europea dell'energia, definendo un approccio comune dei Paesi europei consumatori nei confronti dei maggiori produttori.

I vincoli interni

Se quanto ho detto fin qui è vero, ne deriva che avremmo bisogno di più Europa dove ne abbiamo meno (nella proiezione esterna) e forse ne avremmo bisogno di meno dove invece c'è ne troppa (nella regolamentazione interna).

L'esistenza di questo gap - fra domanda e offerta di Europa - nasce da difficoltà oggettive e dal peso della storia; ma nasce anche dal fatto che non viene gestito adeguatamente dalle leadership nazionali. Al contrario, viene spesso utilizzato da una parte di loro per scaricare su Bruxelles responsabilita' dei governi nazionali.

Lo dico per sottolineare un punto che mi sembra sostanziale: il governo a cui appartengo è un governo europeista anzitutto perché non intende scaricare su Bruxelles le proprie responsabilità. Non intende farlo il governo Prodi. E come sappiamo non ha nessuna intenzione di farlo il governo tedesco, che assumerà la Presidenza dell'Unione in una fase cruciale. E qui - in questo cambiamento di atteggiamento da parte di due dei paesi chiave del Vecchio Continente - c'è una chance importante da sfruttare: soprattutto perché l'Europa è prima di tutto una questione di responsabilità nazionale.

Se guardiamo all'economia, la logica dell'Euro - la “sovranità condivisa” - non deve finire per deresponsabilizzare gli Stati nazionali, da cui continua a dipendere la volontà e la capacità di attuare riforme strutturali. D'altra parte, il valore aggiunto dell'Unione europea sarebbe più netto con una migliore governance dell'area dell'euro, che dovrebbe fare leva su un rafforzamento dell'euro-gruppo, cui l'Italia è favorevole. Sarebbero ugualmente necessari una revisione del bilancio comunitario (in senso funzionale agli obiettivi di crescita e innovazione delle economie europee e con una riduzione del peso del bilancio agricolo) e un aumento delle risorse comuni. Sono obiettivi che l'Italia intende promuovere insieme a quella parte del mondo industriale che non crede nel protezionismo ma nelle regole; e che crede nel vantaggio comparato di un mercato interno che dobbiamo completare.

Perché le istituzioni contano

Perché i progetti diventino risultati, l'Europa ha bisogno di una chiarezza di visione, fondata fra l'altro su una struttura istituzionale certa. Le istituzioni non sono un fine in sé; sono lo strumento per realizzare progetti comuni.

Non c'è contraddizione fra il primo e il secondo requisito. Secondo alcune tesi, ci siamo preoccupati troppo di istituzioni negli ultimi anni e troppo poco di risultati politici. E' un falso dibattito: mi sembra evidente che abbiamo bisogno di entrambi, di politiche comuni funzionanti e di istituzioni, ossia della capacità di decidere, di trasparenza, di un piu' forte e diretto rapporto democratico con i cittadini.

E se guardiamo alla chiarezza di visione, l'Europa ha il problema di definire sia confini interni - a cominciare dalla divisione delle responsabilità fra i vari livelli di governo - che confini esterni.

Cosa significa, in realtà, fissare confini interni? Significa definire per l'Unione Europea un quadro di riferimento condiviso, generalmente riconosciuto e accettato, che orienti le decisioni collettive. Da questo punto di vista, decisivo ai fini del consenso, l'essenza del Trattato costituzionale firmato a Roma nel 2004 resta indispensabile. Sappiamo tutti che nessuna decisione vera in materia costituzionale verrà presa prima del 2008, dopo l'esaurimento del ciclo elettorale in Francia e in Olanda, nei due paesi del “no”. Ma dobbiamo riprendere il processo già dalla Presidenza tedesca del 2007 e averne chiaro l'obiettivo. Ci sara' in effetti un periodo cruciale nella prossima primavera, tra le elezioni francesi, il cambio annunciato nella leadership britannica e il Consiglio Europeo sotto Presidenza tedesca. Per noi l'obiettivo e' chiaro: l'essenza del Trattato di Roma va salvata. Va salvata perché l'assetto costituzionale previsto da quel Trattato è l'unica garanzia perché l'Unione allargata possa funzionare e possa quindi produrre dei risultati. Non solo: il Trattato segna un punto fermo, nella traiettoria in perenne movimento dell'Unione europea. E in realtà non possiamo pretendere consenso su un attore politico di cui restino incerte le regole di funzionamento interno. Io penso che di un punto di arrivo - perlomeno di un punto di arrivo valido per questa fase storica - abbiamo vitale bisogno.

L'obiettivo che dobbiamo porci è definire - con una serie di tappe successive, fra cui una nuova Conferenza intergovernativa - un assetto istituzionale certo per la scadenza delle elezioni europee del 2009.

Realismo politico e buon senso impongono di tenere conto degli esiti negativi dei referendum in Olanda e in Francia e delle esitazioni di altri Stati membri che hanno sospeso la procedura di ratifica del Trattato del 29 ottobre 2004. Lo stesso realismo impone però di tenere conto anche del numero di paesi che hanno ratificato il Trattato (sedici, fra cui l'Italia) e che rappresentanodi gran lunga la maggioranza della popolazione dell'Unione. Qualunque altro testo ha un senso solo se in grado di conquistarsi un consenso superiore.

Non è affatto semplice individuare un punto di equilibrio che permetta di preservare i contenuti principali del Trattato costituzionale e insieme permetta di superare le resistenze emerse durante la fase di ratifica. E non vorrei adesso entrare nei dettagli di quella che sarà una strategia negoziale dell'Italia in materia. Vorrei solo anticipare quello che mi sembra possibile e quelli che mi sembrano invece i limiti da non varcare. Come ha detto in varie occasioni uno dei vostri colleghi e professori, Giuliano Amato, l'Italia non avrebbe particolare motivo di opporsi né a variazioni terminologiche (vogliamo un “Trattato fondamentale dell'Unione europea”, che si chiami Costituzione o meno) né a mirate semplificazioni della Parte Terza che potrebbero rendere più leggibile il testo ma mantenendone comunque le significative innovazioni in alcune politiche, come la PESC e la cooperazione giudiziaria e di polizia. Il limite da non varcare, per l'Italia, è altrettanto chiaro: vogliamo conservare alcune riforme essenziali per il funzionamento dell'Europa allargata e su cui gli Stati membri avevano già raggiunto un difficile accordo. Per mettere la cosa in termini ancora più chiari: per l'Italia si tratta comunque di partire dal testo costituzionale approvato a Roma nel 2004 e non dal testo di Nizza, per proporne dei semplici rimaneggiamenti (“Nizza plus”). Ci dovranno essere degli aggiustamenti: potranno persino esserci delle cose in piu' (un Protocollo sociale, come sostenuto da molti). Non mi piace l'espressione 'mini-trattato' che rimandi a dopo scelte impegnative. Anche se dietro il titolo 'minitrattato' potrebbero esserci contenuti interessanti. Parlerei piuttosto di 'Core Treaty'.

Quali sono le riforme per noi irrinunciabili? La creazione di un Ministro degli Affari esteri, che presieda il Consiglio e faccia parte della Commissione; la designazione di un Presidente stabile del Consiglio europeo; l'estensione del voto a maggioranza qualificata sulla base del principio della doppia maggioranza; l'introduzione di meccanismi di democrazia diretta e di un più chiaro sistema della ripartizione di competenze e delle fonti legislative; il conferimento di forza giuridica vincolante alla Carta dei diritti. (forse l'innovazione piu' carica di significato e fascino).

Sono questi gli indicatori-chiave, per l'Italia, della capacità del futuro testo fondamentale dell'Unione di rispondere a esigenze prioritarie di democrazia e efficacia. Su questi aspetti non accetteremmo negoziati al ribasso.

I confini e l'identità

Se guardiamo ai confini esterni, la mia posizione è che il processo di allargamento debba essere completato. Non lo è ancora. Lo sarà solo quando avremo incluso nell'Europa democratica non solo Romania e Bulgaria (nel gennaio 2007) ma anche i Balcani occidentali e, in uno scenario temporale successivo, più lungo, la Turchia. Nel primo caso si tratta di una vera e propria missione nazionale: l'Italia ha il dovere e l'interesse di spingere l'Europa in questo senso. Ce lo dicono non solo le responsabilità della storia o la nostra posizione geopolitica, ma gli interessi specifici che abbiamo alla creazione di un'area di stabilità ai confini sud-orientali del Continente. Non possiamo permettere che si crei nei Balcani una specie di “enclave”, una zona di esclusione da cui derivino flussi migratori e criminalità. Se la prospettiva della piena adesione fosse tolta dal tavolo negoziale, la capacità dell'Europa di evitare tutto ciò diminuirebbe drasticamente: leadership politiche responsabili non devono usare strumentalmente il disagio diffuso nella Vecchia Europa per l'allargamento ma devono invece spiegare alle nostre opinioni pubbliche che i costi del non-allargamento ai Balcani sarebbero molto forti e in ogni caso superiori ai vantaggi. L'Europa deve quindi tenere aperta la possibilità di adesioni, sulla base di progressi specifici per quel che riguarda la lotta alla criminalità, la lotta alla corruzione, la costruzione di istituzioni affidabili.

Insisto su quest'ultimo punto perché gli esiti dell'allargamento all'Europa centro-orientale contengono una lezione importante: è più facile raggiungere risultati economici che risultati politici solidi. In particolare, i segnali di populismo in una parte dei nuovi Paesi membri - populismo fatto anche di euro-scetticismo - ci dice che dobbiamo prestare molta maggiore attenzione alla gestione politica dell'allargamento e non soltanto all'acquis comunitario in materia economica.

Ciò vale anche, e tanto di più, nel caso della Turchia. Qui si tratta di incoraggiare il consolidamento democratico di un paese musulmano che è anche un attore geopolitico essenziale nell'area mediorientale.

Ci vogliono tutte le condizioni necessarie (a cominciare dal superamento del nodo di Cipro); e ci vorrà più tempo.

Ma dobbiamo avere chiaro, come Italia e come Europa, che la porta deve restare aperta, perché è nei nostri interessi strategici. Si tratta anche di una decisione essenziale in termini identitari. Il rischio di una esclusione a priori della Turchia avrebbe un significato molto chiaro: la tentazione di definire l'identità dell'Europa non su valori condivisi propri ma “contro” qualcosa, per differenza, in questo caso per differenza dal mondo islamico.

Definire l'identità del progetto europeo “contro” l'altro, un potenziale nemico esterno, invece che partendo da sé, è naturalmente un facile fattore di unità. L'Europa degli anni '50 era definita anche contro l'ex spazio sovietico. L'Europa post-1989 e post-2001 tende ad essere definita da alcuni “contro” gli Stati Uniti e da altri “contro” l'Islam. Si tratta comunque di scelte miopi e sbagliate. L'Unione europea continua ad avere bisogno, anche per restare unita, di un rapporto solido con gli Stati Uniti. D'altra parte, se tentasse di definirsi “contro l'Islam”, l'Europa aumenterebbe drammaticamente sia le proprie tensioni interne che le tensioni esterne in quella vasta regione - il Mediterraneo allargato - in cui dobbiamo invece assumerci nuove responsabilità.

In sostanza: l'identità europea si definisce su valori positivi democratici, fra cui la capacità di integrazione e il rispetto delle diversità; non su scelte negative di esclusione. Se scegliesse questa seconda strada, l'Europa diventerebbe in realtà un epicentro dello scontro di civiltà. Non abbiamo nessun interesse a favorire un esito del genere.

Ciò non toglie che per avere coesione interna e per darsi solidità come attore internazionale, l'Europa ha bisogno di confini certi, di frontiere esterne. Come ho cercato di dimostrare, esse devono includere i Balcani occidentali; e rientra nei nostri interessi che includano in futuro anche la Turchia- a condizione naturalmente che la Turchia continui ad evolvere verso il rispetto dei criteri di adesione. A quel punto l'allargamento dovrebbe fermarsi - questa è la mia tesi - dovrebbe fermarsi almeno per un futuro prevedibile. L'Europa dovrebbe invece sviluppare politiche di vicinato più credibili, anzitutto verso la Russia, l'Ucraina e lo spazio ex-sovietico, il Mediterraneo meridionale.

Allargata a Sud est e includendo un attore-chiave dell'area medio-orientale, l'Europa avrebbe proiettato stabilità in due direzioni essenziali. Da questo punto di vista - la proiezione di stabilità - completare l'allargamento - resta una finalità essenziale dell'Unione europea, come ha molte volte sostenuto Joschka Fischer. Compito delle classi politiche europee è di trovare un accordo su questo punto, dimostrando ai cittadini europei che l'allargamento - temuto quale minaccia - è in realtà una delle condizioni per soddisfare proprio quelle esigenze di sicurezza che i cittadini avvertono e per cui chiedono protezione all'Unione europea.

Più membri ma anche più flessibilità

Se la chiarezza del progetto europeo implica confini esterni certi, realizzarlo comporta una condizione ulteriore: una maggiore flessibilità interna all'Unione. E' chiaro, infatti, che con l'aumento dei membri dell'Unione, e quindi con l'aumento delle diversità interne, devono potere esistere velocità differenziate di integrazione. Il problema che abbiamo è il seguente: come mantenere un quadro istituzionale unitario in un'Europa a più velocità. Anche da questo punto di vista, non bisogna disperdere i progressi previsti, con le norme sulle cooperazioni rafforzate, dal Trattato costituzionale.

L'Italia ha tutto l'interesse a partecipare ad accordi specifici di maggiore integrazione o cooperazione fra alcuni paesi dell'Unione. La condizione è che restino accordi aperti, inclusivi. Nella nostra visione, sarebbe cruciale un rafforzamento dell'area dell'euro e sarebbero indispensabili accordi ulteriori in materia di sicurezza interna, di politica estera e difesa.

Con l'allargamento dell'Unione, è pensabile che la politica estera comune possa strutturarsi secondo criteri di responsabilità geografica e la creazione di “gruppi di contatto”. E' anche inevitabile che non tutti i membri dell'Unione avranno lo stesso peso in politica estera. Solo un accordo fra i maggiori garantirà una capacità di leadership; come ha dimostrato negativamente il caso dell'Iraq. E certamente una seria frattura fra le maggiori potenze europee è la garanzia di un'irrilevanza complessiva dell'Unione. Resta che la creazione di direttori permanenti - il rischio posto invece dal negoziato sull'Iran -verrebbe vissuta come un'esclusione dal resto dei membri dell'Europa, riducendone così i mezzi a disposizione dell'Unione nel suo insieme. Anche in questo caso, quindi - che sarà tanto più rilevante per le sorti della Difesa comune - resta il problema di riuscire a conciliare capacità decisionale e coesione, e cioé il collegamento con le istituzioni.

Cooperazione rafforzata si', quindi: in modo aperto e inclusivo. Direttori no: perche' dividono e rendono piu' difficili le decisioni comuni.

Gli stessi principi - leadership e coesione - valgono per gli sviluppi della sicurezza interna, all'incrocio fra gestione delle politiche migratorie, cooperazione giudiziaria e sharing dell'intelligence. I progressi compiuti dal 2001 in poi su questo piano sono molto più incoraggianti di quanto in genere si pensi: consolidarli ulteriormente appare una delle priorità evidenti dei prossimi anni, fra l'altro richiesta in modo esplicito da larga parte dell'opinione pubblica europea. In questo caso, utilizzando una “passerella” del Trattato di Nizza, si potrebbe arrivare a decidere a maggioranza qualificata. Cooperazione intergovernativa e metodo comunitario non vanno messi in contrasto. Sono modi diversi di integrazione europea: ciò che davvero conterà sarà la capacità decisionale.

Lo scenario ideale, ai fini dello sviluppo politico dell'Unione, è che un nucleo trainante e coerente di paesi faccia parte di tutte le forme di integrazione o cooperazione ulteriore.

E' d'altra probabile che i percorsi alla Schengen tenderanno a moltiplicarsi. Il punto è che questo aumento di forme funzionali di cooperazione abbia alle spalle un quadro istituzionale unitario. Questa resta la vera frontiera: quella che passa fra una Unione politica più flessibile e il rischio di una disgregazione.

Conclusione

Lo stallo del Trattato costituzionale ha generato una crisi evidente. Ma ha anche aumentato la consapevolezza della posta in gioco: l'Europa deve pensarsi come attore strategico. Come ho cercato di dire, che si colga questa occasione dipenderà da leadership nazionali e dal ritrovato consenso di cittadini europei che si sentono tali - europei - ma che hanno bisogno di certezze. Certezze sull'assetto interno dell'Unione, e quindi sulla sua capacità di decidere; certezze sui confini esterni, e quindi sulla identità dell'Europa. Da questo punto di vista, resta giusta la vecchia regola aurea: approfondimento e allargamento devono combinarsi.

Sarebbe però sbagliato trarre dalla crisi costituzionale la conclusione che vada bloccato qualunque nuovo allargamento. Il vincolo deve funzionare all'opposto: i vantaggi strategici dei nuovi allargamenti costituiscono una motivazione ulteriore per rompere lo stallo costituzionale.

E' indubbio, d'altra parte, che l'Europa ha bisogno in entrambi i campi - l'approfondimento e l'allargamento - di punti di arrivo, perlomeno per una fase transitoria. Un Trattato fondamentale e confini esterni darebbero chiarezza e certezza alla struttura generale dell'Europa allargata; lasciando ulteriori progressi ad un aumento della flessibilità. A forme di cooperazione rafforzata, all'interno; a forme di partnership rafforzata, all'esterno.

In una visione euro-idealista aggiornata, avremo un'Europa delle regole comuni e del mercato interno, che coinciderà con lo spazio allargato; e insieme avremo, in alcune politiche di integrazione ulteriore, gruppi europei più ristretti, come del resto già avviene con l'Euro. Gestire l'insieme di questo disegno non sarà facile; ma resta l'unico modo perché gli europei possano sperare di competere con successo nel mondo del XXI secolo.

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