Discorso
24 marzo 2007

Roma - Convegno "Cinquant’anni d’Europa: Europa anno zero?"<br>

In occasione del 50° anniversario della firma dei Trattati di Roma, promosso dalla Fondazione Alcide De Gasperi


Testo dell'intervento

Ringrazio la Fondazione De Gasperi e Giulio Andreotti per avermi invitato a partecipare a questo convegno di grandissimo rilievo e spessore, animato, come già abbiamo potuto ascoltare, da una forte passione europeista.
Credo che ci sia bisogno di una coraggiosa riflessione e, appunto, di una grande passione europeista, alla vigilia di decisioni che saranno molto importanti per l’avvenire dell’Europa. Mi è sembrato giusto e stimolante, forse anche positivamente provocatorio, intitolare questo convegno, nel 50° anniversario dei Trattati di Roma, con l’interrogativo se l’Europa sia all’“anno zero”. Un interrogativo che mostra da subito l’intento non retoricamente celebrativo di questa discussione, ma propone un approccio problematico, critico, volto ad analizzare in modo approfondito gli elementi incompiuti e a restituire slancio al progetto europeo.
Certo, a questo scopo non è inutile volgere anche lo sguardo al passato. In fondo, tra la paura e la speranza, di cui ci ha anche parlato Geremek, credo che una grande comunità di persone, di donne e di uomini, com’è l’Europa, possa essere spinta a compiere nuovi passi sulla via dell’integrazione, anche da un bilancio onesto dei suoi successi. E penso che l’idea della politica come acquisizione graduale, come costruzione paziente con il coinvolgimento dei cittadini, sia la condizione per trovare la forza e la determinazione nell’andare avanti.
Per cinquant’anni, l’Europa è stata un grande successo e la spinta fondamentale all’unità è venuta dalle ragioni interne al nostro continente. L’intuizione straordinaria degli uomini che hanno dato inizio a questa grande avventura, l’Europa unita, è stata quella di far sì che lungo quei confini, dove erano nate due guerre mondiali, si costruisse la pace, insieme ad una collaborazione che non conoscesse possibili ritorni indietro. Non vi è nessun’altra esperienza di questo tipo, in nessuna parte del mondo e in nessuna epoca storica. Mi è capitato recentemente, durante un viaggio in Asia, di sentir parlare il presidente della Corea di quanto siano profonde ancora le tracce di ostilità reciproca tra i grandi Paesi asiatici, che risalgono ai conflitti drammatici che si sono conclusi con la seconda guerra mondiale. Il presidente della Corea ha affermato: “A noi è mancato qualcosa come l’Unione Europea, cioè un grande processo politico in grado di riconciliare i popoli”.
Oggi non vi è cittadino europeo che consideri il suo vicino come una minaccia. Se pensiamo a quanto sono lunghi i tempi della storia, questo è davvero un miracolo. Passare il Reno – come capita ad un deputato europeo che vada a Strasburgo con un volo low cost per Baden Baden e poi raggiunga il Parlamento Europeo con il pulmino – dove sono morti milioni di uomini, e accorgersi di aver passato il confine solo perché cambia l’operatore sul display del cellulare, è un miracolo che non ha precedenti. Tutto questo è avvenuto in pochi anni e non ha eguali in nessuna parte del mondo. Non ha precedenti nella storia umana.
Sono convinto che o si parte da questo orgoglio, e allora si trova la forza per andare avanti, oppure saremo deboli nell’affrontare le sfide che abbiamo di fronte. Dobbiamo essere grati a quella generazione di leaders, e in particolare ad Alcide De Gasperi, che fu tra questi uno dei più lungimiranti. Proprio a lui è intitolata la fondazione che ha promosso questo convegno.
Dunque, l’Europa ha sanato le sue ferite e si è data un mercato unico come motore di crescita e di prosperità. La costruzione europea è stata segnata, in particolare, da due grandi dopoguerra: quello del 1946 e il dopo guerra fredda dell’89, entrambi affrontati con lo stesso spirito. L’allargamento dell’Unione – che più giustamente si deve chiamare riunificazione dell’Europa – è stata la grande risposta ai conflitti e agli odi che avevano segnato la guerra fredda. Questo straordinario processo di estensione e consolidamento della democrazia, senza la forza delle armi, ma in virtù del fascino del modello europeo, ha avuto una forte leadership, venuta soprattutto dalla Germania. Alla base di questo processo, vi era l’idea che integrarsi nell’Unione Europea fosse il compimento, il suggello di una rivoluzione democratica che si era compiuta in quei Paesi.
Oggi credo che la nuova spinta ad affrontare le sfide che abbiamo di fronte non venga più dalle ragioni interne dell’Europa, ma, piuttosto, dalle grandi sfide di fronte alle quali l’Europa si trova in un mondo che cambia. Sono le grandi sfide esterne che ci devono spingere ad un salto di qualità nel processo di integrazione, a partire da quella della sfida della pace e della sicurezza.
Il vecchio ordine mondiale, fondato sul bipolarismo, era un “ordine”, ma il problema di quale sia oggi l’ordine del mondo non é stato ancora risolto. Abbiamo proceduto per tentativi e, in fondo, siamo rimasti sospesi tra due concezioni: un multilateralismo di impianto kantiano, cioè l’idea che si possa avere un ordine del mondo fondato su un principio di legittimità; e l’ambizione unilaterale della grande potenza liberale che impone un ordine ispirato ai valori democratici. Ebbene, io credo che si debba riconoscere – ancorché la nostra cultura europea ci porti a simpatizzare per una di queste due concezioni – che tutte e due hanno mostrato di essere inefficaci. Fondare un multilateralismo efficace, cioè davvero in grado di prevenire i conflitti e di tutelare i diritti umani, è una sfida che è tutta di fronte a noi, per la quale non abbiamo ancora le risposte e che, a mio giudizio, non può essere vinta senza il concorso dell’Europa.
E’ vero che l’Europa appare ancora spesso prigioniera di una visione nazionale dei problemi internazionali, e questo è tanto più evidente nei Paesi più forti, in cui la memoria della loro antica potenza non è svanita. Ma pensare di poter affrontare le nuove sfide esterne con questa logica, credo sia un’illusione. Infatti, sono convinto che se l’Europa non sarà unita, di qui a pochi anni conterà molto poco. Tutti i Paesi europei, inclusi quelli più orgogliosi del proprio passato, fra poco non avranno più titolo a far parte del G8. Saremo scavalcati da grandi Paesi-continente che hanno un miliardo di esseri umani e che produrranno più di noi. Isolati, scenderemo nella classifica di quelli che contano e tutti, anche i più nazionalisti, scivoleranno inesorabilmente nella ‘’serie B’’. Saremo scavalcati prima dalla Cina, poi dall’India, poi dal Brasile, com’è giusto che sia.
Dunque, quando l’Europa si divide non conta nulla. Prendiamo, ad esempio, il più drammatico evento internazionale degli ultimi anni: la crisi in Iraq. Ci siamo divisi tra quelli che hanno accettato la scelta americana e quelli che non l’hanno condivisa. Ora, a cose fatte, si può dire che né gli uni né gli altri hanno esercitato alcun peso reale sullo sviluppo degli avvenimenti: né chi è andato con gli americani, pensando “andiamo, così li condizioniamo”, cosa che non è avvenuta; né chi ha detto “no”, perché non è riuscito certamente a fermare il corso delle cose. Insomma, se siamo uniti, possiamo pensare di incidere. Se siamo in grado di avere un punto di vista europeo, questo punto di vista può essere efficace. Viceversa, se ci dividiamo tra i diversi punti di vista nazionali, ognuno può compiacersi del suo, ma certo non incide sul corso degli avvenimenti internazionali.
L’altra grande sfida è quella che ci viene dalla qualità dello sviluppo, ovvero dal fatto che siamo ad un punto cruciale del rapporto uomo-natura e rischiamo che lo sviluppo produttivo moderno entri in conflitto con le ragioni della vita, della sopravvivenza della specie umana. Vi sono cambiamenti giganteschi che si devono compiere e che possono essere portati a termine soltanto in un quadro di multilateralismo efficace.
L’Europa può essere stimolo e avanguardia, così come è avvenuto con il Consiglio europeo in materia di energia e cambiamenti climatici, su tanti fronti. Pensiamo alla globalizzazione, così carica di potenzialità ma anche di squilibri, che va dunque governata. Prendiamo il grande problema dell’immigrazione: è del tutto evidente che la questione va affrontata da noi europei, insieme, ma anche con i Paesi e i continenti da cui gli immigrati provengono, perché soltanto in questo modo possiamo pensare di governare questi processi e renderli compatibili alle potenzialità di sviluppo e alla convivenza. Altra questione ancora è la competizione internazionale: pensiamo davvero che senza un impegno europeo si possa andare avanti? Dov’è la massa critica dei singoli Paesi, in termini di investimenti per l’innovazione e la ricerca, che consenta di vincere questa sfida da soli?
Ripeto, a mio parere nessuno dei grandi problemi che abbiamo di fronte – né il problema essenziale della pace e della sicurezza, né i problemi della qualità dello sviluppo, della globalizzazione, dell’ambiente e della competitività – può essere affrontato senza un’Europa più forte. Non so se questo susciti più speranze o crei più paure. Io sono legato ad una vecchia idea secondo la quale la forma più alta della libertà consiste nel prendere atto di ciò che è necessario e farlo. In questo, si misura anche la capacità e la qualità di una classe dirigente.
Inoltre, ritengo che se l’Europa conta poco nel mondo globale, contano poco anche i valori che sono il suo patrimonio specifico, ovvero la combinazione tra libertà individuale, democrazia politica e solidarietà, frutto della storia e della cultura europea. Quell’insieme di valori che nasce dal concorso di diverse tradizioni – liberali, cristiane, socialiste – e che, in questa parte del mondo, si e’ radicato così profondamente. Si tratta di valori che rappresentano un patrimonio universale, che l’Europa deve mettere a disposizione dell’umanità. Quindi, o noi abbiamo il senso della missione da compiere – un po’ come gli americani si sentono portatori di una loro missione, magari con mezzi diversi – oppure non riusciremo a suscitare quella forte spinta necessaria. Se tutto si riduce ad un problema di regolamenti e convenienze, allora non penso che andremo avanti.
Per vincere queste sfide, credo che ci dobbiamo muovere, negli anni a venire, su tre temi ed uno di questi è certamente quello dei progetti, delle scelte, delle politiche.
Non accetto una certa contrapposizione anglosassone tra l’Europa delle cose concrete e l’Europa astratta delle istituzioni, forse perché la mia cultura latina mi porta a pensare che senza istituzioni efficaci non si fanno neanche le cose concrete e che c’è un nesso non districabile tra questi due aspetti. Tuttavia, mi rendo conto che, al di là di ogni disquisizione accademica, nel rapporto con l’opinione pubblica, alla fine, quello che conta sono le cose concrete.
È chiaro che, se vogliamo avere un peso nelle crisi internazionali, dobbiamo avere una forza di reazione rapida. L’idea che ci sia, accanto ad una forza militare, una forza europea di assistenza civile, corrisponde molto al nostro modello di peace keeping e, tra l’altro, ad una necessità: nelle missioni di peace keeping, infatti, l’elemento militare e l’elemento di assistenza civile sono sempre più strettamente interconnessi. È evidente che, per portare questi temi dall’empirico dei discorsi e dei princìpi alla concretezza delle azioni, occorrono scelte politiche forti, determinate e coerenti. C’è bisogno, quindi, di un’Europa che abbia progetti concreti, politiche comuni. Dobbiamo proseguire, come si è fatto nel Consiglio europeo sull’energia e i cambiamenti climatici, prendendo decisioni coraggiose, dandoci obiettivi comuni, lanciando, insieme, un forte segnale di grande valore ideale alla comunità internazionale.
Il secondo tema è l’allargamento, la cui politica non può essere abbandonata, perché è un punto essenziale dell’identità europea. A questo proposito, vorrei evidenziare la questione irrisolta dei Balcani occidentali e domandare: come possiamo pensare di tenere questa ferita aperta nel cuore dell’Europa? Non sentiamo il peso di una responsabilità, quello della lunga e tragica guerra civile balcanica che ha insanguinato per 15 anni una regione che dista pochi chilometri da qui, con più di 300mila morti? A mio parere, alla fine questo processo non può che trovare il suo esito nell’Unione Europea, anche per sdrammatizzare il problema dei confini tra queste nuove nazioni e per creare un contesto nel quale esse possano lavorare insieme. E chiedo ancora: abbiamo calcolato quanto ci costa il fatto che siano fuori dall’Europa, anche dal punto di vista delle migliaia di soldati che occorre mantenere lì? Penso che tutto ciò non possa che essere rilanciato su un piano diverso e certamente con un diverso ordine di priorità.
Sono, inoltre, convinto che interrompere il processo di integrazione della Turchia nell’Unione Europea – pur sapendo che esso richiederà del tempo – sia un fatto di grandissimo valore. Tenere aperte le porte dell’Europa ad un grande Paese musulmano democratico, incoraggiandone un processo di modernizzazione, è un importante segnale politico che l’Europa lancia ad un mondo islamico che molti vorrebbero incompatibile con i nostri valori e contrapposto a noi in una guerra di civiltà.
L’altro tema da affrontare e’ quello della politica di vicinato: non tutti potranno diventare europei, dunque è necessario costruire forme di cooperazione verso Est e verso la sponda meridionale del Mediterraneo. Cooperazioni che acquistino una forza e una rilevanza assai maggiore rispetto alle politiche che abbiamo avuto sino ad oggi. Ritengo si debbano sviluppare progetti concreti al servizio dello sviluppo, della pace e della sicurezza, progetti al servizio di un nuovo modello di protezione sociale, che non può che essere europeo, in grado di combinarsi ad un’economia più competitiva.
E’ al servizio di questi progetti e dell’allargamento che occorre un nuovo Trattato. Al servizio delle finalità dell’Europa, non del ceto politico. Ho ascoltato con molta attenzione quanto ha affermato Elisabeth Guigou… Del trattato che abbiamo sottoscritto e ratificato, noi vogliamo salvaguardare quanto più possibile, ma capiamo anche il punto di vista di chi, dopo la vicenda del referendum, dica che non si può riproporre ai francesi lo stesso Trattato che essi hanno bocciato.
Per questo, dopo le elezioni francesi bisognerà cercare un compromesso che preservi tutte le innovazioni importanti che il Trattato Costituzionale contiene, e che io, come Tommaso Padoa-Schioppa, fin dall’inizio ho considerato insufficiente. Dunque, penso che buttare via quanto abbiamo fatto – la Convenzione, un Trattato ratificato da diciotto Paesi – e ripartire da Nizza, sia una scelta incomprensibile. Partiamo dunque dal Trattato e individuiamo ciò che è essenziale: le regole, il voto a maggioranza, una presidenza stabile, un ministro degli Esteri europeo, una nuova struttura della Commissione. Su queste innovazioni necessarie, cerchiamo rapidamente di definire un accordo, perché non possiamo ripresentarci ai cittadini, nelle elezioni europee del 2009, senza aver deciso e senza dare un segnale che le cose stanno cambiando: essi non capirebbero e sarebbe davvero un fatto molto grave.
E’ il momento di scelte coraggiose. In passato, fortunatamente, l’Europa ha avuto delle leadership forti, in grado di spingere lo sguardo oltre il contingente e di assumere decisioni che potevano sembrare folli. In questo momento, noi non siamo in una situazione analoga, c’è una maggiore difficoltà, una frammentazione politica dei nostri Paesi. Sento che tutto è più complicato, ma proprio per questo, abbiamo bisogno più che mai di una spinta che venga dalla società civile, dalle forze intellettuali, da quella parte, non piccola, delle nuove generazioni che vuole poter guardare con fiducia al proprio futuro.
Per tutto questo, penso che oggi la politica abbia bisogno di essere sostenuta e incoraggiata. Ma c’è anche bisogno che chi in politica crede a queste cose, faccia la sua battaglia con coerenza. E’ questo l’intento del governo italiano ed è questo lo spirito con cui noi ci muoveremo, nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, per discutere di scelte così importanti per il futuro dell’Europa.

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