Intervista
1 luglio 2007

A colloquio con Massimo D'Alema

Intervista di Enrico Manca - Pol.is


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MANCA. Pol.Is, per la Riforma della Politica e delle Istituzioni esce in una nuova serie. La prima edizione
la fondammo negli anni ’90 a sostegno del movimento
per una Sinistra di Governo. Le cose poi presero un’altra piega e Pol.is cessò le pubblicazioni.
Abbiamo deciso ora di tornare a farla uscire con una
cadenza trimestrale perché pensiamo che nella prospettiva della costruzione del Partito Democratico i socialisti liberali devono esserci; anzi devono avere parte attiva nel processo di fondazione del Partito Democratico. Non a caso abbiamo posto nella copertina della rivista un esplicito riferimento al socialismo liberale a cui ci ispiriamo.
Veniamo ora a noi: hai parlato più volte dei rischi di disaffezione verso la politica, un fenomeno in parte ciclico e in parte aggravato da cause recenti. Verrebbe da dire che la seconda Repubblica non è mai nata e che la prima non è mai morta del tutto; il rischio è che in essa si ripropongano tutti i difetti della prima Repubblica ma non i pregi di essa.
A me sembra che il nodo, al di là dei fenomeni degenerativi della politica che pure esistono e vanno affrontati, sia quello della capacità di governo della società postmoderna. Guardando la storia degli ultimi 15 anni e fatte le debite differenze, è indubbio però che la capacità di Governo appare essere insufficiente sia quando governa il centrodestra sia quando governa il centrosinistra.
Del resto, la crisi di consenso elettorale che il centrosinistra ha patito negli ultimi tempi ne è l'espressione. Nel pieno della rivoluzione tecnologico-culturale, della globalizzazione, dell’epoca di internet, di Second Life e di YouTube e di quant’altro, l’impressione che si ha, è che l’Italia viaggi ancora con la carrozza a cavallo. L’Italia appare difficilmente governabile con una legge elettorale come quella che abbiamo, con Regolamenti parlamentari come quelli che abbiamo, con una frammentazione partitica come quella che abbiamo, con un bicameralismo perfetto come quello che abbiamo.
Non pensi che il costruendo Partito Democratico, debba assumere, da subito, la riforma istituzionale a partire dalla legge elettorale, dalla modifica di un bicameralismo paralizzante, dal superamento di una frammentazione partitica che impoverisce e non arricchisce la democrazia, come una assoluta, non rinviabile priorità politica dando una battaglia, dentro e fuori l'Unione su una piattaforma riformatrice su cui possa mobilitare il Paese?

D’ALEMA. Credo che effettivamente siamo in una situazione in cui la fragilità del sistema democratico raggiunge livelli allarmanti. In realtà, penso che questo progressivo indebolimento sia cominciato negli anni ’80 e non si sia mai veramente interrotto, a parte il tentativo avviato dopo la crisi degli anni ’90 di costruire un nuovo sistema politico-istituzionale per riempire il vuoto che si era creato. Ma quel tentativo è stato fatto in modo parziale, senza sufficiente coraggio e senza un’adeguata visione. Ne è scaturito un sistema molto fragile.
In particolare, questo vale per l'incompiutezza e l'incongruenza della nuova architettura istituzionale. Infatti è fondamentale la forza delle istituzioni, mentre nel nostro Paese una cultura della politique d'abord ha portato a sottovalutane il peso. Guardiamo alla Francia con Sarkozy, un uomo politico intelligente, come ce ne sono anche da noi. La differenza sta nel meccanismo istituzionale, che consente a quel Paese, una volta fatte le elezioni, di ripartire con l’azione di governo: i candidati si scontrano, uno di essi è eletto, il giorno dopo può nominare l’esecutivo, può decidere quante sono le donne, ha la forza di farlo. Da noi, invece, il “combinato disposto” della fragilità delle istituzioni e della frammentazione del sistema politico toglie quel potere.
E che sia fondamentale la forza delle istituzioni lo dimostra anche il fatto che la nostra classe dirigente locale beneficia della forza e del ruolo istituzionale che svolge. Pensiamo ai sindaci, la cui elezione diretta popolare ha conferito loro una particolare visibilità, un certo ruolo, grazie al quale essi rappresentano un pezzo di potere nuovo perché è stato rifondato istituzionalmente. Però, questo rafforzamento dei poteri periferici in chiave presidenzialista, a fronte della mancata riforma del governo centrale, ha avuto come effetto un’accentuazione dei rischi di frammentazione del sistema. Altri aspetti sono costituiti dal proliferare dei costi della politica, legati a una periferia diventata ipertrofica, e il progressivo abbassamento della capacità di governo del centro. In sostanza, il corpo istituzionale della seconda Repubblica è cresciuto in modo casuale e deforme: un “corpaccione” con la testa piccola, perché al centro non c’è stato un rafforzamento delle istituzioni che debbono garantire la guida e l'unificazione del Paese.
Ma per riformare il nostro sistema, è stato impossibile trovare un accordo, perché la mancanza di una vera cultura democratica e istituzionale di gran parte della nuova classe dirigente, la logica della convenienza a breve, la mancanza di respiro, hanno tolto alla seconda Repubblica il passaggio fondativo. D’altra parte, la fondazione di una nuova fase storica è sempre un momento inevitabilmente consociativo, non nel senso che bisogna fare il governo insieme, ma nel senso di una comune assunzione di responsabilità. Questo momento e’ mancato, perche’ e’ prevalsa da subito l'idea della politica come presa del potere, prima che come costituzione dei fondamenti. Ed e’ prevalsa l’idea che, tutto sommato, per disputarsi questo potere fosse sufficiente la brutalità della legge maggioritaria. Un errore che, nella prima fase, e’ stato anche di quella parte della sinistra che era rimasta in piedi.

MANCA. Sono particolarmente lieto che vi sia fra noi questa comunanza di giudizi. Il problema però è quello ora di passare dall’analisi all’iniziativa; come affrontare questa situazione; come reagire …

D'ALEMA. Un passaggio a mio giudizio ineludibile riguarda il tema del riassetto delle istituzioni, essendo chiaro che il punto vero di riequilibrio debba essere il rafforzamento delle istituzioni che rappresentano l'unità e la guida del Paese.
Accanto a questo, c’e’ un altro passaggio che investe i soggetti politici, perche’ non si puo’ fare un discorso sulle istituzioni che non riguardi anche loro. Se guardiamo indietro, la legge elettorale proporzionale era un complemento della Repubblica dei partiti, non il fondamento. Oggi, siamo privi di un sistema di soggetti politici in grado di interpretare la nuova stagione della vita democratica. Quello che abbiamo è in gran parte un residuo della prima Repubblica, salvo l'unica vera novità, rappresentata da Berlusconi, il quale ha costruito il modello del “partito-impresa della comunicazione”. Comunque lo si voglia giudicare, è un fenomeno moderno, anche se non sempre la modernita’ e’ positiva di per se’. Il resto, invece, è stato un faticoso rimettere insieme i frammenti del sistema che era esploso. Per questo è importante il Partito Democratico, perché si presenta nel campo del centrosinistra come il primo grande tentativo di innovazione e non è un caso che esso susciti tante aspettative.
Insomma, penso che il cambiamento delle regole debba accompagnarsi a un progetto coerente di riorganizzazione del sistema politico, a partire da una legge elettorale che aiuti il confronto per il governo del Paese. Oggi, il sistema è predisposto soprattutto per impedire all'altro di vincere. Il meccanismo, che la legge elettorale voluta da Berlusconi ha portato fino all'estremo, incoraggia il massimo di aggregazione elettorale e il minimo di coesione di governo. Sono stati messi assieme il proporzionale e il più rozzo dei maggioritari, con il rischio di ritrovarsi in un Paese
ingovernabile.
Ecco, dobbiamo uscire da questa logica e credo che le soluzioni migliori siano il doppio turno alla francese oppure il modello tedesco o spagnolo, che e’ una delle varianti di cui si parla oggi. Si tratta di sistemi che, anche se in modo diverso, sono coerenti con l'idea di riorganizzare il governo intorno a soggetti capaci di unire il Paese. Penso ad una forma di bipolarismo meno vincolato, meno condizionato dal ricatto delle forze marginali, impregnato sui grandi partiti nazionali. Ritengo che queste siano le proposte coerenti con il progetto politico che abbiamo messo in campo. Mi rendo conto di quanto ciò sia complicato, ma sono quelli i sistemi elettorali che innescano processi virtuosi di accorpamento e riorganizzazione del sistema politico.
Altre logiche vanno nel senso di accentuare i fenomeni di frammentazione. Il maggioritario di coalizione con più liste, ad esempio, spinge al massimo il principio di rappresentanza, non certo quello di coesione: più liste hai, maggiore e’ la probabilità che tu vinca e che, alla fine, sara’ la “lista della Val Camonica” a dare quei mille voti in più sulla base dei quali si “governa” il Paese… O meglio, si vincono le elezioni, perché in questo modo, il giorno dopo il voto, non si può governare il Paese. La logica di quel sistema porta all'ingovernabilità, all'estrema frammentazione, alla ricerca di visibilità da parte di ciascuno.
Inoltre, come dicevo prima, bisogna rafforzare il governo. Non ho mai avuto un particolare fastidio ideologico verso l'idea che il doppio turno alla francese si accompagnasse con l'elezione diretta del presidente della Repubblica. Del resto, grosso modo, alla fine era questa l’ipotesi della Bicamerale. Non credo che dobbiamo avere timori ideologici verso forme di presidenzialismo temperato, bilanciato, come quello francese. Penso che si debba temere molto di più una sorta di presidenzialismo di fatto, come quello che in sostanza abbiamo noi adesso: la gente vota su una scheda dove c'è scritto il nome del candidato premier, creando così l'effetto illusorio che il capo del governo sia eletto direttamente dai cittadini, mentre, dal punto di vista istituzionale, cosi’ non e’. Questo ci espone al pericolo del massimo di personalizzazione, senza i contrappesi e le garanzie istituzionali necessarie.
Si tratta di rafforzare il governo anche attraverso la semplificazione del processo legislativo. Penso sia necessario superare il bicameralismo perfetto, risolvere la questione dell'eccessivo numero dei parlamentari e della permissività dei regolamenti delle Camere, affrontare la confusione della vita parlamentare. Le sedute parlamentari come quella del Senato in cui si e’ discusso del caso Visco-Speciale rischiano di formare, nel cittadino, un’opinione deleteria della politica italiana, che alimenta un sentimento antidemocratico che colpisce tutti. Quando il Parlamento della Repubblica si azzuffa sul passaggio se l'apprezzamento della maggioranza sia precluso dal fatto che è stato respinto l'apprezzamento dell'opposizione, beh, siamo alla Bisanzio con i turchi alle porte. È l'ultimo atto. Lo dico con angoscia. E trovo inquietante che anche l'opposizione non capisca che questo meccanismo di progressivo degrado investe tutti.
Faccio questa riflessione: il Governo ha varato 98 provvedimenti. Nel bene o nel male, d’accordo o no, disegnano un'altra Italia. Abbiamo fatto le liberalizzazioni, la riforma del sistema televisivo, la legge sul conflitto d’interessi, i Dico. Però, tutto questo è assolutamente virtuale. Ci riuniamo, approviamo disegni di legge, che entrano in un tritacarne, da cui ne uscirà meno di un decimo. Insisto, dovrebbe essere interesse comune, di maggioranza e di opposizione, mettere mano a questa situazione.

MANCA. Si, d’accordo ma torno al punto che sottolineavo prima. C’è la necessità e l’urgenza di una forte iniziativa politica, costi quel che costi. Se ci si limita all'analisi e non parte la terapia la situazione è destinata ad aggravarsi. Io penso che il gruppo dirigente che dà vita al Partito Democratico debba assumere una forte priorità di iniziativa in questa direzione.

D'ALEMA. Sono d'accordo, ci vuole una iniziativa forte, coraggiosa. D’altra parte, cambiare il meccanismo con il treno in corsa è pericoloso, perché gli interessi contrari possono farlo deragliare. E, poi, c’e’ un altro dato: l’improbabilità, l’inaffidabilità degli interlocutori. Per aver cercato di fare le riforme necessarie, io ho pagato un prezzo molto alto. Invece, quando si apre un discorso di questo genere, esso deve coinvolgere i due schieramenti e messa da parte la logica della convenienza. Comunque hai ragione, tutte le difficoltà e i rischi di questa operazione sono evidenti, ma il Partito Democratico deve nascere nel segno dell'innovazione politica e istituzionale, deve rischiare.

MANCA. Anche perché, la coalizione di centrosinistra contiene in sé due “coalizioni”: l’ala riformista e quella “radicale”. E’ vero che siamo in una situazione di stallo perché il meccanismo istituzionale è inceppato e necessita di una riforma coraggiosa, ma non possiamo neanche chiudere gli occhi di fronte al fatto che uno degli elementi che frena la capacità di Governo sta nella difficoltà di mettere d’accordo queste due “coalizioni” che convivono nel centrosinistra.

D'ALEMA. Questo può valere per alcune situazioni, non per altre. E comunque ritengo sia più una raffigurazione che una realtà. È una chiave di lettura imposta dalla grande stampa, che mira a divaricare, puntando a rendere impossibile questa convivenza, sulla base di un disegno politico che non si capisce bene quale possa essere. C’e’ una sorta di neocentrismo tecnocratico, che tende ad assorbire al suo interno un pezzo del centrosinistra. Sono settori che capiscono che senza una parte di ceto del governo di centrosinistra non sarebbero in grado di governare, ma lo vogliono addomesticato. Per questo tentano di operare una adeguata selezione rispetto a quelli che essi sanno che non possono essere addomesticati. Si tratta di operazioni che quando partono hanno un obiettivo evidente: togliere qualcuno di mezzo, poi si vede.
In ogni caso, a mio parere le cose sono più complesse. Se devo giudicare in base alla mia esperienza di governo, Rifondazione ha avuto una condotta saggia e prudente. Gli elementi di divaricazione sono molteplici e non stanno soltanto lungo il crinale “sinistra riformista-sinistra radicale”. Questo crinale c'è per alcuni nodi, come ad esempio la politica estera, ma su questo fronte tutto sommato abbiamo portato avanti un politica che ha goduto di un largo consenso, innanzitutto fra gli italiani, malgrado sia stata sotto tiro fin dal primo momento. Abbiamo tenuto insieme gli elementi dell’indipendenza del Paese con il quadro delle alleanze tradizionali e abbiamo interpretato tutto ciò in modo attivo. Certo, abbiamo anche avuto la fortuna di una fase in cui la crisi della politica unilaterale americana ha aperto spazi ad una iniziativa europea.
Detto ciò, su alcune questioni, come per esempio nella politica economica, facciamo fatica a superare alcuni ostacoli e a sciogliere alcuni nodi. Io credo, però, che la questione riguardi più il sindacato che la sinistra radicale .

MANCA. Sarà anche così ma resta il fatto che le posizioni della sinistra radicale e quelle del sindacato coincidono.

D’ALEMA. La questione, a mio parere, è di carattere strutturale, nel senso che, per ragioni oggettive, la capacità del sindacato di essere una forza rappresentativa del paese nel suo complesso si è andata appannando a causa della progressiva frantumazione del mondo del lavoro. Nel passato, il sindacato aveva come riferimento un mondo del lavoro molto più compatto e unitario. Oggi, invece, il sindacato più che essere portatore di una visione generale, rappresenta una somma di interessi legittimi, ma di natura particolare. Non c'è più un sindacato in grado di sopperire alle debolezze della politica, di fare il grande “patto sociale”. D'altra parte, questo e’ un problema che riguarda anche le altre rappresentanze, a partire da Confindustria: il tratto corporativo, e lo dico non in senso dispregiativo, prevale rispetto ad una visione dell'interesse generale del Paese.
Questo è un dato molto forte. E di fronte alla tendenza alla frantumazione della società, fenomeno che investe tutto il mondo occidentale, a maggior ragione dovrebbe esserci, come contrappeso, una forte capacità di sintesi della politica. Ma non c'è.

MANCA. Anche qui l’analisi mi sembra corretta ma torna il problema di come affrontare questa situazione e attraverso quali iniziative.

D'ALEMA. Ci abbiamo anche provato, in diversi momenti. Abbiamo fatto passi in avanti, ma certo è molto difficile. Ogni volta che si delinea un disegno forte di rilancio della politica, si coalizzano tanti interessi contrari.

MANCA. Interessi presenti dentro e fuori ogni schieramento.

D’ALEMA. Sì e si coalizzano con molta rapidita’.

MANCA. Pol.Is è nata proprio per partecipare al processo di costruzione del Partito Democratico. La consideriamo una scelta giusta, coraggiosa, all'altezza dei problemi in campo in questa fase della storia. Però, la nostra impressione è che ci sia stata una maturazione inadeguata, insufficiente: sarebbe stato meglio, a nostro giudizio se i Democratici di Sinistra avessero compiuto il loro percorso fino a dar vita in Italia a un partito del socialismo europeo, assumendo una forte identità in questo senso; così come sarebbe stato meglio se la Margherita avesse mantenuto inalterati i suoi caratteri di partito liberaldemocratico in cui, cattolici e non cattolici, avessero potuto trovare una innovativa integrazione. E a questo punto di maturazione sulla base di un processo fortemente chiaro e trasparente giungere all’obiettivo di costruire il “Partito nuovo”.
L’impressione invece è che si è giunti alla vigilia della costituente del Partito Democratico con una caratterizzazione identitaria insufficiente dei Democratici di sinistra (anche questo forse ha favorito la scissione di Mussi e di Angius); mentre da parte sua la Margherita ha appannato la sua identità liberal-democratica accentuando la vicinanza ad alcune posizioni del neointegralismo cattolico.
A tuo giudizio la fase costituente può contribuire ad una maturazione più adeguata della piattaforma su cui può nascere il Partito Democratico in grado di superare queste insufficienze?

D'ALEMA. Credo che bisogna distinguere tra le identità delle leadership, che sono sicuramente importanti, e il modo in cui l'insieme Margherita-Ds è vissuto dai suoi elettori, che, per la grande maggioranza, si autodefiniscono “elettori di centrosinistra”. Il loro identikit sociale e culturale è del tutto simile all’elettorato delle grandi socialdemocrazie europee, sono gli stessi ceti sociali, con lo stesso approccio ai problemi sociali, internazionali. Sono un elettorato mobile, nel senso che possono votare per l'uno o l'altro partito a seconda delle persone e delle situazioni. E quando c'è il simbolo dell'Ulivo, non solo votano più volentieri, ma a loro si aggiungono altri elettori. Il che dimostra che per certi aspetti le identità dei due partiti non solo non sono un fattore attrattivo, ma sono un elemento di disturbo rispetto alle potenzialità elettorali del Partito Democratico. Secondo un indagine della Swg, sia pure in un quadro preoccupante di disorientamento, il potenziale del Partito Democratico rimane un dato molto significativo nel Paese.
Insomma, non penso affatto che la Margherita sia percepita dai suoi elettori come partito neocattolico. E, per quanto riguarda l’identita’ del socialismo europeo, e’ abbastanza problematico definirla, perche’ parliamo di un campo di forze in cui c'è una pluralità di identità, di espressioni.
Secondo me, invece, il problema e’ che i Ds, nel loro sviluppo, non sono riusciti a fare i conti fino in fondo con la questione non del socialismo europeo, ma del socialismo italiano. Questo, a mio giudizio, è dovuto a due fattori: al modo in cui è caduta la prima Repubblica, lasciando ferite che non si sono mai rimarginate, e al fatto che ai Ds, nella costruzione di una forza riformista, è mancata una forte sponda socialista. Purtroppo, in definitiva, il sentimento che è rimasto prevalente nel mondo ex Psi è di ostilità e diffidenza. Certo, ci sono state eccezioni, compagni che sono venuti con noi, compagni che, pur senza venire con noi, ci hanno guardato con simpatia, ma questo aspetto di distanza è stato predominante. È chiaro che se ti vuoi affermare come forza italiana del socialismo europeo, ma non riesci a misurarti con la tradizione del socialismo italiano, il tentativo in qualche modo rimane zoppicante.
Mi sono convinto - e l’ho scritto sei, sette anni fa - che il limite della cosiddetta “Cosa 2”, che si proponeva di raccogliere diverse tradizioni della sinistra laica e socialista italiana, stava nel fatto che, in fondo, il ragionamento sull'identità era rivolto soprattutto al passato, cioè a riconnettere i fili che un tempo si erano spezzati. Invece, credo che il tema dell'identità vada risolto con lo sguardo decisamente volto al futuro e sta qui, a mio parere, il valore del Partito Democratico. Si tratta di un cambiamento di ottica, di prospettiva: costruiamo una grande forza moderna del centrosinistra e definiamone l'identità a partire dalle grandi sfide che oggi devono qualificarla. Non vi e’ l’idea di rompere i ponti con il passato, perche’ sono convinto che in questo lavoro si ritrovi anche il meglio della tradizione socialista, la parte più coraggiosa e più vitale. È la famosa operazione “ciò che è vivo e ciò che è morto”, di uno storicismo dialettico. È un salto, quello che dobbiamo fare. Penso a quel bellissimo libro sulla struttura delle rivoluzioni scientifiche di Khun: si tratta di cambiare il paradigma e il Partito Democratico è il cambiamento del paradigma.

MANCA. Sull’identità del socialismo europeo sono d’accordo; sulle ragioni per cui non sono stati fatti, come sarebbe stato giusto e utile fino in fondo, i conti con l’esperienze del socialismo italiano il discorso dovrebbe essere approfondito nei suoi vari aspetti. Ma io sono d’accordo che giunte le cose a questo punto mentre una ricerca storica anche sulle responsabilità può essere utile sul terreno politico ci farebbe soltanto battere il passo o, addirittura, tornare indietro. Il tema invece che oggi va affrontato è proprio quello della capacità di cambiare il “paradigma”, di agganciare il futuro, di aprire una prospettiva veramente nuova ed innovativa.

D'ALEMA. Sì, altrimenti il tema dell’identità rimane legato alla necessità di riconnettere pezzi di storia, di esistenze collettive, di vicende personali. E tutto rischia di naufragare nel “ma allora avevo ragione io”, “tu devi fare autocritica”, “quella volta abbiamo perso un'occasione” … Non se ne esce più.
Quindi, bisogna costruire una forza che parli non dico alle generazioni future, ma a quelle attuali e per le generazioni attuali la sinistra è l'Ulivo. In realtà, a tanta gente sembra che non stiamo inventando nulla e che giungiamo tardivamente a questo traguardo.
Certo, mio figlio lo sa che c'è stato il Pci. Mi domanda: “tu eri comunista? Come mai?”. Ma se facciamo il partito dell’Ulivo e sente dire che “allora la sinistra non c’e’ piu’”, si sorprende e chiede: “Scusa, ma non è questa la sinistra?”. Insomma, la sinistra che hanno conosciuto migliaia di giovani, è questa.
Inoltre, sono convinto che questo cambiamento di paradigma sia essenziale anche perché è la condizione per un cambiamento di generazione. In caso contrario, questo discorso sulle nuove classi dirigenti rimane sulla carta una mera esigenza giovanilistica. Se, pero’, vogliamo uscire dalla fisiologia e recuperare il concetto politico di generazione, la generazione nuova che deve assumere la guida del centrosinistra è quella dell'Ulivo.
Percio’, e’ necessario fare il partito di questa generazione, altrimenti essa non avra’ mai le “chiavi”, sara’ sempre costretta in un mondo fatto di simboli e di riferimenti che non conosce. Persino i sentimenti le sono estranei: noi ci commuoviamo sulla base di ricordi che appartengono alla nostra giovinezza, che le generazioni attuali possono apprendere sui libri di scuola, possono apprezzare, ma non sentire, perché fanno parte di un “nostro” universo simbolico. Invece bisogna costruire un nuovo universo simbolico, che appartenga a loro.

MANCA. Penso che sia giusto riconoscere che come Ministro degli Esteri sei riuscito in un'operazione estremamente difficile, cioè imprimere una discontinuità con il passato Governo, stabilire un rapporto dialettico con la sinistra antagonista e definire una linea non solo per l'Ulivo ma anche per l'Italia. È un'operazione di grande complessità.
Ma questo non è avvenuto per la politica economica e più in generale per come viene colta l’azione di Governo. Di qui nasce la preoccupazione che il Partito Democratico possa essere penalizzato da come viene recepita dal Paese, la politica di Governo, prima ancora che il partito nuovo entri in campo. Da ciò la necessità di una iniziativa che faccia superare l’attuale impass.

D’ALEMA. Il risultato della politica estera nasce in un quadro di battaglia politica: una battaglia portata avanti dalla destra, mentre da sinistra sono venute posizioni estremistiche.

MANCA. Ma la destra non aveva seri argomenti per contrastare la politica estera del Governo.

D’ALEMA. Una certa destra si: mi riferisco a un certo pensiero neoconservatore che in Italia ha messo radici; più che di uno schieramento politico, si tratta di un fenomeno culturale, giornalistico. Come Ministro degli Esteri sono stato abbastanza sotto tiro. Credo che la chiave vincente sia stata quella di recuperare il grande filone della politica estera italiana; mi permetto di dirlo, della parte migliore della politica estera italiana: quella capacità dell'Italia, che si era persa completamente, di essere parte dello schieramento occidentale, ma anche di sviluppare un profilo legato all'interesse nazionale, alla collocazione geopolitica del Paese, alla vocazione mediterranea, al rapporto con i Balcani eccetera. Il che ha “parlato” all'opinione pubblica: e quel che
colpisce è che, nel quadro generale di una prevalente critica verso il Governo, i sondaggi dicono che la politica estera è abbastanza condivisa dagli italiani.
Inoltre, abbiamo avuto una certa capacità di cogliere la congiuntura internazionale: e cioè la crisi della politica americana, il tentativo degli Stati Uniti di uscirne attraverso un certo rilancio del multilateralismo, la convinzione che questo multilateralismo comportava un’assunzione di responsabilità, non solo predicata, ma praticata, e offriva agli americani stessi una sponda, sia pure dialettica, per uscire dalla loro difficoltà.
Noi ci siamo collocati su questa lunghezza d'onda. Abbiamo introdotto elementi visibili di cambiamento, non in senso antiamericano, semmai nel senso di una rinnovata collaborazione tra europei e americani, in una fase di cambiamento della politica internazionale: dalla guerra unilaterale alla conferenza di Sharm El Sheikh in cui gli americani chiamano l’Iran e la Siria per vedere come se ne esce insieme.
Noi abbiamo fatto da sponda. Lo dissi subito, nel primo incontro con la Rice, e lei, donna intelligente e pragmatica, capì. Dissi: voi avevate un rapporto straordinario con il Governo precedente, per ragioni politiche, culturali. Noi siamo un Governo diverso, di centrosinistra: eravamo contrari alla guerra in Iraq, lo sapete. Però in questo momento avete bisogno di due cose fondamentali: dell'Europa (non di willings, ma dell’Europa) e di un rapporto migliore con il mondo arabo. Questo Governo, a differenza del precedente ha due asset: ha più ascolto in Europa, ha certamente un rapporto migliore con gli altri paesi europei, e ha un rapporto con il mondo arabo. Se volete utilizzare questi asset, noi siamo disposti a usarli non contro di voi, ma in un rapporto dialettico con voi.
La Rice ha subito apprezzato il discorso squisitamente politico ed ha capito quali erano i termini chiari del “dare” e dell’ “avere”. L’America è una grande potenza; gli americani sono gente seria: quando capiscono che prendi impegni e sei chiaro sui sì e sui no, con loro vai d'accordo, anche se su tante cose non c’è accordo.
Abbiamo reimpostato il rapporto con gli Stati Uniti d'America: questo ci ha consentito di sviluppare una politica in parte nuova; non velleitaria, ma incisiva. Naturalmente nei limiti di un paese di media potenza, di un Paese che ha risorse limitate da destinare alla politica estera.
La difficoltà nel portare avanti questa politica sta nella confusione, nella fragilità del quadro politico interno. È evidente che quando non si sa se il Governo regge, quando non si sa se il rinnovo delle missioni all’estero passerà in Parlamento perché c’è il rischio che qualcuno abbia una crisi di coscienza, allora i tuoi alleati si domandano, al di là del giudizio sulla persona, se il responsabile della politica estera italiana sarà in grado di mantenere gli impegni assunti. Questo è il problema.

MANCA. L’hard power ha fallito in Iraq e in Afghanistan e non può trovare ulteriori punti di applicazione in Libano o nel conflitto arabo israeliano. E’ giusto quindi puntare sul “soft power” europeo e italiano, ma che esso possa riuscire a raggiungere gli obiettivi che si prefigge è naturalmente ancora da vedere.

D'ALEMA. Soft sì, ma abbiamo messo 3 mila soldati nel Libano: quello è stato il vero momento di assunzione di responsabilità. Si era aperto un conflitto drammatico che poteva far degradare tutta la situazione. Gli israeliani non sapevano come uscirne, gli americani si trovavano in enorme imbarazzo per il rapporto che hanno con Israele e con il Libano di Siniora. Nessun soldato americano poteva essere messo lì, nel mezzo: il fatto che qualcuno e cioè il Governo italiano si sia preso la responsabilità e il rischio di intervenire in quella situazione è qualcosa che gli americani hanno apprezzato; è lì che hanno capito il senso di una politica di collaborazione dialettica fondata sull’autonomia.
Va anche sottolineata la capacità delle nostre forze armate in Libano è stata straordinaria dal punto di vista operativo e politico. Siamo un Paese dove tutto si consuma nella confusione, nel degrado, nell'autoflagellazione. I nostri giornali ci descrivono in Afghanistan come un gruppo di imboscati, ma l'Ammiraglio Di Giorgio negli Stati Uniti è stato nominato “militare dell'anno”: nessuno lo sa in Italia, nessun giornale italiano ne ha parlato. È stato nominato “militare dell’anno” per come ha condotto l'operazione con cui è stato tolto il blocco navale al Libano e per come la Marina italiana ha organizzato il primo dispiegamento. Dopo una settimana i Fanti di Marina erano lì, al confine con Israele, i tedeschi e i francesi ci hanno messo dei mesi. Il Generale Graziano, che comanda UNIFIL, sulla stampa israeliana – che sai come è diffidente verso le Nazioni Unite - è presentato come l'uomo che li protegge dagli Hezbollah.
Si può fare una buona politica estera, anche perché disponiamo di questi asset: uno di questi è proprio la capacità delle Forze armate italiane di fare peacekeeping, c'è dentro quella straordinaria capacità politica di gestire i rapporti con le popolazioni, con i sindaci, con il territorio. Il peacekeeping non è la guerra, è una cosa più complicata.

MANCA. Parlando di medio oriente hai usato un termine che trovo politicamente molto significativo: “equivicino”. Esso contiene una visione politica assai importante perché ha in sé una vera novità politica. Infatti se equidistante è chi rispetto ad un conflitto a tutt’oggi inconciliabile assume una posizione di “giudice terzo” attento a non “sporcarsi le mani” e non a scontentare nessuno; “equivicino” è invece chi si impegna, in prima persona, per la soluzione dei problemi, assumendo fino in fondo le ragioni delle due parti con l’obiettivo di comporle. Cosa possono fare e proporre l’Europa e l’Italia in un contesto in cui israeliani e palestinesi non appaiono in grado di realizzare da soli la pace?

D'ALEMA. Equivicino è un termine che credo l’abbia usato per primo Andreotti; me lo ricordavo e lo dissi.
La parola è brutta; l'ho usata in un senso molto profondo e persino con un risvolto personale. Vivo la vicenda mediorientale molto profondamente, con un'intensità di rapporti anche umani: ho avuto rapporti personali e familiari con il mondo ebraico, sono stato per un certo periodo anche imparentato con una grande famiglia ebraica italiana; ho amicizie in Israele. Ho un rapporto anche con il mondo palestinese, che viene da lontano; ho adottato a distanza un bambino che vive a Gaza. Insomma, una serie di coinvolgimenti anche umani, per cui quando dico che ci sentiamo egualmente vicini, c'è dentro anche un fatto di sentimenti. Credo che ci sentiamo vicini a questi due popoli.
Questo sentimento non credo che sia solo mio personale ma anche degli italiani; è una grande carta politica, che si può giocare. Nel momento in cui questi due popoli vorranno fare la pace, ancora il momento non è venuto, l’Italia potrà giocare un ruolo che forse nessun altro Paese può giocare allo stesso modo.

MANCA. Nel gioco degli scacchi Putin ha fatto la mossa del cavallo. Putin e Bush torneranno ad incontrarsi: cosa ne pensi?

D'ALEMA. Credo che gli americani abbiano gestito male la questione dei missili, in modo rozzo, l'ho detto anche a loro; gli europei sono stati unanimi nel giudizio critico anche perché così operando hanno colpito la Nato. A parte il rapporto con la Russia il primo problema a riguardato proprio la Nato. Che senso ha discutere con la Polonia e la Repubblica Ceca un problema di sicurezza dell’Europa? Per questo c’è la Nato anzi questo è il core business della Nato. In caso contrario non si capisce cosa stiamo a fare tutti assieme a Bruxelles?
L'altro punto riguarda il rapporto con la Russia. Se devi mettere questi missili perché può accadere che tra 15 anni vi sarà una minaccia iraniana, l'idea che li metti tutti lungo il confine con la Russia è scarsamente credibile. Questo è momento in cui l'Europa ha un peso; la reazione europea ha pesato sul modo in cui gli Stati Uniti hanno reimpostato la loro posizione. Non sono contrario allo sviluppo di sistemi di protezione rispetto al rischio di attacchi missilistici: se sono rivolti contro i cosiddetti “Stati canaglia” e non alterano l'equilibrio strategico, dobbiamo però decidere in modo concordato. Se invece temiamo la Russia cambia tutto. Ma non si può fare una
cosa dicendone un'altra e creando equivoci, perché nulla è peggio di un equivoco in questo caso. Nelle questioni di sicurezza la trasparenza è fondamentale, così come la fiducia dell'uno e dell'altro. Penso che la questione, che era nata in modo ambiguo, potrà trovare una soluzione ragionevole lungo l’asse di un rinnovato rapporto di fiducia. Invece, ci sono altri problemi molto complessi. Non c'è dubbio che la Russia, dopo una lunga fase di umiliazione, a cui forse l'Occidente ha concorso in modo esagerato, ha ritrovato con Putin un orgoglio nazionalistico, che spesso si esprime in forme assertive e francamente sgradevoli. Occorre ricostruire un equilibrio, che deve riconoscere il ruolo della grande potenza: non possiamo pensare di fare quello che vogliamo, di trattarli come sono stati trattati nel momento della crisi; quello è stato un errore, a mio giudizio. Però non possiamo neanche rinunciare a incalzare la Russia sui diritti umani, sulla Cecenia, sui cosiddetti frozen conflicts. La questione è seria.
Bisogna tener presente anche il peso energetico della Russia, che è destinato a crescere enormemente nel rapporto con l'Europa. La dipendenza dell'Europa dal gas russo nei prossimi 30 anni crescerà fino a un picco, credo del 70%. È una questione cruciale per gli equilibri in Europa ed è uno dei punti più seri su cui si misurerà la capacità di politica estera europea e anche l'efficace collaborazione euro-americana.

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