Intervista
1 novembre 2007

"Il governo sta bene, la coalizione sta male"

Intervista a L'Unità a cura di Simone Collini
tratta dalla videochat con il direttore Antonio Padellaro


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I meriti del governo e i difetti della coalizione, gli obiettivi del Partito democratico, le riforme necessarie al Paese e le delicate questioni di politica estera. In questa videochat con l’Unità Massimo D’Alema risponde alle domande dei lettori e del direttore Antonio Padellaro.

Cominciamo parlando un pò di noi, perché molti messaggi arrivati si interrogano sul futuro de l’Unità. Si parla della famiglia Angelucci come nuova acquirente e molti esprimono timore perché è proprietaria di altri due giornali: del Riformista, ma soprattutto di Libero, che è molto lontano politicamente da l’Unità. In molti ti chiedono, anche e soprattutto come ex direttore di questo giornale, se tu sei preoccupato per il futuro de l’Unità.

«L’Unità è ormai da tempo di proprietà di un gruppo di imprenditori privati. E nel momento in cui questa proprietà può cambiare è giusto preoccuparsi che questo cambio corrisponda a delle garanzie di indipendenza del giornale ma anche a un progetto industriale di sviluppo, di investimenti. Anche di garanzia dell’occupazione certo, ma soprattutto di garanzia della qualità di un giornale la cui voce è importante nel panorama editoriale italiano. Quindi è giusto essere preoccupati ed è giusto che, come si fa in questi casi, le organizzazioni sindacali contrattino, chiedano precise garanzie e anche di conoscere i piani industriali. L’idea che l’Unità possa essere presa e trasformata in un giornale di destra è troppo sciocca per attribuirla a chiunque. Chi vuole investire nell’Unità evidentemente è consapevole di cosa rappresenta. Gli Angelucci sono degli editori, non mi pare che il Riformista abbia la linea di Libero. Soprattutto mi pare che siano due giornali, al di là del giudizio su Libero - anche se io ho sempre avuto una certa stima professionale verso Feltri, che è sicuramente un campione della destra ma un cavallo di razza, un uomo che ha una sua indipendenza che hanno uno spiccato profilo proprio e una piena indipendenza. Bisogna chiedere e ottenere garanzie, certo. La questione riguarda tutti quelli che a l’Unità vogliono bene. Fortunatamente si tratta di una platea più vasta degli ex direttori».

Osservazioni che condivido. Aggiungerei che la migliore garanzia per il futuro de l’Unità sono i giornalisti e chi dirige il giornale. Le proprietà cambiano, è normale in un’economia di mercato, le teste no.

«Le proprietà sono cambiate nel passato, non è cambiato il profilo del giornale. La forza di questo giornale sta nei suoi giornalisti e anche nei suoi lettori. Nel senso che il profilo del giornale è dato anche da un pubblico che non è soltanto un pubblico: è un mondo di lettori che hanno un legame politico, affettivo, con il giornale. Chiunque pensasse di distruggere questa comunità farebbe innanzitutto un investimento sbagliato. Quindi io non credo che l’autonomia de l’Unità sia in questo momento minacciata. Naturalmente questo non significa che non si debba essere vigilanti. E soprattutto che non si debbano esercitare quei diritti sindacali ad ottenere trasparenza di progetti, d’intenzioni, che sono essenziali a tutela della libertà dell’informazione».

Sabato l’Unità ha intervistato Prodi, il quale si è mostrato abbastanza ottimista sulla tenuta dei governo. Solo che questo ottimismo viene ogni giorno scalfito da notizie che vanno in direzione contraria, come il no di Udeur e di Di Pietro che ha affossato, speriamo non definitivamente, la commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti del G8.

«Il governo ha operato bene nel corso di questo anno e mezzo di lavoro, abbiamo ottenuto risultati importanti in tanti campi. Nello stesso tempo questo lavoro positivo è stato oscurato da una perenne litigiosità politica. Direi che il governo sta bene, la coalizione sta male. Una malattia, quella di portare in primo piano le diversità e l’accavallarsi delle dichiarazioni, che riguarda la politica italiana ma che investe il centrosinistra in modo particolarmente evidente. La vicenda specifica del G8 è particolarmente dolorosa perché tutti ricordiamo quanto avvenuto a Genova, il turbamento che ha creato nell’opinione pubblica. Io mi alzai a dirlo subito in Parlamento. Mi ricordo che ci furono reazioni aspramente polemiche, ma purtroppo quella percezione immediata che li ci fossero stati atti di violenza intollerabili era esatta. E ora dispiace che il Parlamento non sia stato messo nelle condizioni di svolgere una propria indagine su questi fatti. Un’indagine che non era volta a criminalizzare le forze dell’ordine, semmai ad accertare responsabilità precise. Si tratta di fare in modo che episodi di questo genere non possano ripetersi. E lo dico a tutela delle forze dell’ordine, della loro credibilità e del ruolo essenziale che svolgono. C’è un’inchiesta della magistratura, che sta completando il proprio lavoro. La verità dei fatti sarà accertata dai magistrati. Però qualche volta la politica, in questo caso il Parlamento, deve assumersi le proprie responsabilità, non soltanto delegarle alla magistratura».

Prodi ha detto che i problemi maggiori del governo vengono sì dalla litigiosità ma anche da pressioni di lobby esterne.

«Quando ci si sforza di rinnovare il Paese ci si scontra sempre con interessi costituiti contrari. Da noi le resistenze conservatrici sono molto forti, tutti vorrebbero fare le riforme che toccano gli altri e mai invece quelle che toccano interessi propri. E questo riguarda in particolare un certo mondo finanziario, industriale, abituato ad avere governi di servizio, diciamo. Questo è un governo che cerca di servire il Paese. E quindi qualche volta può risultare sgradito. C’è anche una certa ingenerosità nel non riconoscere ciò che il governo fa di buono. L’altro giorno ho insediato un gruppo di riflessione strategica sulla politica estera italiana. C’era un rappresentante di Confindustria, bravo, intelligente, che ha detto: non dovete sottovalutare l’azione che il governo sta compiendo, che ha portato all’estero in questo anno e mezzo 6.500 imprese italiane, un lavoro straordinario. Di questo, gli ho detto, informi il presidente della sua associazione. C’è libertà di critica in questo Paese, però c’è anche libertà di apprezzamento. Se qualche volta tra una critica e l’altra si trova il modo di dire le cose apprezzabili, credo che si renderebbero anche più credili le critiche, meno preconcette di quanto non appaiano oggi».

Abbiamo ricevuto molti messaggi in cui viene chiesto quali debbano essere, secondo te, gli obiettivi del Partito democratico a medio e a lungo termine.

«Adesso comincia la fase più appassionante e impegnativa, costruire un nuovo grande partito, che può rappresentare tra il 35 e il 40% della società italiana e che che è visto come una grande novità, un motivo di speranza. Costruire un partito non è semplice, ed è una grande impresa di carattere culturale. Si tratta di dare un fondamento nuovo ad una scelta di tipo progressista, innovatrice, alle ragioni di un impegno per cambiare la società che oggi ha bisogno di nuove motivazioni. Questioni che chiedono una sinistra nuova, in grado di non strappare le radici ma anche di liberarsi di certi schemi ideologici del passato. Dobbiamo anche inventare forme nuove di partecipazione, di democrazia. Quelle stesse persone che hanno concorso con il loro voto a fondare il Pd oggi chiedono dove possono andare per dare un contributo, per fare in modo che il loro impegno non si limiti a un solo giorno, pure appassionante. E infatti hanno votato tre milioni e mezzo di persone. Adesso magari non tutti, ma almeno una parte di loro dice: domani dove vado?».

Dove mi iscrivo?

«Io cerco disperatamente di sfuggire alle polemiche. Non voglio neanche pronunciare la parola iscrizione, sennò poi si dirà chissà cosa. Quello che serve è un luogo dove andare, se voglio partecipare alla vita politica, se voglio dire la mia. C’è la rete, benissimo. Ma la rete è per alcuni, non è per tutti. C’è anche gente che vuole poter toccare il proprio interlocutore. La politica è un fatto fisico. Il Pd deve dare queste risposte. Nel frattempo deve sostenere il governo, come ha detto con molta chiarezza e forza Walter Veltroni, deve aiutare il governo a lavorare con efficacia, deve rilanciare in Parlamento l’impegno per le riforme. Penso alla legge elettorale e alla riforma costituzionale, di cui il Paese ha bisogno».

Alcuni di noi sono invecchiati nell’attesa di riforme che il paese non è riuscito a darsi. Un lettore, Vincenzo Maramieri, chiede perché si insiste sul modello elettorale tedesco.

«Intanto, sulle riforme attese. Le riforme non sono un’ora X. Non è che un giorno arrivano. Sono dei processi. Ti avvengono intorno a volte senza che te ne accorga. Questo Paese ha conosciuto un processo riformatore. Noi dall’inizio degli anni 90 abbiamo fatto una incompleta ma straordinaria riforma delle pensioni, che ha salvato il sistema previdenziale italiano e che è stata più incisiva di quella che hanno fatto finora in Germania o in Francia, al di là delle chiacchiere. Noi abbiamo salvato e rilanciato, attraverso una serie di riforme, il sistema sanitario pubblico, Che ha tanti problemi e che tuttavia offre servizi che non ha eguali anche rispetto a Paesi molto più ricchi dell’Italia e che è considerato uno dei migliori del mondo. Non da noi, dall’Organizzazione mondiale della sanità. Allora, il riformismo in questo Paese non è fatto solo di riforme attese che non vengono mai. E fatto anche di grandi riforme che hanno inciso e che hanno cambiato la vita dei cittadini. Lo dico perché questo ci deve dare anche la misura della nostra forza e quindi delle nostre responsabilità. Anche in materia di sistema politico ed elettorale, che è stato radicalmente rinnovato. Basti pensare all’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di regione. Prima i sindaci duravano sei mesi ed erano prigionieri dei partiti. Oggi possono governare le città. Questo non è avvenuto così, ma perché si è fatta una battaglia. In questo processo il tema della riforma costituzionale non è riuscito ad affrontare il nodo del governo del Paese. E si è creata persino un’evidente asimmetria tra la forza dei poteri locali e la fragilità del governo nazionale, ancora prigioniero di maggioranze confuse e litigiose».

Come si affronta questo nodo?

«Con una riforma della legge elettorale e con una conseguente riforma costituzionale. Sarebbe irresponsabile non fare questa riforma e andare alle elezioni, come vuole fare Berlusconi. A lui degli interessi del Paese, delle istituzioni, non importa niente. E in questo lui è coerente. Però noi non possiamo avere lo stesso punto di vista. Per rispondere al lettore, noi non è che possiamo farci una legge elettorale su misura, come dal sarto. Certo, se fosse possibile farlo, io da sempre sono un sostenitore della necessità del sistema uninominale a doppio turno. Però le riforme sono il frutto di un rapporto di forze reali. Oggi in parlamento sembra esservi una maggiore convergenza sul sistema tedesco. Il quale presenta dei vantaggi rispetto alla situazione attuale. Innanzitutto quello di ridurre la frammentazione intollerabile del sistema politico. Poi di restituire ai partiti il loro profilo autonomo. Noi stiamo costruendo un grande partito, ma se poi dobbiamo andare alle elezioni in un listone e non possiamo neanche presentarlo, cosa lo facciamo a fare? Il sistema tedesco consente di raggiungere gli obiettivi. Poi, naturalmente quella legge elettorale deve accompagnarsi alle conseguenti riforme, perché in Germania c’è una sola Camera legislativa, con a fianco un’assemblea delle comunità regionali. E per cacciare il capo del governo ci vuole la sfiducia costruttiva».

Un lettore, Orlando Grassivaro, chiede quando vedremo uno Stato palestinese.

«Ho sempre pensato che nel rapporto tra occidente e mondo arabo la questione israelo-palestinese è un nodo cruciale. Oggi si è fatto un passo in avanti, perché la questione è tornata al centro. Gli americani hanno pensato che il rovesciamento di Saddam Hussein avrebbe avuto un effetto positivo, ci sarebbe stato come dicono loro uno spillover, avrebbe traboccato un effetto positivo in tutta la regione. In realtà la tragedia irachena ha traboccato terrorismo e odio in tutta la regione. Oggi gli americani capiscono che un processo positivo non può che ripartire da un accordo di pace in Medio Oriente».

Dichiarazioni che vengono dall’America, e non solo, fanno temere un’escalation contro l’Iran.

«Noi condividiamo l’obiettivo della comunità internazionale di fermare i programmi iraniani di costruzione di armi nucleari. L’Iran nega, tuttavia il modo in cui ha portato avanti i programmi di arricchimento dell’uranio non è stato trasparente, ha generato forti e motivati sospetti e non c’è coerenza tra le dimensioni che ha assunto il processo di arricchimento dell’uranio e i programmi nucleari civili. Perché in Iran non ci sono reattori istallati e quindi non si capisce per quali fini tutto quell’uranio venga arricchito. Fino a questo momento non siamo riusciti a innescare il negoziato. Ci stiamo lavorando. Io resto convinto che è possibile una soluzione politica. Non mi pare utile agitare lo spettro di una rapida escalation militare, che rischierebbe di creare più drammi e sconvolgimenti che non soluzioni. La guerra per le armi di distruzione di massa di Saddam abbiamo già visto quali conseguenze ha prodotto».

Tra un anno si vota negli Stati Uniti; tra Obama e Hillary Clinton, hai una preferenza?

«Ho da sempre una simpatia e anche un rapporto di collaborazione con la Clinton foundation, la famiglia Clinton, in particolare con Bill Clinton, che è stato un grande presidente e che considero una delle personalità politiche più forti e lungimiranti del mondo americano. Da questo punto di vista sarei portato a simpatizzare per i Clinton. C’è un mio lontano cugino mezzo irlandese che vive a New York, un intellettuale, che ha simpatie più radicali».

Il presidente boliviano Morales ieri a Roma ha detto che l’incontro più importante che ha avuto è stato con Francesco Totti.

«Non posso dargli torto... Oggi in Bolivia c’è al potere il movimento indio, che rappresentano la maggioranza della popolazione. Abbiamo parlato, gli abbiamo dato qualche consiglio su come conciliare questo riscatto nazionale con una politica di sviluppo, di attrazione di investimenti»

Anche il legame con Chavez.

«C’è una differenza, se mi consenti, genetica: Chavez è un militare, Morales è un sindacalista dei lavoratori indio. Io sono un uomo di sinistra, verso un sindacalista che ha dedicato tutta la sua vita al riscatto dei lavoratori indigeni ho simpatia. Verso un militare al potere politico una qualche diffidenza la mantengo. E comunque poi la sua simpatia per Totti rafforza il legame e lo rende per parte mia indistruttibile».

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