Discorso
26 ottobre 2006

Nuovi obiettivi per l’Europa

di Massimo D’Alema - Rivista trimestrale "Affari Esteri"


L’Europa ha oggi un problema: l’esigenza di sottoporre all’opinione pubblica una nuova motivazione convincente a favore dell’integrazione, visto che la motivazione storica essenziale su cui è nata - consolidare la pace dopo due disastrose guerre mondiali - è data ormai per acquisita.

Da questo punto di vista, anzi, l’Europa sembra vittima del suo stesso successo. Bisognerebbe forse ricordarlo agli euroscettici: la missione originaria del progetto europeo - “mai più una guerra fra noi” - è stata assolta con successo.

Vorrei in proposito ricordare un colloquio che ho avuto con Helmut Kohl qualche tempo fa. Kohl mi raccontava, in chiave di metafora europea, la storia della sua famiglia: “Il fratello di mia madre si chiamava Walter e morì nella Prima guerra mondiale. Mia madre chiamò Walter il suo primo figlio, mio fratello, che cadde sul fronte russo durante la Seconda guerra mondiale. Mio figlio si chiama Walter ed è vivo”.

Per un uomo della generazione di Kohl, Europa significa anzitutto questo: la fine della guerra. Ma per la generazione di suo figlio, la pace è data ormai quasi per scontata. Dico quasi scontata perché quella missione storica originaria non sarà del tutto esaurita fino a quando non avremo integrato in Europa anche i Balcani occidentali, teatro dell’ultima guerra europea.

È un obiettivo che considero, come Governo italiano, una missione europea e insieme una missione nazionale. Ma, prima di affrontare questo tema, vorrei completare la mia premessa.

Abbiamo in effetti bisogno di una nuova motivazione o, come dice la signora Merkel, di una nuova filosofia. Ne abbiamo bisogno perché - come del resto dimostrano tutti i recenti sondaggi di opinione sul rapporto fra i cittadini e l’Europa - si è creato un solco fra quanto la maggioranza degli europei chiede all’Unione e quanto l’Unione sembra effettivamente capace di offrire.

Cosa chiede la gente all’Europa? Chiede sostanzialmente due cose: occupazione e sicurezza. Da questo punto di vista, l’ultimo studio demoscopico di Eurobarometro sul tema del futuro dell’Unione è molto più interessante degli eterni dibattiti fra gli addetti - o fra i Governi, per essere onesto. È un sondaggio interessante perché dimostra:
– primo, che il clima psicologico generale, fra i cittadini europei, è segnato da una notevole incertezza e da diffuse preoccupazioni. In altri termini, siamo in un’epoca di pessimismo, soprattutto fra la popolazione dei Paesi originari dell’Unione.
– secondo, che le ragioni di questo pessimismo sono sostanzialmente sociali ed economiche: la principale delle preoccupazioni europee resta l’occupazione. Si tratta soprattutto di una risposta psicologica negativa alle tensioni provocate dalla globalizzazione.Il timore prevalente è che la crisi del modello sociale ed economico europeo lasci senza difesa le persone;
– ma il terzo punto è che la gente continua a credere che una vera difesa sia concepibile soltanto a livello europeo. Poiché a questa aspettativa - l’Europa come scudo, come protezione rispetto alle tensioni provocate dalla globalizzazione - non corrisponde un risultato credibile, l’Europa delude.

Per mettere la cosa in altri termini: la gente ha già chiara la nuova motivazione.

Vorrebbe un’Unione in grado di governare con successo le tensioni globali e in grado di muoversi - per raggiungere questo risultato - come attore globale. L’idea che l’Europa debba diventare un attore politico internazionale ha forte consenso.

Ma qui le resistenze vengono chiaramente dai Governi nazionali, non dalle opinioni pubbliche.

La nuova motivazione, per le persone, è quindi evidente: alla vecchia Europa fondata sulla pace fra Stati deve seguire l’Europa della sicurezza individuale.

La domanda di Europa c’è, cambia ma resta; è l’offerta che non sembra corrispondervi. È da questo scarto - fra quanto l’Europa produce e quanto la gente si aspetta - che nasce il disincanto dell’opinione pubblica.

La disaffezione è tangibile. Lo provano, assieme al tasso di astensionismo nelle elezioni europee, i sondaggi secondo cui la maggior parte dei cittadini europei continua a ritenere necessaria l’appartenenza del proprio Paese all’Unione, ma una parte crescente di loro - un terzo circa - ritiene ormai che Bruxelles non migliori le condizioni di vita.

Può essere istruttivo, da questo punto di vista, guardare agli atteggiamenti dei diversi gruppi di età verso le istituzioni dell’Unione. La metafora di Kohl insegna che l’euro-idealismo è ancora diffuso fra le persone dai cinquantenni in su, sempre sensibili all’idea che l’Europa abbia permesso di superare quelle rivalità nazionali che hanno prodotto due guerre mondiali nel secolo scorso. I giovani, invece, danno questo risultato come acquisito. Per loro, l’Unione europea deve essere un’organizzazione funzionale, che produce dei risultati essenziali in termini di sicurezza individuale. Se questo non avviene, è chiaro che anche l’euro-idealismo di un tempo non basta più.

Questa è, quindi, la fotografia di quella definirei una crisi di legittimità. La gente vorrebbe più Europa nei campi dove l’Europa non c’è e forse ne vorrebbe meno dove invece c’è; per esempio vorrebbe una minore regolamentazione.

Questa divergenza - fra domanda e offerta di Europa - nasce da difficoltà oggettive, ma anche da un comportamento non adeguato dei Governi nazionali. È spesso, infatti, utilizzata da parte loro per scaricare su Bruxelles responsabilità nazionali.

Vorrei sottolineare un punto che mi sembra sostanziale. Il Governo cui appartengo è un Governo europeista, anzitutto perché non intende scaricare su Bruxelles le proprie responsabilità, in un gioco perverso al ribasso. Non intende farlo il Governo Prodi. E, come sappiamo, non ha nessuna intenzione di farlo il Governo della signora Merkel. E qui - in questo cambiamento di atteggiamento da parte di due dei Paesi chiave del Vecchio continente - c’è una prima speranza di ripartire. L’Europa è prima di tutto una questione di responsabilità nazionale.

Se guardiamo all’economia, la logica dell’Euro - la sovranità condivisa - non deve finire per deresponsabilizzare gli Stati nazionali, da cui continua a dipendere la volontà e capacità di attuare riforme strutturali. Se il vincolo esterno dell’Unione Europea è stato in passato utilizzato per forzare riforme impopolari, oggi è spesso evocato dai Governi nazionali per giustificare all’interno i propri insuccessi economici. La realtà è che una migliore direzione dell’economia europea richiederebbe sia una revisione delle regole fiscali nell’area dell’Euro, sia riforme nazionali più coraggiose.

Il valore aggiunto dell’Unione Europea, in campo economico, sarà, d’altra parte, sempre meno evidente per i cittadini europei, in assenza di una revisione del bilancio (in senso più funzionale agli obiettivi di crescita e innovazione di Lisbona), di un aumento delle risorse comuni (che nessuno dei principali Paesi oggi accetta) e di un consolidamento dell’Eurogruppo. Sono obiettivi che l’Italia intende promuovere con coerenza e che credo corrispondano alle aspettative delle imprese. È, in effetti, corretto il modo in cui è stato posto il problema da quella parte del mondo industriale, che sembra avere maggiore fiducia nell’Europa di quanto non abbiano le classi politiche. È quella parte del mondo industriale che non crede nel protezionismo, ma nelle regole. E che crede nel vantaggio comparato di un mercato interno che dobbiamo completare. Se questa lettura della crisi attuale dell’Europa è corretta,
la conseguenza che se ne ricava è abbastanza chiara: per potere recuperare consenso, l’Europa ha bisogno di offrire risultati tangibili nei settori che interessano i cittadini: le preoccupazioni economiche e sociali, la sicurezza.

In particolare, sono necessari due requisiti essenziali, che sembrano ancora mancare: primo, una chiarezza di visione e di direzione, nella prospettiva di un’Europa che sappia governare le sfide della globalizzazione, basandosi su una struttura istituzionale certa; secondo, una migliore capacità di realizzazione nel campo delle politiche (ciò che definiamo l’Europa dei progetti).

In sostanza, l’Europa ha bisogno di dimostrare di essere in grado di attuare scelte rassicuranti per i propri cittadini, e corrispondenti ai valori che li uniscono, in un mondo caratterizzato da un tasso molto superiore di competizione.

Cosa significa chiarezza di visione e di direzione? Significa definire per l’Unione Europea un nuovo quadro di riferimento condiviso, generalmente riconosciuto e accettato, che orienti le decisioni collettive. Da questo punto di vista, determinante ai fini del consenso, il Trattato costituzionale resta indispensabile.

Sappiamo tutti che nessuna decisione vera in questo senso sarà presa prima del 2007-2008, cioè prima dell’esaurimento del ciclo elettorale in Francia e in Olanda, nei due Paesi del “no”.

Ma dobbiamo avere chiaro l’obiettivo: è decisivo che l’essenza del Trattato costituzionale sia salvata. È decisivo perché l’assetto costituzionale previsto dal Trattato, in qualunque forma sarà poi approvato, è l’unica garanzia perché l’Unione allargata possa funzionare e possa, quindi, produrre dei risultati.

Non solo: il Trattato segna un punto fermo, nella traiettoria in perenne movimento dell’Unione Europea. E in realtà non possiamo pretendere consenso permanente su un attore politico di cui restino perennemente incerti i confini esterni e le regole di funzionamento interno. La mia tesi è che abbiamo alla fine bisogno di un punto di arrivo, perlomeno di un punto di arrivo valido per questa fase storica.

Se guardiamo, anzitutto, ai confini esterni, è per me chiaro che il processo dell’allargamento non è completato. Lo sarà quando avremo incluso nell’Europa democratica non soltanto la Romania e la Bulgaria, ma anche i Balcani occidentali e, in uno scenario temporale successivo, più lungo, la Turchia.

Nel primo caso, si tratta di una vera e propria missione nazionale: l’Italia deve spingere l’Europa in questo senso. Ce lo dicono non soltanto le responsabilità della storia o la nostra posizione geopolitica, ma anche gli interessi specifici che abbiamo alla creazione di un’area di stabilità ai confini sud-orientali
del Continente. Non possiamo permettere che si crei, ai nostri confini orientali, una specie di enclave, da cui derivino flussi migratori e criminalità. Se la prospettiva della piena adesione fosse tolta dal tavolo negoziale, la capacità dell’Europa di stabilizzare i Balcani si ridurrebbe in modo drastico.

Dobbiamo, quindi, operare in questo senso, naturalmente sulla base di progressi specifici per quel che riguarda la lotta alla criminalità, la lotta alla corruzione, la costruzione di istituzioni affidabili.

Nel caso della Turchia, si tratta di incoraggiare il consolidamento democratico di un Paese musulmano, che è anche un attore geopolitico essenziale nell’area mediorientale. Ci vogliono tutte le condizioni del caso, incluso il superamento del nodo di Cipro. E ci vorrà più tempo.

Ma dobbiamo avere chiaro, come Italia e come Europa, quali saranno i confini futuri. Si tratta di una decisione essenziale sia in termini identitari, sia quanto a definizione della natura del progetto europeo come spazio di stabilità allargato.

Per tornare alla metafora di Kohl, la motivazione originaria, adattata ai tempi di oggi, impone di completare l’allargamento.

E poi di fermarsi - questa è la mia tesi, di fermarsi almeno per un certo periodo - sviluppando, invece, politiche di vicinato più credibili.

In sintesi, abbiamo bisogno di frontiere esterne certe. Esse devono includere i Balcani occidentali e sarebbe preferibile che includessero, a condizioni certe, anche la Turchia.

Allargata a Sud-est e allargata verso un’area geopolitica essenziale, l’Europa acquisirebbe di per sé maggiore peso come attore internazionale. Da questo punto di vista, completare l’allargamento resta una finalità essenziale dell’Unione Europea, come ha molte volte sostenuto Joschka Fischer. Il compito di leadership politiche responsabili è di spiegare ai cittadini europei che l’allargamento - temuto quale minaccia - è in realtà una delle condizioni per soddisfare proprio quelle esigenze di sicurezza che i cittadini avvertono e per cui chiedono una protezione all’Unione Europea.

Una mia prima conclusione è che la chiarezza del progetto implica confini esterni certi. Ma implica anche una seconda condizione: una maggiore flessibilità interna all’Unione. È chiaro, infatti, che con l’aumento dei membri dell’Unione, e quindi con l’aumento delle diversità interne, devono potere esistere velocità differenziate di integrazione.

Qui, il problema che abbiamo è evidente: come mantenere un quadro istituzionale unitario per un’Europa a più velocità.

Anche da questo punto di vista, fare leva sull’essenza del Trattato costituzionale appare essenziale.

In questo caso, la posizione del Governo è che l’Italia abbia tutto l’interesse a partecipare ad accordi specifici di maggiore integrazione o cooperazione fra alcuni Paesi dell’Unione, a condizione che restino accordi aperti, inclusivi. Nella nostra visione, sarebbe cruciale un rafforzamento dell’area dell’Euro e sarebbero indispensabili accordi ulteriori in materia di sicurezza interna e difesa. Per la politica estera, si potrebbe, fra l’altro, pensare a criteri di divisione delle responsabilità geografiche.

Lo scenario ideale, naturalmente, è che un gruppo trainante di Paesi, fra cui appunto l’Italia, facesse parte di tutte queste forme di integrazione o cooperazione ulteriore: questa sarebbe la garanzia di un vero sviluppo politico dell’Unione.

È in questo senso che si muoverà l’Italia e che io conto tenderanno a muoversi anche alcuni dei grandi Paesi, a cominciare dalla Germania, e alcuni dei piccoli membri dell’Unione. La sfida è di grane rilievo, ma deve avere alle spalle un quadro istituzionale unitario. Questa resta la vera e grande frontiera: quella che passa fra un’Unione politica più flessibile e un’eventuale disgregazione.

Per questo motivo è decisivo che l’essenza del Trattato costituzionale sia salvata. Come ha confermato un recente Consiglio europeo, decisioni operative in questo senso sarannoprese soltanto dopo il 2007.

Ma è determinante, per il risultato finale, che la lunga pausa di riflessione non diventi paralisi.

Perché ciò sia possibile, dobbiamo mantenere aperto, nei Parlamenti nazionali e nel Parlamento europeo, quello che definirei un momentum costituzionale. Dobbiamo tenere vivo il senso della discussione sul futuro dell’Unione, il senso di un processo che continua sia nei Paesi che hanno già ratificato per via parlamentare (e sono la larga maggioranza), sia nei Paesi che non lo hanno ancora fatto o che hanno bocciato il Trattato.

E qui mi rivolgo ai miei amici francesi: non possiamo e non vogliamo perdere la Francia al Trattato costituzionale.

Senza la Francia, non è soltanto il cuore della vecchia Europa a subire fibrillazioni. È il cuore dell’Europa, che ci serve per il futuro, a mancare di un battito decisivo.

Vorrei concludere con alcune considerazioni più specifiche di politica estera. In tutta la prima fase di vita della Comunità, gli Stati membri hanno mantenuto integralmente le loro prerogative esterne, eccetto che nel campo del commercio.

Dopo la doppia rottura storica del 1989 e del 2001, la vecchia distinzione fra ciò che è interno ed esterno è largamente sfumata. Ciò che eravamo abituati a considerare interno (per esempio il controllo dell’emigrazione) tende a diventare un problema comune. Ciò che consideravamo esterno (la minaccia)
si è spostato sul piano interno. In altri termini: senza una politica estera europea, senza il valore aggiunto dell’Unione Europea, gli Stati nazionali non riusciranno più a difendere neanche le politiche interne.

Se guardiamo alla sicurezza, è evidente che i Paesi europei rischieranno di diventare più vulnerabili e insieme più marginali, se non riusciranno a combinare le loro forze in una politica estera e di difesa comune. Da questo punto di vista, le disposizioni previste dal Trattato costituzionale - in particolare quelle relative al ruolo dell’Alto Rappresentante - restano indispensabili.

Il previsto servizio diplomatico esterno non è ancora stato creato come entità legale. Ma niente, al di là di ovvie resistenze burocratiche, impedisce che funzionari della Commissione, del Consiglio e dei singoli Paesi membri siano integrati in un unico gruppo di politica estera. Allo stesso modo, la sinergia fra l’Alto commissario alle relazioni esterne e Mr. Pesc potrebbe in ogni caso già aumentare.

Con l’allargamento dell’Unione, è pensabile, come ho anticipato più sopra, che la politica estera comune possa strutturarsi secondo criteri di responsabilità geografica. Al recente Consiglio europeo abbiamo accennato a questo punto, parlando di possibili gruppi di contatto. In questa prospettiva, l’Italia sta predisponendo una coalizione di Paesi - sulle due sponde del Mediterraneo - favorevoli al progetto di una Banca regionale che permetterebbe nuovi investimenti. La Banca avrebbe una golden share pubblica, al 51 per cento, e capitali privati.

È inevitabile, invero, che non tutti i membri dell’Unione abbiano lo stesso peso in politica estera. Soltanto un accordo fra i Paesi maggiori garantirà una capacità di leadership. Come ha dimostrato negativamente il caso dell’Iraq, una seria frattura fra la Francia e la Gran Bretagna è causa determinante di un’irrilevanza complessiva dell’Unione.

D’altra parte, la creazione di Direttori permanenti – il rischio posto invece dall’Iran - sarebbe vissuta dal resto dei Paesi membri dell’Europa come un’esclusione, riducendo così i mezzi a disposizione dell’Unione nel suo insieme. Anche in questo caso, che sarà tanto più rilevante per le sorti della difesa comune, resta il problema di riuscire a conciliare capacità decisionale e coesione. Accordi puramente intergovernativi non basteranno.

Gli stessi principi - leadership e coesione - valgono per gli sviluppi della sicurezza interna, all’incrocio fra gestione delle politiche migratorie, cooperazione giudiziaria e gestione comune dell’intelligence. I progressi compiuti dal 2001 in poi su questo piano sono molto più incoraggianti di quanto in genere si pensi. Consolidarli ulteriormente appare una delle priorità evidenti dei prossimi anni, fra l’altro chiesta in modo esplicito da larga parte dell’opinione pubblica europea.

In questo caso, utilizzando una passerella del Trattato di Nizza, si potrebbe arrivare a decidere a maggioranza qualificata.

Considerazioni simili valgono, infine, per la sicurezza energetica, ormai parte integrante della politica estera. Non c’era certamente bisogno di aspettare la crisi Russia-Ucraina dell’Inverno 2005-2006, per avere una conferma della vulnerabilità europea. È decisivo, pertanto, che i passi appena avviati verso una politica comune compiano dei progressi effettivi. Per l’Italia, si tratta di una questione decisiva di sicurezza, visto il nostro livello di dipendenza dalle forniture estere, dalla Russia e dal Mediterraneo in modo particolare. Anche in questo caso abbiamo bisogno di regole e di un sistema decisionale efficace.

Resta il problema più generale. L’Europa non ha tante pause da prendersi. Se guardiamo agli indicatori demografici, economici, energetici, è chiaro che i Paesi europei, se presi singolarmente, rischiano una progressiva marginalità. Se guardiamo alle proiezioni per i prossimi venti anni, un Paese come l’Italia non sarà più ai vertici dell’economia mondiale, se non potrà fare leva - di fronte all’ascesa di nuove grandi potenze globali - sul valore aggiunto continentale.

Lo sappiamo noi e lo sanno gli altri. Il Presidente Hu Jin Tao mi diceva tempo fa a Pechino che il suo Paese non teme affatto l’unilateralismo americano. Sa benissimo, infatti, che il futuro sarà bipolare, vista l’ascesa della Cina e, in genere, del continente asiatico. Alla mia obiezione di essersi dimenticato l’Europa, ha risposto con un sorriso: “Se l’Europa ci sarà, allora ci sarà anche l’Europa”. L’Europa ci sarà? Ne abbiamo assolutamente bisogno. Lo sa Hu Jin Tao, con maggiore chiarezza di quanto non lo sappiamo noi stessi.

L’Europa ci sarà, se riuscirà a destinare risorse in ricerca e sviluppo, Se metterà insieme competenze decisive e si aprirà al mondo, invece di richiudersi all’interno. Se avrà le politiche giuste e le istituzioni giuste per consolidarle. Se saprà collocarsi con sicurezza nel mondo come grande polo di crescita autonoma, ma con un rapporto solido, privilegiato, con gli Stati Uniti.

Se diventerà, in altri termini, un vero attore globale.

Lo stallo del Trattato costituzionale ha generato una crisi evidente. Ma ha anche aumentato la consapevolezza sul presente.

Il futuro dell’Europa non dipenderà soltanto da Governi nazionali più responsabili, che evitino di scaricare all’esterno le loro difficoltà interne, con tentazioni populiste evidenti. Il futuro dell’Europa dipenderà dal consenso di cittadini europei, che si sentono tali, ma che hanno bisogno di nuove certezze. Sono le certezze che dobbiamo dare, come classi politiche nazionali e come Governi europei.

In una visione euro-idealista aggiornata, che è la mia, si potrebbe sostenere che lo stallo del testo costituzionale apre la possibilità di avere finalmente un momento costituzionale, una discussione più libera e più concreta sul rapporto fra i cittadini e l’Europa. Soltanto ripartendo da una discussione vera le elites - politiche ed economiche - potranno ritrovare i cittadini attorno al progetto europeo.

Massimo D’Alema

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