Discorso
20 gennaio 2007

Roma - Assemblea Generale dei Segretari di sezione

Testo dell'intervento


Care compagne e cari compagni,
spero che questa nostra assemblea ponga fine ad un dibattito pubblico che, nell’immagine data da taluni commentatori, è dominato dalla presenza di una forza politica, la nostra, che si starebbe disgregando. Mi auguro che questa giornata induca almeno a qualche dubbio, segni una pausa di riflessione e stimoli ad una più attenta considerazione della realtà.
Sono sicuro che per noi, impegnati nell’opera difficile del governo del Paese, la presenza di questo partito vitale, robusto, consapevole delle sfide che ha di fronte a sé, sia motivo di fiducia e rappresenti una realtà solida a cui ci si può appoggiare. E credo che la presenza di questo partito indichi il senso di una battaglia che continua, di una storia che va avanti, anche grazie al risultato forse più confortante del lavoro svolto da Piero Fassino in questi anni, che e’ il segno piu’ significativo della qualita’ del suo impegno. Intendo la presenza di una nuova generazione di compagne e di compagni, di militanti, di dirigenti che hanno forza, personalità, capacità di lotta politica e che via via si mostrano in grado, a tutti i livelli, di assumere nuove responsabilità nella vita del partito e nella vita pubblica. Per chi, come me, il rapporto con il partito diventa sempre più saltuario, a causa dei compiti a cui è stato chiamato, è motivo di piacevole sorpresa incontrare ogni volta dirigenti nuovi, giovani o giovanissimi.
È il segno che la passione politica e la forza della sinistra in questo Paese non sono scalfiti e che questo nostro partito non è né intimorito, né ripiegato su se stesso, né separato dalla società civile, così come vorrebbe tutta una letteratura, che mette i partiti di qua, nel mondo del male, ed una mitica società civile di là. Questo, come se il cittadino che dedica volontariamente una parte del proprio tempo all’impegno politico, civile, sociale, diventasse esso stesso di “serie B”.
Continuo a credere nella necessità, per un grande Paese, di una dimensione organizzata e partecipe della politica, a maggior ragione se guardiamo alla grande e difficile sfida del cambiamento della società italiana, un cambiamento che restituisca al Paese fiducia in se stesso e slancio verso il futuro.
È stato già detto in tanti interventi, e molto bene da Fabio Mussi, che gli obiettivi del nostro lavoro non sono soltanto quelli del programma di governo, ma sono anche gli obiettivi di un’azione sociale e politica che richiede una forte mobilitazione della società, delle sue energie e della sua intelligenza. Infatti, non c’è opera di governo, non c’è riforma che possa essere racchiusa in una buona legge, se non diventa obiettivo che mobilita milioni di persone, che le motiva a dare qualcosa per il loro Paese, che restituisca slancio ad una società che per troppo tempo è stata prigioniera di egoismi e paure. Sintesi compiuta ed espressione di ciò è stata la destra italiana, portatrice di una cultura della paura di fronte alla globalizzazione, ad un grande Paese come la Cina, agli immigrati. E che aveva come obiettivo principale la difesa egoistica di interessi ristretti.
All’inizio, forse, noi avevamo sottovalutato la portata dei guasti che si erano determinati durante gli anni del governo della destra, guasti che hanno reso la partenza difficile, in salita. Nel Paese, infatti, si erano accumulate tante ingiustizie e, quindi, anche tante aspettative, che hanno reso ancora più acuto il contrasto con quanti attendevano una immediata risposta al bisogno di miglioramento della propria vita, del proprio salario, della propria pensione, di un lavoro meno precario.
Da una parte, dunque, bisogni che erano stati compressi e dall’altra la dura necessità di mettere argine al rischio di una bancarotta finanziaria dello Stato. Siamo stati costretti a compiere scelte anche ardue pur di ripartire risorse scarse: è stato come dover irrigare un campo spaccato dal sole. Pensiamo a quanto è stata impoverita, negli anni della destra, la scuola pubblica, l’università, la ricerca. Noi ci siamo trovati a dover irrigare questo campo con un secchiello con poca acqua, quella rimasta nei pozzi dopo una politica dissennata, irresponsabile, cinica.
Questa è la verità e va ricordata ad una destra che con disinvoltura si è tolta dalle spalle le sue responsabilità. Abbiamo trovato un bilancio dello Stato devastato, bilanci di previsione fondati sul fatto che le opere pubbliche erano state deliberate, ma non finanziate. Ci siamo trovati senza un soldo per gli investimenti di strade e ferrovie, con una pubblica amministrazione riempita di clienti e amici, nominati in funzioni di alta responsabilità. E vi risparmio il capitolo secondo cui, persino con una certa accondiscendenza da parte dell’informazione, Berlusconi, che poco aveva fatto nel Paese, aveva però tenuto alto il prestigio internazionale dell’Italia: di questo potrei portare numerose testimonianze, corredate di una aneddotica di cui è riempito il pianeta.
La verità è che la partenza è stata difficile. Forse neanche noi eravamo preparati a questa difficoltà e non l’abbiamo affrontata con lo spirito giusto, cioè rendendo subito partecipe il Paese delle scelte che si dovevano compiere e rendendo la gente consapevole del perché era necessario farle. Tuttavia, il cambiamento è cominciato e l’opinione pubblica inizia a percepirlo, anche perché le persone hanno un approccio concreto. Dopo il primo impatto dei mezzi d’informazione, la gente si informa e capisce. A questo proposito,ho incontrato un ragazzo che mi ha detto: “Io sono con voi, anche con la Finanziaria…”. E lo ha detto non per uno slancio di generosità verso il governo di centrosinistra, ma perché ha scoperto che la sua ragazza, lavoratrice e precaria, grazie alla Finanziaria avrà l’indennità di maternità che prima non avrebbe avuto.
Dunque, abbiamo dovuto varare una manovra finanziaria dura e difficile, un ostacolo da saltare per rimettere in movimento il Paese, un ostacolo che non si poteva scartare. Tuttavia, a mano a mano, si scoprirà che dentro quella Finanziaria c’è il segno della sinistra: della giustizia sociale, della riduzione delle disuguaglianze, dell’attenzione verso i più deboli.
Occorre soprattutto sottolineare che il risanamento finanziario per noi non è fine a se stesso, ma è la condizione per mettere in movimento l’economia, per tornare a creare ricchezza e sostenere il sistema delle imprese. Penso a quel mondo di tanti medi e piccoli imprenditori, che in questi anni hanno saputo affrontare la sfida della competizione internazionale e dimostrare la vitalità di questo paese. Noi, che siamo una grande forza del lavoro, dobbiamo anche sentire gratitudine. Ci avevano detto, e qualcuno di noi l’ha anche pensato, che nei settori tradizionali l’Italia era finita. Invece vediamo che, di fronte alla Cina e all’India, il Paese riprende a crescere nelle esportazioni tradizionali: torniamo ad essere competitivi nei settori delle calzature, del tessile, dell’arredamento, cioè lì dove l’industria italiana affonda le radici nella storia e nella cultura. Dobbiamo sapere che in questa capacità di ripresa competitiva, c’è stato lo sforzo straordinario di milioni di lavoratori, di tecnici, di imprenditori.
Insomma, c’è la vitalità, la creatività dell’Italia e il governo ha il dovere di accompagnare questo processo, di aiutare questa forza produttiva a rimettersi in cammino. Ma non ci possiamo accontentare, perché dobbiamo crescere anche in altri settori, cogliendo tutte le nuove potenzialità che vi sono, anche grazie ad una nuova politica estera.
L’Italia, anziché predicare i dazi o affermare che i cinesi mangiano i bambini,e’ tornata in Cina ed è stata accolta a braccia aperte da un grande Paese che cresce e che ci vuole partner nel suo sviluppo. Con noi i cinesi sono competitivi, ma sono anche pronti ad investire in Italia, a lavorare insieme alle nostre imprese, offrendo nuove opportunità.
C’è un’immagine dell’Italia nel mondo che non si riflette abbastanza nella coscienza degli italiani: siamo guardati come un grande Paese, siamo visti come un Paese di cui si ha bisogno. Nessuno può comprendere il fatto che gli italiani abbiano paura della globalizzazione, perché siamo un popolo cosmopolita e non c’è nessun popolo come il nostro che sia parte della civiltà del mondo.
Se si va nel grande museo che è il Pantheon della storia cinese, da Confucio a Deng Xiaoping, tutti i personaggi sono cinesi, salvo due stranieri: Marco Polo e Matteo Ricci. Come potevano, i cinesi, capire un’Italia chiusa e ostile alla crescita di quel grande Paese? E se si va in America Latina, quanta Italia c’è in quelle civiltà? Io penso che noi dobbiamo riscoprire la nostra vocazione autentica, quella di contribuire ad un mondo sempre più unito e capace di affrontare e cogliere la sfida della globalizzazione come grande opportunità, contribuendovi con la forza della creatività e dell’intelligenza, con lo slancio culturale di un Paese che ama la pace.
La politica estera italiana è tutta qui: riscoprire il senso del nostro stare nel mondo. Noi siamo in mezzo al Mediterraneo: cosa ci facciamo, se non promuoviamo il dialogo, se non cerchiamo di costruire la pace? Quando sei all’opposizione, contro la guerra fai i cortei. Quando sei al governo, cerchi di porre rimedio a ciò che è accaduto in questi anni, in cui si è interpretata la giusta lotta al terrorismo non come la costruzione di uno schieramento internazionale in grado di isolarlo e di mobilitare innanzitutto la gran parte del mondo islamico. Piuttosto, la si e’ interpretata come una sorta di guerra dell’Occidente contro l’Islam, creando così le condizioni di una crescita del terrorismo.
Noi ci siamo messi a lavorare per contribuire a voltare pagina. Per anni si è teorizzato l’unilateralismo, cioè la missione delle grandi potenze occidentali che esportavano la democrazia. Da questo punto di vista, il Libano rappresenta qualcosa di nuovo ed è percepito ovunque come un possibile punto di svolta, proprio perche’ in quel Paese e’ tornata protagonista l’ONU, di cui sembrava non ce ne fosse più bisogno. È stata una risoluzione delle Nazioni Unite a fermare la guerra, dunque il diritto internazionale contro la logica della forza. Ora in Libano c’è una forza multinazionale, che non è un esercito occidentale: ci sono gli europei, i turchi, gli indonesiani, i soldati del Qataar … Cristiani e mussulmani.
Insomma, c’è la comunità internazionale, tornano idee e concetti fondamentali. Certo, una cosa è dire “multilateralismo”, altra è costruirlo sul campo, attraverso iniziative efficaci, che comportano coerenza, serietà, assunzione di responsabilità e rischio. Dal Libano, piano piano, l’Europa, tornata protagonista dopo essersi divisa ed essere stata impotente, guarda oggi alla possibilità di restituire un possibile orizzonte di pace al conflitto tra israeliani e palestinesi.
Si pensava che sulla politica estera la maggioranza si dividesse, invece non solo è stata unita, ma anche l’opposizione ha dovuto condividerne le scelte fondamentali, com’è giusto che sia in un grande Paese. Ogni tanto si scatena qualche campagna strumentale, qualche fiammata di campagna giornalistica, perché la nostra politica estera mantiene un profilo indipendente, rispetta le alleanze, ha un dialogo aperto, intenso con gli americani, nella consapevolezza che nessuno dei processi potrà andare avanti senza la partecipazione della grande forza degli Stati Uniti.
Ma in questo dialogo con gli americani non mancano le distinzioni, i momenti di discussione aperta e critica, perché penso che una politica estera degna di questo nome, non possa derogare ai suoi principi. Quando sono in gioco i diritti umani, la pena di morte o la tortura, noi dobbiamo dire quello che pensano gli italiani, anche se non piace ad alcuni dei nostri alleati.
Una politica estera forte ed incisiva richiede coerenza. Un grande Paese non può attraversare il confine tra la politica e la testimonianza. E dico ciò perché decidere di venir via dall’Iraq era un atto politico forte, difficile e lo abbiamo compiuto. Viceversa, andar via dall’Afghanistan non è un atto politico. In Afghanistan c’è l’ONU, l’Unione Europea, i nostri militari sono al fianco di quelli spagnoli e non c’è un solo Paese al mondo che sostenga che le forze internazionali debbano andare via dall’Afghanistan. Non lo chiede la Cina, non lo chiede la Russia. Andare via dall’Afghanistan sarebbe la rinuncia ad esercitare il nostro ruolo politico, sarebbe una scelta che ci isolerebbe in Europa e nella comunità internazionale.
Altra cosa è avere consapevolezza che la pacificazione di quel Paese ha bisogno di ben altro che non della presenza militare: occorre azione politica, impegno umanitario. Infatti, siamo in prima fila nel chiedere un cambio di strategia della comunità internazionale, ma per poterlo fare è necessario prendersi le proprie responsabilità, altrimenti non si può chiedere nulla.
Non considero drammatico che una grande coalizione discuta, né credo che per una sinistra riformista ed una sinistra più radicale sia impossibile governare insieme, altrimenti non ci saremmo accinti a questa impresa. Ritengo sia possibile costruire, via via, una sintesi attraverso una discussione aperta, franca, sincera, non strumentale, andando al fondo dei problemi. Tuttavia, è evidente che la guida del Paese è tutt’uno con la grande sfida del rinnovamento, dell’economia, della società, dello Stato, del nuovo profilo internazionale. Tutto cio’ ha bisogno di una grande forza politica che possa essere interprete e garante della trasformazione della società.
Noi avvertiamo come la fragilità, la frantumazione della politica, la perenne rincorsa alla visibilità e alla litigiosità facciano apparire la politica impari di fronte alle potenzialità, alla sfida che la società italiana deve vincere. Tutto questo dà forza a spinte antipolitiche, sia quelle che si manifestano nel popolo, come tali più comprensibili, sia quelle che, invece, sono espressione di ristrette oligarchie, di gruppi dominanti, con l’intento di controllare la cosa pubblica, subordinando di fatto i partiti e svuotando la democrazia. Magari perché si posseggono grandi mezzi di informazione o perché si controllano strumenti del potere economico
Il bisogno del Partito Democratico nasce da qui, dalla consapevolezza che anche noi non siamo sufficienti e che c’è bisogno di una grande forza politica capace di interpretare il rinnovamento della società italiana, in grado di gettare un ponte tra il governo del Paese e la società che cambia, che poi è, in definitiva, il compito dei partiti. Nessuno più di noi ha vissuto, in questi anni, la continua sovrapposizione tra la dimensione politica e la dimensione delle identità, delle idealità, dei valori, delle scelte di vita.
Questo non è un dramma esclusivamente italiano: la caduta del comunismo, il mutare del mondo, hanno ovunque sconvolto i partiti, le identità, le vite di ciascuno. A me capita spesso di incontrare, in giro per il mondo, qualche vecchio compagno, di quelli che magari erano della gioventù comunista di un Paese lontano. Mi domandano: “Ma ti ricordi…Il festival mondiale della gioventù? Ma ti ricordi… Quella volta che ci siamo incontrati, a Mosca?”. Fa piacere ritrovare, nella diaspora di quel movimento, tanta gente che ha continuato a far politica in partiti e movimenti con nomi diversi.
In questa ricerca, in questa diaspora, la sinistra ha continuato a vivere in mille forme differenti, com’è normale che sia: finchè c’è una società che produce ingiustizia, guerra, violenza, ci sarà qualcuno che si batte contro. Guardiamo oggi al crinale, secondo me più che mai evidente, tra destra e sinistra: tra chi pensa che il mondo globale si possa governare attraverso la forza e la prepotenza, e chi si batte per un mondo retto dal diritto; tra chi ritiene che i diritti umani e la libertà delle persone non siano beni barattabili; tra chi si batte contro la fame e l’esclusione per dare speranza. Guardiamo al tema dell’ambiente, del rapporto tra uomo e natura, su cui anche Fabio Mussi ci ha tante volte richiamato e al quale riconosco il diritto antico di essere stato tra i primi che ci hanno stimolato sulla questione. Qui è fortissimo il crinale tra chi pensa che noi dobbiamo governare il mondo innanzitutto animati da un senso di responsabilità verso i nostri figli e chi ritiene che la logica del profitto possa fregarsene degli equilibri naturali.
Insomma, c’è un vasto campo di forze che si muove nel mondo per fare della globalizzazione un’opportunità per tutti e non l’occasione per rafforzare il potere o la ricchezza di pochi. Ma io credo che questo campo di forze oggi non sia racchiuso dentro la parola “socialismo”. Socialismo è uno dei filoni, una delle ispirazioni, una delle storie che sono in questo vasto campo di forze. Persino la parola “sinistra” non sarebbe onnicomprensiva, perché è un termine europeo legato ad una determinata tradizione politico-parlamentare: la ‘’sinistra’’ era composta da quelli che sedevano in un certo lato del Parlamento e gran parte del mondo non ha conosciuto tali dialettiche.
È evidente che noi siamo parte di quella storia di socialismo europeo e -aggiungo io – parte piuttosto originale, dato che per noi la parola “socialismo” ha rappresentato un approdo relativamente recente. Dunque, noi siamo parte del socialismo europeo, che a sua volta è parte di un vasto campo di forze di progresso, in cui c’e’ bisogno di una nuova sintesi.
Badate, dal punto di vista delle forze di progresso che ci sono nel mondo, l’esperienza italiana dell’Ulivo è guardata con grande interesse e viene considerata come uno dei tentativi più coraggiosi, innovativi e creativi di costruzione di una nuova sintesi tra ispirazioni diverse -socialiste, cristiane, ambientaliste, liberali di sinistra-. Non è vero che nel mondo, e innanzitutto nel socialismo europeo, l’idea di trasformare l’Ulivo in un grande Partito democratico venga considerata come l’abbandono della sinistra: non c’è nessun leader del socialismo europeo che pensi questo. Al contrario, essi guardano all’esperimento italiano come a qualcosa che può allargare, rafforzare, innovare il campo del socialismo e del riformismo in Europa.
Vorrei che anche gli amici della Margherita ne capissero il senso, perché questo atteggiamento di apertura è il segno che il socialismo europeo guarda al rapporto con il Partito democratico italiano non nella prospettiva di un assorbimento, ma nella prospettiva della costruzione, insieme, di un rinnovato campo riformista in Europa. Infatti, penso che anche il socialismo europeo senta il bisogno di andare oltre i suoi confini e avverta i suoi limiti, soprattutto nelle forze più aperte, illuminate.
Non bisogna aver paura delle parole, bisogna guardare alla sostanza. Noi davvero pensiamo che da questo campo della sinistra possiamo non considerare quei democratici americani che contro la guerra in Iraq si sono battuti ben più di certi socialisti europei? O non vediamo che il rapporto con quel mondo è un aspetto essenziale della costruzione di un nuovo schieramento, di un nuovo campo di forze internazionale?
Credo che non dobbiamo guardare con timore a questa prospettiva e a questa sfida, che non si riassume nella fusione Ds-Margherita. L’idea che si mettano insieme forze che hanno sperimentato di andare unite alle elezioni, raggiungendo più del 30 per cento dei voti, è gia’ qualcosa di non disprezzabile in un Paese nel quale è sufficiente l’1,5 per cento per poter essere determinanti nel governo. Ma noi non vogliamo ridurre la costituente del PD a questa fusione fredda, perche’ noi vogliamo aprire un grande processo ad altre culture, soprattutto alla società civile, alle nuove generazioni.
Insisto su questo concetto: più che mai, in un processo di questo tipo, c’è bisogno che pesino le idee, i valori della sinistra. Ed è importante mettersi in gioco. Vedete, io vengo dalla storia di quel partito per il quale il peso di chiamarsi ‘’comunista’’ qualche volta era talmente forte, che nella pratica si poteva permettere di essere conservatore o anche moderato. Sono ben consapevole che il giorno in cui mi trovassi ad essere militante di un partito che si chiamasse soltanto ‘’democratico’’, certamente meno pesante, io personalmente sentirei il dovere di testimoniare, con assoluta maggiore coerenza, il mio essere uomo di sinistra, anche perché non ci sarebbe più la protezione del nome. In questo progetto noi vogliamo che ci sia la sinistra, con i suoi valori, con la sua storia e con le sue speranze.

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