Discorso
15 marzo 2007

Roma - Lo Scenario strategico europeo e la sicurezza dell'Italia

Testo dell'intervento al Centro Alti Studi per la Difesa


E' difficile per chiunque - ma sono convinto che il vostro seminario di questa settimana abbia contribuito ad arricchire le idee in merito - prevedere i contorni futuri dello scenario strategico europeo. E questo per una ragione molto semplice: le variabili in gioco sono multiple e le conclusioni possono essere molto diverse, a seconda del peso che attribuiamo a ciascuna di loro.

Secondo le tesi pessimistiche sul futuro dell'Europa, ad esempio, la combinazione fra trend demografici, ascesa di nuove potenze, spostamento dell'asse centrale dell'economia globale verso il Pacifico è destinata a ridurre drasticamente il peso relativo del Vecchio Continente negli equilibri internazionali. Ma esistono anche le tesi opposte, secondo cui l'Europa è destinata ad affermarsi come uno degli attori essenziali di un sistema di equilibri che sarà inevitabilmente multipolare. A condizione, naturalmente, che la ripresa economica si consolidi, che l'Europa si metta in grado di decidere e quindi di agire, e che stabilisca legami funzionanti con ciascuno degli altri poli del sistema. Come dirò meglio poi, sono convinto che, a queste condizioni, l'Europa possa in effetti diventare un attore importante, un attore globale. Ma lasciatemi cominciare, invece che dalle previsioni, da quello che sappiamo già, con relativa certezza.

Sappiamo con certezza tre cose:

1. Lo scenario strategico europeo è stato profondamente modificato da due fratture storiche abbastanza recenti: il crollo del Muro di Berlino, nel 1989, e il crollo delle Due Torri, nel 2001. La prima frattura, quella del 1989, ha segnato - insieme alla fine della divisione dell'Europa e della guerra fredda - la fine di un 'concetto' della sicurezza con cui avevamo convissuto per oltre quarant'anni: la sicurezza 'statica' basata sull'equilibrio bipolare, la deterrenza e la priorità del teatro europeo. Dal 1989 in poi, il concetto di sicurezza è diventato dinamico ed appare fondamentalmente legato, più che alla difesa del proprio territorio, alla capacità di proiezione delle forze. La seconda data, il 2001, ci ha fatto tragicamente scoprire un tipo 'nuovo' di minaccia, insieme al carattere globale della nostra vulnerabilità. Il contesto attuale è in effetti caratterizzato da una proliferazione delle minacce, sia dal punto di vista geografico (le minacce sono disperse in più teatri), che quanto a natura della minaccia . Quest'ultima non è più necessariamente militare, ma è multidimensionale, non proviene necessariamente da attori statali, ma anche da attori non statali o sub-statali. Non deriva solo da Stati forti ma anche e molto più spesso da Stati falliti. E assume dimensioni molteplici: terrorismo, proliferazione nucleare, criminalità transnazionale, narcotraffico globale, immigrazione clandestina. E' inoltre una minaccia 'dinamica', si diffonde e si sviluppa con estrema rapidità grazie alla globalizzazione e all'interdipendenza.

2. Una seconda certezza è che il sistema internazionale, nella sua struttura, ha basi meno solide e regole meno chiaramente definite di quanto non fosse fino al 1989. Dalla struttura bipolare, siamo passati a quella unipolare che si è però rivelata un 'momento', anziché un' 'era'. La crisi americana in Iraq, il riemergere della Russia, forte anche della sua arma energetica, la continua ascesa di Cina ed India, la pressione di nuove potenze regionali come l'Iran indicano che la realtà del sistema internazionale è molto più complessa. Siamo di fronte a una crescente diffusione del potere, ma non ancora a un sistema coerentemente multipolare. E' un sistema con tratti anarchici e che nessun attore è davvero in grado di potere controllare o almeno condizionare in maniera determinante. Il sistema internazionale, in altri termini, non ha ancora trovato un suo assetto stabile. Gli Stati Uniti sono un 'primus inter pares', la potenza 'indispensabile', ma hanno ovvie difficoltà a gestire, da soli, le dinamiche globali e regionali. Tutto ciò - complessità e globalità della minaccia, da un lato e fluidità della struttura del sistema internazionale, dall'altro - rende la nostra sicurezza meno certa, più fragile.

3. Sappiamo infine - questa la terza certezza - che gli organismi internazionali che abbiamo ereditato dalla seconda guerra mondiale restano indispensabili per la gestione dei problemi globali. Ma vanno anche profondamente rivisti sia quanto a composizione (è giusto chiedersi se abbia ancora senso che la Cina sia esclusa dal G-8) che a regole di funzionamento (ha ancora senso il potere di veto nel Consiglio di sicurezza?). In termini più generali, il vecchio concetto di sovranità - un concetto assoluto - su cui si sono rette le relazioni fra Stati dal sistema di Westfalia in poi, appare superato nel momento in cui la gestione dei problemi globali richiede invece una reciproca interferenza. Come stabilire le regole di una limitazione condivisa e accettata di sovranità, senza generare reazioni nazionalistiche, è uno dei grandi quesiti ancora irrisolti.

Il ruolo strategico dell'Europa e le 'quattro sfide' della sicurezza.

Se queste sono, molto rapidamente, le caratteristiche attuali del contesto strategico, proviamo adesso a chiederci quale ruolo possa e debba esercitare l'Europa e quali siano le priorità dell'Italia.

Mi pare che si possa rispondere in maniera chiara a queste due domande.

Una delle conseguenze principali dei cambiamenti internazionali che ho prima sintetizzato, è che un numero crescente di attori è chiamato ad assumersi responsabilità ed impegni sempre più diretti nella gestione della sicurezza. Gli 'stakeholders' della sicurezza non sono più due o addirittura uno solo. Ciò ha creato un ruolo nuovo anche per l'Europa. Esiste sul piano internazionale una crescente 'domanda' di Europa, maggiore di quanta ve ne fosse durante la guerra fredda e durante il momento 'unipolare'. L'Europa è chiamata a produrre stabilità e sicurezza, mentre in passato poteva permettersi prevalentemente di consumarla. E si tratta di una domanda diffusa, che proviene non solo dal nostro vicinato, ad Est e a Sud, ma anche dalle aree di crisi - il Medio Oriente, l'Africa - , e dal nostro principale alleato, gli Stati Uniti, che ha scoperto di avere bisogno di un partner efficace nella gestione delle crisi internazionali.

La sfida, per l'Europa, consiste nel riuscire a rispondere a questa domanda con un'adeguata 'offerta' di sicurezza. E' una sfida complessa, che richiede idee, risorse, strumenti - e una chiara volontà politica comune. Abbiamo realizzato dei progressi, anche se insufficienti, in questo senso. L'adozione di una strategia europea per la sicurezza (2003) ha proposto per la prima volta una “dottrina” europea, che definisce le priorità comuni e combina, guardando agli strumenti per rispondervi, aspetti militari, civili, di ricostruzione economica. La Strategia europea non è nata nel vuoto. E' stata il risultato degli sviluppi della PESD, dal 1999 in poi, e del numero crescente di missioni di sicurezza civili e militari dell'Unione nelle diverse aree di crisi, dai Balcani, all'Africa, all'Afghanistan. Sedici missioni dal 2003 ad oggi. Nel 2006, l'UE ha condotto dieci diverse operazioni in altrettante aree di crisi, impiegando circa diecimila uomini. Anche se si è trattato spesso di missioni di portata limitata, il dato di fatto è che l'UE è ormai un 'attore di sicurezza'. Ma come dirò poi, molto resta ancora da fare, a partire dall'adozione di riforme istituzionali che sono fondamentali per dotare l'Europa di reali capacità di decisione e azione sul piano esterno.

Esiste - e questo è l'altro punto che vorrei sottolineare - uno stretto rapporto tra la sicurezza europea e la nostra sicurezza nazionale. Per una media potenza come l'Italia diventa cruciale disporre, in un contesto internazionale cosi' fluido ed incerto, di punti di riferimento 'certi'. L' Unione Europea e la NATO costituiscono per noi un punto di riferimento certo. Sicurezza nazionale e sicurezza europea, per l'Italia, sono concetti che di fatto coincidono e si rafforzano a vicenda. E la situazione migliore possibile, per l'Italia, è quando la priorità europea e i legami atlantici si potenziano a vicenda, per dare forza al sistema delle Nazioni Unite. E ciò che definiamo 'multilateralismo efficace'. E' all'interno di questa ottica strategica - europea, euro-atlantica e multilaterale - che vanno collocate le nostre priorità di sicurezza.

Vorrei adesso esaminare brevemente quattro sfide prioritarie alla sicurezza nell'attuale scenario strategico: la stabilizzazione del nostro 'estero vicino' (i Balcani e il Mediterraneo); il Medio Oriente allargato; il terrorismo globale e la gestione delle crisi ad esso connesse (Afghanistan); ed infine il rapporto complessivo dell'Italia e dell'Europa con il nostro grande vicino, la Russia, che chiama in causa anche la dimensione energetica della nostra sicurezza.

Sicurezza ed 'estero vicino'.

La stabilità dei paesi del Sud-Est europeo e della sponda Sud del Mediterraneo è cruciale per l'Italia e l'Europa. Conflitti regionali e 'stati deboli' in queste due regioni potrebbero attivare minacce - immigrazione clandestina, rifugiati, criminalità organizzata - che avrebbero immediati e diretti riflessi sulla nostra sicurezza nazionale. Per quanto riguarda in particolare i Balcani Occidentali la nostra priorità è chiara. Vogliamo che questi paesi nel giro di un certo numero di anni, e quando avranno completato le riforme necessarie, vengano integrati a pieno titolo nella famiglia europea ed atlantica. Si tratta di creare le condizioni per realizzare questo progetto. Due condizioni sono indispensabili. La prima è la riforma delle istituzioni europee attraverso il recupero del Trattato Costituzionale. E' un tema sul quale mi sono soffermato più volte e su cui non è necessario qui dilungarsi. E' ovvio a tutti: se non razionalizziamo e semplifichiamo i processi decisionali dell'UE, ulteriori allargamenti finirebbero per paralizzare la macchina decisionale dell'UE. Non sarebbe nell'interesse degli stessi stati aspiranti entrare a far parte di un club che poi non è in grado di operare in concreto. Una seconda condizione, guardando al Sud-est europeo, è di riuscire a risolvere in modo non conflittuale la questione dello status finale del Kossovo. Il Kossovo è l'ultimo capitolo della 'vecchia agenda' balcanica degli anni Novanta, dominata dai conflitti e dalle incompatibilità etno-nazionali. Non riusciremo a concentrarci sulla 'nuova agenda' - che è quella dell'integrazione dei Balcani in Europa - se non chiuderemo definitivamente anche quest'ultimo capitolo. La soluzione del Kossovo può aiutare anche l'avvicinamento della Serbia all'Unione Europea. L'Italia crede nel ruolo centrale che questo paese, una volta liberatosi dei fardelli del passato, può avere nella stabilizzazione e nel rilancio economico dell'area balcanica. Sosteniamo, per le stesse ragioni, anche la piena adesione dei paesi balcanici alla NATO, per la quale il vertice dell'Alleanza dell'anno prossimo dovrà dare un importante segnale - dopo le scelte già compiute a Riga. Ritengo meriti di essere sottolineato che l'interazione e la divisione di compiti tra NATO e Unione Europea, nel consolidamento della sicurezza nei Balcani, è stata finora una delle storie di successo nella gestione delle crisi. Il futuro vede una graduale “devoluzione” delle responsabilità all'Unione europea. Basti pensare al fatto che l'UE ha ereditato in Bosnia i compiti di sicurezza prima affidati alla NATO, o alla prossima missione PESD di polizia e giustizia in Kossovo. E in sé un segno del successo di quest'azione comune il fatto che in poco più di dieci anni siamo riusciti a portare il numero delle truppe in Bosnia da 60.000 a 3.000.

Lasciatemi fare un'ultima considerazione. Se guardiamo all'arco della insicurezza a Sud-est dell'Europa, rientra nei nostri interessi anche una futura adesione della Turchia all'UE. Gli ostacoli sono molti: dalle variabili interne di un paese che deve ancora completare le riforme necessarie per entrare in Europa, al nodo di Cipro, alla istintiva ostilità di una parte importante dell'opinione pubblica europea, sfruttata sul piano politico dalle leadership contrarie a ulteriori allargamenti del club europeo. Ci vorranno tutte le condizioni e ci vorrà tempo. Ma non c'è dubbio, io credo, che l'ingresso della Turchia in Europa rafforzerebbe la sicurezza europea e rafforzerebbe insieme la capacità di azione dell'Europa in un'area per noi strategica - quella mediorientale.

Le sfide in Medio Oriente.

Geograficamente il Medio Oriente è il nostro 'estero di mezzo' , l'area inclusa tra l'estero 'vicino' e l'estero 'lontano'. Ma la priorità di quest'area è legata alla politica e alla sicurezza , ancor più che alla geografia. E' qui che si concentrano oggi più che altrove le principali sfide alla sicurezza: conflitti territoriali irrisolti, proliferazione nucleare, terrorismo ed estremismi, le nuove tensioni nazional-religiose tra sunniti e sciiti, il diffuso risentimento anti-occidentale. Senza un Medio Oriente stabile, è evidente, la nostra sicurezza resterà fragile. Gli eventi degli ultimi tempi hanno confermato che possiamo arrivare a risolvere i problemi complessi di quest'area solo attraverso un approccio sofisticato e multidimensionale alla sicurezza, che include una pluralità di strumenti: non solo lo strumento militare, ma anche la diplomazia attiva e paziente per incoraggiare il dialogo tra le parti del conflitto, gli aiuti allo sviluppo e la ricostruzione delle istituzioni (institution-building). L'Europa è oggi in grado di offrire un suo contributo importante alla stabilizzazione di quest'area. L'Unione Europea, ed in particolare l'Italia, hanno in questi ultimi anni aumentato il loro ruolo, sia in campo militare (Unifil, Rafah) che politico.

Nel Medio Oriente odierno abbiamo di fronte numerosi problemi, tutti in qualche modo legati tra loro : il conflitto in Iraq, l'ascesa dell'Iran e la minaccia nucleare, la questione siriana, il Libano. Ma la soluzione del problema israelo-palestinese resta centrale. Senza di essa é impossibile immaginare di poter stabilizzare l'area. Israele non raggiungerà mai la sicurezza a cui ha pieno diritto se i palestinesi non avranno anch'essi un loro stato che tuttavia, per essere credibile e funzionante, deve a sua volta accettare il diritto di Israele ad esistere entro confini sicuri.

Il conflitto libanese ha dato del resto indicazioni importanti sulle dinamiche mediorientali a più di tre anni dall'intervento in Iraq; primo, Israele ha capito che la propria sicurezza può essere difesa meglio da una garanzia internazionale - omai anche europea - piuttosto che attraverso il ricorso esclusivo a risposte militari nazionali; secondo, la questione palestinese ha assunto una nuova dimensione strategica, dal momento che la vecchia agenda nazionalista è ormai utilizzata strumentalmente da forze fondamentaliste; terzo, il vecchio equilibrio nel Golfo, per decenni fondato sul reciproco contenimento fra Iraq e Iran, è stato scardinato dall'intervento in Iraq, che di fatto ha finito per consolidare le ambizioni regionali di Teheran; quarto, i regimi arabi cosiddetti moderati cominciano a temere, di fronte all'ascesa del radicalismo sciita, per la propria stessa sopravvivenza. E sono dunque interessati, quanto noi, a due obiettivi: impedire che movimenti nazionalisti e movimenti islamici radicali si saldino; contenere l'ascesa regionale dell'Iran, disegnando un nuovo assetto di sicurezza. Non si capirebbe il recente attivismo dell'Arabia Saudita senza tenere conto di questo dato. Per la prima volta da molti anni, una convergenza fra paesi arabi moderati e Israele appare pensabile.

Ciò conduce a una conclusione ulteriore: se vogliamo stabilizzare il Medio Oriente e insieme favorirne un'evoluzione democratica, dobbiamo sottrarre alle forze fondamentaliste il grande pretesto della questione palestinese. In questi anni si è sostenuto che la questione palestinese non fosse centrale. La tesi della diplomazia italiana, così come di larga parte della diplomazia europea, è opposta: considerate le tendenze in atto, risolvere la questione palestinese diventa anzi più urgente. E' per questa ragione che l'Europa deve riuscire a sostenere gli spiragli che sono stati aperti dal dialogo fra il premier israeliano Olmert e il presidente Abu Mazen, appoggiando la nascita di un governo di unità nazionale palestinese che sia in grado di rispettare le condizioni definite dal Quartetto.

Parallelamente, dobbiamo puntare a creare un contesto regionale più favorevole, attraverso la soluzione della crisi politica interna libanese, la normalizzazione dei rapporti Israele-Libano e un approccio efficace alla sfida iraniana e a quella siriana. La diplomazia italiana, così come quella europea, sta applicando le sanzioni all'Iran decise dal Consiglio di sicurezza. Ma ritiene anche che, per modificare i comportamenti di due dei principali attori regionali, vada insieme tentata la strada di un coinvolgimento condizionato. Siamo quindi più che favorevoli allo sviluppo del tavolo regionale che si è appena tenuto a Baghdad e che tornerà a riconvocarsi ai primi di aprile a Istanbul, con la partecipazione dell'Italia.

Se la situazione irachena verrà gradualmente stabilizzata, attraverso una iniziativa regionale, esisteranno condizioni migliori per una svolta virtuosa nella regione. La convinzione dell'Italia è di potere esercitare un ruolo utile, grazie anche ai suoi rapporti con le parti. In altri termini: siamo persuasi di potere contribuire a garantire la sicurezza di Israele senza sacrificare, ma anzi utilizzando i tradizionali rapporti di amicizia con la parte moderata del mondo arabo e palestinese. L'Italia ha le ambizioni e i margini di manovra che si possono immaginare: le ambizioni di uno dei principali paesi europei particolarmente impegnato nel Mediterraneo e con relazioni diplomatiche diversificate; i margini di manovra di un paese che non avrà grandi strumenti di potenza, ma che ha certamente una expertise consolidata e apprezzata nel campo della gestione delle crisi e delle operazioni di peace-keeping. Come ovvio, lo schieramento di forze di peace-keeping, anche se a volte indispensabile, non sostituisce la strategia di politica estera; serve a rafforzarla. E nessuna politica estera nazionale avrà vera possibilità di incidenza senza iscriversi in un'azione collettiva europea.

Sicurezza ed 'estero lontano'.

Come si sostiene nel concetto di sicurezza europeo 'in un'epoca di globalizzazione, le minacce lontane devono preoccuparci non meno di quelle vicine'. E' una definizione particolarmente vera per ciò che riguarda l' Afghanistan. Molti faticano ancora a capire l'importanza di questo paese così lontano dai nostri confini, ma tuttavia cosi delicato per la nostra sicurezza.

Dimenticano che è da lì che Al Qaeda ha lanciato la sfida del terrorismo globale, dimenticano che è da qual paese e dai circuiti ad esso connessi del narcoraffico che proviene il 90% dell'eroina consumata in Europa, dimenticano, infine, che l'Afghanistan è al centro di una regione particolarmente sensibile per la sicurezza internazionale, dove coesistono, tra rivalità territoriali e geo-politiche irrisolte, tre stati nucleari (India, Pakistan, Cina). I motivi per mantenere saldo il nostro impegno miliare e civile in quel paese sono quindi forti. Ma l'Afghanistan dimostra anche che la sicurezza non si conquista solo con le armi e che c'è bisogno di un approccio più sofisticato sul piano politico e civile per estirpare le radici della violenza in un paese fragile e dilaniato da oltre trent'anni di conflitti interni.

E' vero: non c'è sviluppo economico e civile senza sicurezza. Ma è anche vero che non può esservi sicurezza senza sviluppo. Per questo motivo, il nostro governo si è fatto portavoce di una iniziativa politica che possa responsabilizzare maggiormente anche i paesi vicini nella stabilizzazione dell'Afghanistan, aiutando a creare un contesto che permetta il successo dei programmi di sviluppo economico e ricostruzione civile. Indicherò io stesso i termini di questa nostra iniziativa - una conferenza internazionale che permetta di affrontare con i paesi vicini i nodi della stabilità dell'Aghanistan -nei prossimi giorni a New York, in occasione del dibattito sul rinnovo della missione civile dell'ONU(UNAMA). In maggio si terrà intanto a Roma un'importante Conferenza per coordinare le strategie di riforma nel settore della giustizia e dello stato di diritto. Giustizia e sicurezza sono anch'esse strettamente legate tra loro. La Conferenza sulla giustizia sarà patrocinata, insieme, da Italia, governo Afgano, Nazioni Unite.

La situazione di sicurezza in Afghanistan resta, come sappiamo, difficile. L'anno in corso rischia di approfondire l'inversione di tendenza negativa già iniziata nel 2006. La missione ISAF resta assolutamente fondamentale per circoscrivere il fenomeno talebano. Su questo credo siamo tutti d'accordo. Ma è anche vero che sarebbe irrealistico, in questa fase così delicata, pensare di potere addossare le responsabilità di sicurezza solo o quasi interamente sulla NATO. Rischieremmo di fallire nella nostra missione e di mettere a repentaglio la credibilità della stessa Alleanza. C'è bisogno di una strategia politica più efficace, di maggiori sforzi nel campo della ricostruzione civile e di una maggiore co- responsabilizzazione degli attori regionali.

La Russia e la sfida energetica.

Come prima accennavo, gli allargamenti dell'Unione hanno riunificato il nostro continente e definito un nuovo, più ampio spazio di stabilità e sicurezza. E' questo forse il principale successo della politica di sicurezza europea degli ultimi settant'anni, dalla fine del secondo confitto mondiale ad oggi. Dobbiamo però evitare che il nuovo spazio europeo si definisca 'contro' il nostro grande vicino, la Russia o venga comunque percepito da quest'ultima come tale. Significherebbe riproporre - spostati più ad est - quei muri e linee divisorie che hanno diviso artificialmente l'Europa negli oltre quarant'anni di guerra fredda. Insomma, il rapporto tra Europa, Unione Europea e NATO da un lato, e Russia dall'altro, resta fondamentale per la nostra sicurezza. E ciò non perché possa essere immaginabile un nuovo confronto tra Russia ed Occidente. Il problema russo si pone oggi in termini diversi : di fronte a minacce e problemi comuni - dal terrorismo alla proliferazione nucleare - che richiedono risposte e soluzioni comuni, la cooperazione positiva tra Europa e Russia, Occidente e Russia è assolutamente fondamentale. Una Russia risentita nei nostri confronti, ostacolerebbe tale cooperazione e renderebbe più difficile la soluzione di problemi delicati, dal Kossovo all'Iran. Il multilateralismo efficace in chiave ONU ne risulterebbe seriamente danneggiato. E' anche di questo che abbiamo discusso a Bari, in un vertice italo-russo che ha gettato le basi di una cooperazione politica ed economica molto più solida fra i nostri paesi.

Vi rientra la dimensione energetica della nostra sicurezza. La metà del consumo energetico europeo dipende oggi dalle importazioni, tale percentuale aumenterà nelle previsioni fino al 70% nel 2030. E come noto, la Russia è tra i principali nostri fornitori di energia.

Credo che alla base di tutto vi sia ancora oggi, tra Europa e Russia, un problema di insufficiente fiducia reciproca, un 'trust deficit' che interferisce nel nostro rapporto e che va risolto con un nuovo sforzo da ambo le parti. La Russia non può sorprendersi se la crisi energetica russo-ucraina ed alcune misure limitative delle libertà democratiche e dei diritti umani suscitano apprensione e diffidenza in Europa: deve capire che interessi e valori sono, insieme, parte integrante del nostro patrimonio politico. Da parte nostra dobbiamo tuttavia sapere essere attenti alle sensibilità russe, evitando che i nuovi progetti di sicurezza oggi in discussione (fra cui i sistemi di difesa anti-missile) o gli eventuali ulteriori allargamenti delle nostre istituzioni, facciano rinascere vecchi e negativi sentimenti di 'accerchiamento'. Tra vicini non più nemici, ma partners, anche se non propriamente alleati, le preoccupazioni reciproche di sicurezza vanno pienamente condivise attraverso il dialogo aperto e trasparente: per questo abbiamo proposto, con la Germania, che il problema dei sistemi di difesa anti-missile venga discusso nel Consiglio Nato-Russia. Una Russia insicura renderebbe anche noi meno sicuri. Abbiamo invece bisogno di una Russia fiduciosa ed aperta alla collaborazione in tutti i settori. E abbiamo bisogno di una politica europea unitaria nei riguardi della Russia. Vi sono in Europa troppe opinioni discordanti per quanto riguarda il rapporto con la Russia. Se ci dividiamo su un tema così delicato, c'è da chiedersi se la riunificazione dell'Europa realizzata in questi anni non sia stato uno sforzo illusorio.

Conclusioni. La 'governance' della sicurezza e il ruolo dell'Europa.

Lasciatemi svolgere alcune considerazioni finali. Nell'attuale e complesso scenario strategico la sicurezza è diventato un bene 'scarso': vi è una domanda crescente di sicurezza che richiede, per essere soddisfatta, una molteplicità di strumenti ed il contributo di un numero più ampio di attori, stati e istituzioni. Non sono solo gli stati nazionali ad essere, da soli, inadeguati di fronte alle nuove minacce. Neanche le singole istituzioni, la NATO, o l'Unione Europea, o l'ONU possono, da sole, risolvere i complessi problemi della sicurezza. Una prima conclusione alla quale arrivare è quindi che oggi l'unica sicurezza possibile è una sicurezza condivisa. Bisogna co-responsabilizzare il maggior numero di attori statali, di istituzioni internazionali e regionali per risolvere i problemi della sicurezza. Lo verifichiamo quotidianamente, a partire dall'Afghanistan. La 'governance' della sicurezza, per essere efficace, deve essere il più possibile inclusiva.

La seconda considerazione è che nell'attuale contesto strategico, dove la minaccia è molteplice e non necessariamente o esclusivamente militare, l'Europa e l'Unione Europea hanno un ruolo chiave da svolgere. L'Europa non può certamente fare tutto, né può essere dappertutto. Ma il suo contributo è diventato più importante, e in certi casi determinante. L'Europa deve sapersi proporre anche come 'attore normativo' per migliorare e rafforzare i principi della 'governance' della sicurezza. Penso al contributo che l'Europa, se riuscisse a parlare con una voce sola, potrebbe dare all'interno delle Nazioni Unite. Ed è proprio in tale ottica che l'Italia sta attualmente cercando di utilizzare il più possibile in chiave europea il proprio seggio nel Consiglio di sicurezza. Penso anche al problema della proliferazione nucleare, dove l'Europa dovrebbe proporre proposte credibili di riforma del TNP, per tutelare l'importanza di un Trattato messo da più parti in discussione, per arrestare i rischi di diffusione delle armi nucleari e insieme per incentivare processi di riduzione delle armi nucleari anche da parte delle grandi potenze.

La strategia ambientale approvata all'ultimo vertice UE dimostra che l'Europa, quando vuole, riesce ad assumere un ruolo di leadership e di esempio per migliorare i principi della governance internazionale.

La terza riflessione riguarda gli strumenti dell'azione europea. E' evidente che l'Europa riesce ad essere efficace solo quando agisce in maniera unitaria e con una strategia ben chiara. Ma è altrettanto evidente che gli strumenti della azione esterna dell'Unione Europea non sono sufficienti

Per potere offrire un serio contributo alla governance della sicurezza, l'Europa deve darsi strumenti adeguati ai propri obiettivi. Anzitutto sul piano istituzionale. Le riforme proposte dal Trattato costituzionale (la Presidenza stabile, la creazione del Ministro degli esteri europeo, la semplificazione dei meccanismi decisionali e così via) non sono più opzioni, ma una necessità. Ed abbiamo anche, da risolvere, il problema di come adeguare le nostre capacità civili e militari (Headline Goals) per essere efficaci nel gestire crisi sempre più complesse. E' un dato noto che le spese militari nei paesi europei non sono sufficienti. Dovremmo spendere di più, ma anche meglio, soprattutto destinare più risorse alla ricerca e all'ammodernamento dell'equipaggiamento. I vincoli di spesa dei nostri governi sono solo parte del problema. C'è anche un problema di cultura politica, di percezioni delle opinioni pubbliche europee. I sondaggi indicano ad esempio che i nostri cittadini da un lato vorrebbero un maggior protagonismo dell'Europa in campo internazionale, inclusa la sicurezza; dall'altro, tuttavia, non sono disposti a pagare in termini di maggiori spese militari per questo ruolo più profilato. Questi vincoli interni dovrebbero essere un forte incentivo per creare più strette sinergie tra gli strumenti militari nazionali e realizzare in tal modo necessarie economie di scala.

Vorrei concludere con un'osservazione sull'Italia: sul problema della nostra cultura strategica. Il nostro paese vive una sorta di paradosso. Da un lato siamo tra i maggiori contribuenti di truppe nelle missioni di pace: abbiamo per diversi anni dispiegato all'estero circa diecimila soldati nelle varie operazioni, la cui capacità di azione è internazionalmente riconosciuta e apprezzata. D'altra parte, abbiamo ancora difficoltà, a livello di opinione pubblica ed in alcuni settori della nostra classe politica, ad accettare i rischi di questo nostro impegno militare. E' evidente che le missioni di stabilizzazione presentano dei rischi per i nostri soldati, si svolgono in contesti fragili e per definizione mai pienamente stabilizzati. Ma sono una parte integrante di azioni di politica estera che altrimenti l'Italia non sarebbe in grado di svolgere; e sono parte integrante della nostra sicurezza, nella dimensione globale che ho cercato di descrivere. Sarebbe giusto esserne apertamente consapevoli; non certo per rinunciare ai nostri impegni internazionali ma per migliorarne la gestione politica e per fare sentire alle forze impegnate all'estero il consenso solidale ed unanime del paese.

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