Intervista
15 novembre 2006

"In Cina la crescita porterà la democrazia"

Intervista di Federico Rampini - la Repubblica


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“Un salto di due secoli concentrato in trent'anni,è l'impressione che ti fa la Cina: da qui ci si rende conto che è il centro dì uno dei più grandi fenomeni di sviluppo nella storia dell'umanità. L'Italia ha interesse ad agganciarsi a un evento di queste dimensioni, ad accompagnarlo, ad avere un ruolo. Alcuni imprenditori italiani lo hanno capito e sono stati premiati con successi notevoli. Tanti purtroppo hanno avuto paura, e il risultato è che tra i grandi paesi industrializzati siamo quello che investe di meno. La paura ha fatto male solo a noi, non è con la paura che possiamo frenare lo sviluppo cinese".

Il ministro degli Esteri Massimo D'Alema conclude la sua missione in Cina con un appello al made in Italy: che non abbia solo la vecchia mentalità commerciale, il modello dell'export.
“Oggi su mercati di questa dimensione non basta vendere, bisogna investire per conoscerli, per presidiarli".

D. La paura non è monopolio degli imprenditori. Una parte del mondo del lavoro, della sinistra, si interroga: è possibile competere con un colosso che non rispetta i diritti dei lavoratori, sfrutta i minori nelle fabbriche non ha Welfare?

R. "Lo sfruttamento e la mancanza di diritti non è solo un male cinese, è comune a tanti altri paesi emergenti che non hanno questa forza propulsiva. E' un errore ridurre a questo il dinamismo cinese: qui si respira una fiducia nel futuro, uno slancio collettivo, l'entusiasmo e l'orgoglio di una grande nazione. E' chiaro che lo sfruttamento crea problemi e tensioni. In Cina ci sono i segni di un ciclo di conflitti operai. Il mondo del lavoro che è il motore della crescita comincia a chiedere il rispetto dei diritti, ci sono lotte spontanee, nuove forme di dissenso. La classe dirigente sembra consapevole che questi problemi vanno affrontati con flessibilità. Nel premier Wen Jiabao sento una sensibilità sociale nuova, si pone il problema di riequilibrare le disuguaglianze, di investire nella sanità, nelle regioni agricole più povere. Si prepara a varare una legge che, almeno sulla carta, garantisce il diritto alla contrattazione delle condizioni di lavoro. Non è simpatico che questa nuova legge cinese sia avversata da parte di grandi multinazionali, in particolare americane, espressione di quell'Occidente che si presenta come difensore dei diritti umani”.

D. Quando lei ha posto la questione dello Stato di diritto, della libertà di parola, di religione, che reazione ha sentito? Non è deluso dalla lentezza della Cina in questo campo?

R. “Qualcosa si muove, per esempio con la recente riforma della pena di morte che consente l'appello alla Corte costituzionale: una novità che speriamo riduca l'applicazione della pena capitale. Con il ministro degli Esteri Li ho avuto un colloquio interessante a cena. Mi ha chiesto: lei che ha avuto esperienza di quel mondo, mi dica perché è fallita l'Urss di Gorbciov. Poi ha fatto un grande elogio a Deng Xiaoping, per aver fatto uscire il paese dal caos avviandolo verso la modernizzazione. Io ho risposto: i dirigenti cinesi hanno capito che le riforme politiche se non poggiano su un'economia forte possono portare alla disgregazione, come nel caso dell'Urss. Però, ho aggiunto, l'economia di mercato spinge anche verso la democrazia politica. Li non ha risposto, ma assentiva in silenzio come a dire: lo sappiamo. Il loro grande problema è questo”.

D. L'arretratezza cinese sui diritti umani rischia di essere contagiosa. Via via che estense la sua influenza nel mondo Pechino diventa il protettore di regimi oppressivi, come nel caso del Sudan.

R. “Ai miei interlocutori ho voluto ricordare la tragedia del Darfur. Ho detto chiaramente che critichiamo il sostegno che la Cina continua a offrire al governo del Sudan senza tener conto della terribile repressione di cui si macchia”.

D. Sull'embargo europeo alle forniture militari lei ha ribadito una posizione che l'Italia ha da molti anni insieme con Francia e Germania: non si può mantenere una misura presa dopo la sanguinosa repressione del movimento democratico del 1989, perché la Cina di oggi non è la stessa del massacro di Tienanmen. La situazione non è certo quella del giugno '89, e tuttavia è davvero necessario vendere armi al regime di Pechino?

R. “Togliere l'embargo darebbe un segnale di normalità. L'embargo tra l'altro preclude a noi una cooperazione in molte tecnologie d'avanguardia, dal satellitare alle telecomunicazioni. Arrivare alla normalità significa applicare i criteri che usiamo per la maggioranza dei paesi del mondo: non vendiamo armi a chi fa la guerra, a Paesi che rappresentano una minaccia. Se la Cina si impone come una potenza pacifica e un fattore di stabilità non vedo perché dovremmo applicarle uno standard diverso. Fermo restando che dobbiamo continuare a incalzarla sui diritti umani".

D. Nello stesso giorno l'Iran conferma che manda avanti il suo programma nucleare; e il governo giapponese annuncia che potrebbe "legittimamente" costruirsi l'atomica, un'implicita reazione al test nordcoreano. L'escalation nucleare è una minaccia sempre più concreta. Ha come protagonisti due regimi, Teheran e Pyongyang, con cui la Cina ha robusti rapporti.

R. "I miei interlocutori a Pechino hanno ribadito l'assoluta contrarietà della Cina alla proliferazione nucleare. Sull'Iran abbiamo una forte convergenza: Cina e Italia sono convinte che la comunità internazionale deve esercitare la sua pressione su Teheran perché sospenda l'arricchimento dell'uranio. Il governo cinese è disposto a discutere anche delle misure contro l'Iran, purché siano proporzionate e reversibili, non siano un fine a se stesso bensì il mezzo per ritornare al dialogo. In Corea del Nord l'azione della Cina è apprezzata dagli Stati Uniti. La Cina si adopera per bloccare i progetti nucleari di Pyongyang, è preoccupata da una escalation del riarmo in Estremo oriente".

D. Cento persone sequestrate in un giorno a Bagdad. Mentre in America la sconfitta repubblicana rafforza il dibattito sul ritiro dalle truppe, si affaccia l'ipotesi di una tripartizione dell'Iraq tra una zona curda, una sunnita, una sciita.

R. "La ritengo rischiosa, potrebbe inasprire la conflittualità e perfino allargarla, per esempio con un conflitto tra curdi e Turchia. Sarebbe meglio un sistema costituzionale di forti autonomie dentro un patto federale. L'unica via è negoziare con le forze che si sono opposte alla presenza americana. Se è vero che si tratta di uno schieramento variegato, un accordo con sunniti e una parte degli sciiti può portare a isolare il terrorismo di AI Qaeda, che si è infiltrato in Iraq perché ha trovato delle solidarietà. Urge un negoziato aperto e spregiudicato”.

D. Anche con l'Iran e la Siria?

R. "La soluzione del dramma iracheno comporta un impegno degli attori regionali. Anche negli Stati Uniti oggi ci si pone il problema di cercare degli interlocutori. Senza una stabilizzazione del paese non è realistico che le truppe americane se ne vadano. L'America ha bisogno di essere aiutata. Si apre uno spazio di cooperazione tra l'Unione europea e gli Stati Uniti per disinnescare la crisi. Io continuo a pensare che per produrre una novità nel rapporto con il mondo islamico una chiave è fare dei passi avanti nello scenario israelo-palestinese. La leadership israeliana deve capire che è suo interesse migliorare rapidamente i rapporti con i palestinesi: è la condizione per evitare un ulteriore rafforzamento dei gruppi fondamentalisti tra i palestinesi. L'uso indiscriminato della forza non è conveniente neppure per Israele".

D. La politica interna l'ha inseguita in un'aula universitaria di Pechino. Uno studente cinese le ha chiesto: ci spieghi qualcosa dei partiti italiani, la vostra politica così frammentata è incomprensibile. Una domanda forse ingenua, ma sembra che perfino in Cina arrivi l'immagine di un governo fragile, appena nato eppure gia in crisi nel suo rapporto con l'opinione pubblica.

R. “A quello studente ho risposto che nonostante la complessità, la sostanza è che si confrontano un programma conservatore e uno di cambiamento del Paese; che abbiamo bisogno di evolverci verso un'alternanza imperniata su due grandi forze fondamentali; che nel centrosinistra stiamo cercando di costruirne una. Se lo si misura davanti alla sfida cinese, è ancora più evidente il grande lavoro che ci aspetta in Italia. Dobbiamo sapere che il rilancio della nostra competitività è un'azione che porterà frutti nel medio termine. Il valore di questa legge finanziaria è che prende di petto subito l'eredità negativa del passato anziché spalmarla gradualmente. Poi però è essenziale premere sull'acceleratore dello sviluppo, della crescita. I ritardi che abbiamo accumulato nell'economia globale sono la vera emergenza”.

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