Intervista
20 settembre 2007

"Non chiamiamo terroristi tutti gli islamisti"

Intervista di Lucio Caracciolo - Limes


dalema_450859_img.jpg  Massimo D'Alema<br><I> Foto Paolo Tre - A3</i>
LIMES: Dopo quasi sessant’anni, chi vince e chi perde nel conflitto fra Israele e i palestinesi?

D’ALEMA: Purtroppo non mi pare ci siano vincitori. Israele, ad esempio, e’ un Paese che vive drammaticamente sotto la costante minaccia del terrorismo e che ha piu’ volte conosciuto l’incubo della guerra. Di questa condizione la società, la politica e, di riflesso, l’assetto istituzionale israeliano portano pesanti segni. Sull’altro versante, un’altra occasione perduta e’ quella della democrazia. Io ho creduto a lungo che lo Stato ebraico, proprio perché democratico, potesse costituire un esempio anche per i Paesi della regione. Al contrario, il pluridecennale conflitto scaturito dalla nascita di Israele, con la mancata soluzione del problema dello Stato palestinese, ha oggettivamente contribuito, come effetto collaterale, a preservare i regimi arabi autoritari e a radicalizzare ampi settori delle società arabe. Nel contesto mediorientale la democrazia israeliana resta tra le poche eccezioni.

LIMES: Ma Israele esiste, la Palestina no.

D’ALEMA: Certo, lo Stato palestinese non esiste. Non ancora. Esiste però la nazione palestinese.

LIMES: Davvero esiste oggi questa nazione? I gruppi palestinesi non fanno che scontrarsi fra loro e espellersi reciprocamente dai territori che cercano di controllare.

D’ALEMA: L’attuale divisione tra Gaza e Cisgiordania, tra Hamas e Fatah è politica, non nazionale. Complice anche l’esperienza della diaspora, i palestinesi rappresentano, nel mondo arabo, una delle società più complesse e pluraliste, uno dei contesti maggiormente democratici, al cui interno la dialettica fra i vari soggetti è sovente aspra, ma vera. Anche le elezioni che hanno portarto alla vittoria Hamas – la cui affermazione politica, sia ben chiaro, non suscita in me nessun particolare entusiasmo - è avvenuta in elezioni certificate come regolari da tutti gli osservatori internazionali. Il che non è poco, date le condizioni in cui si sono svolte.

LIMES: Osserviamo la situazione sul terreno: Gaza si è staccata dalla Cisgiordania, a sua volta frammentata dall’occupazione e dagli insediamenti israeliani, che continuano a crescere. I fatti compiuti dai governi di Gerusalemme paiono difficilmente reversibili, e comunque non tutti. Sharon e Olmert hanno avuto da Bush la garanzia della conservazione delle colonie strategiche. Come si può costruire un vero Stato palestinese su quelle terre?

D’ALEMA: Credo che mai come ora la nascita di uno Stato palestinese convenga a tutti. Conviene innanzi tutto ad Israele, perché sarebbe un formidabile incentivo per i paesi arabi a riconoscerne l’esistenza. Questo è il senso dell’iniziativa di pace araba. I vantaggi per Israele in termini di sicurezza sarebbero enormi. Da un lato, infatti, essa vedrebbe sfumare, o almeno fortemente attenuarsi, l’eterna minaccia rappresentata da regimi arabi ostili; dall’altro, potrebbe finalmente inaugurare una politica di sicurezza basata sulla cooperazione, piuttosto che sulla deterrenza. In quest’ottica, per Israele è sicuramente meglio avere a che fare con uno Stato palestinese che con confuse entità subnazionali in contrasto fra loro, con le quali qualsiasi ipotesi di cooperazione risulterebbe velleitaria.
In secondo luogo, conviene all’Europa, che vedrebbe venir meno uno dei principali fattori di instabilità nell’area mediorientale e mediterranea. Un contributo importante dell’Unione Europea alla pace sarebbe l’inclusione di Israele, del futuro Stato palestinese e della Giordania in ambiti di cooperazione che ne promuovano il benessere e la sicurezza. Penso in particolare a forme di associazione ad hoc all’Unione Europea, che incentivino la creazione di un mercato comune nell’area, e all’estensione, a determinate condizioni, dell’iniziativa “Partnership for Peace” della NATO.
L’esistenza di uno Stato palestinese sarebbe poi vantaggiosa per gli Stati arabi, che per lungo tempo hanno guardato alla questione palestinese come ad un elemento di destabilizzazione dei rispettivi assetti politico-sociali. Salvo poi scoprire che è vero il contrario, in quanto la mancata soluzione del conflitto e il suo progressivo intensificarsi costituiscono un potente fattore di radicalizzazione delle opinioni pubbliche arabe.
Infine, la formula “due popoli, due Stati” conviene agli Stati Uniti, che in questa fase hanno un forte bisogno di riequilibrare la loro posizione verso il mondo arabo. Tutti questi soggetti, peraltro, condividono il timore di un’espansione dell’influenza iraniana, il che può rappresentare un’ulteriore spinta alla soluzione del conflitto.

LIMES: Ma Israele e gli Stati Uniti vedono in Hamas, che oggi domina a Gaza ed è forte anche in Cisgiordania, uno strumento del regime di Teheran. Per quale ragione Olmert e Bush dovrebbero favorire la creazione di uno Stato palestinese in cui una fazione filo-iraniana avrebbe un ruolo decisivo?

D’ALEMA: Perché proprio Hamas è la riprova del fallimento di quella logica della contrapposizione e dell’escalation che ha finora caratterizzato la gestione del problema palestinese. Hamas non nasce in Iran né per iniziativa iraniana. Esso scaturisce storicamente dai Fratelli musulmani e dalla tragedia palestinese. Tuttavia, oggi è senza dubbio un asset del governo di Teheran. Bisogna chiedersi perché. Per decenni, l’obiettivo principale di una parte della leadership israeliana – salvo rare, illuminate eccezioni – è stato il mantenimento dello status quo, al fine di preservare le conquiste territoriali del 1967 e, con esse, la sicurezza e il carattere erbraico dello Stato. Le concessioni ai palestinesi non si spingevano oltre una corona di bantustan sotto stretto controllo di Israele. In quello spazio parcellizzato dall’occupazione israeliana lo sviluppo di un’entità statuale autonoma è fisicamente impossibile.
Oggi, in una parte della classe dirigente israeliana comincia a farsi strada l’idea opposta, ovvero che l’intransigenza rispetto ad ogni soluzione negoziale non rappresenti la soluzione del problema, ma ne sia parte integrante. Ci si comincia a rendere conto che il prolungarsi del conflitto, conseguenza della volontà di alcuni settori della classe dirigente israeliana di “gestire” la crisi invece di risolverla, sta producendo la progressiva trasformazione del problema palestinese da questione nazionale a questione religiosa. Un esito micidiale: se una disputa fra nazioni offre spazi per una soluzione negoziale, seppur sofferta – basti pensare alla formula “land for peace” – uno scontro di religioni chiude ogni spazio alla trattativa. L’obiettivo diventa l’annientamento del nemico, dell’“infedele”. A complicare ulteriormente la questione si aggiungono l’incertezza e la frammentazione politica, che dominano oggi in entrambi i campi, palestinese e israeliano.

LIMES: Americani e israeliani, ma anche molti europei, vedono nella vittoria di Hamas a Gaza un’opportunità. Paradossalmente, la rottura fra un gruppo che noi occidentali classifichiamo terrorista e la leadership storica dell’Anp può favorire la pace. Di “speranza” parla anche la lettera di dieci ministri degli Esteri europei, da lei sottoscritta, inviata lo scorso 9 luglio all’ex premier britannico Tony Blair, ora inviato speciale del Quartetto in Medio Oriente. Può spiegarci questo paradosso?

D’ALEMA: Quella di una guerra civile in campo palestinese è una prospettiva infausta: su questo tutti i firmatari della lettera dei dieci, frutto dell’iniziativa francese, si trovano d’accordo. Tuttavia, in quella lettera si rileva anche che il conflitto tra estremisti e moderati in ambito palestinese offre indirettamente due opportunità. In primo luogo, rende più stringente per Israele e per gli Stati Uniti la necessità di appoggiare i moderati, guidati da Abu Mazen, aiutandoli a migliorare le pessime condizioni di vita dei palestinesi e di porsi in tal modo come alternativa ai fondamentalisti, il cui messaggio fa breccia in popolazioni prostrate da decenni di oppressione e di profondo degrado economico e sociale. La seconda opportunità consiste nel fatto che possiamo e dobbiamo offrire ai moderati palestinesi una valida prospettiva politica. Il rafforzamento della leadership palestinese moderata, che rappresenta l’interlocutore ideale per un accordo di pace, rappresenta l’unica alternativa valida al diffondersi dell’estremismo religioso.
Ma le due opportunità saranno sprecate se alla prossima conferenza di Wasington non sarà definita una cornice negoziale certa quanto a tempi e obiettivi. Uno Stato palestinese entro una data stabilita. Solo così possiamo offrire ad Israele, ai palestinesi e agli Stati arabi una credibile prospettiva di pace. E’ ora di superare la logica del “processo di pace” come finora lo si è inteso. Tale logica ha mostrato chiaramente i suoi limiti. Il negoziato non può protrarsi all’infinito, senza un chiaro approdo. Viceversa, esso deve essere finalizzato a raggiungere un trattato di pace in tempi certi, che affronti l’insieme delle questioni politiche e territoriali connesse al conflitto, avendo come priorità le esigenze dei palestinesi, che rappresentano la parte di gran lunga più debole. Un simile accordo è per forza di cose vasto e di complessa attuazione, pertanto è ragionevole supporre che la sua applicazione avvenga per fasi. Ma un conto è parlare di gradualità circa l’attuazione di un compromesso atteso da decenni, altro è continuare ad applicare lo stesso criterio all’intero iter negoziale, con il risultato di dilatarlo all’infinito.
È inoltre fondamentale che di ciò si convincano anche gli Stati Uniti. Per questo l’Italia guarda con fiducia alla conferenza sul Medio Oriente in programma a Washington per il mese di novembre. E’ l’occasione per gettare le basi di un piano di pace con tempi e obiettivi definiti.
Molti segnali indicano che la maggioranza dei palestinesi vuole la pace. Senza contare che la prospettiva di una vera pace cambierebbe profondamente gli equilibri interni alla società palestinese, che non è riducibile al dualismo Hamas-Fatah. C’è un’ampia diaspora palestinese, dotata di notevoli risorse finanziarie e intellettuali, che potrebbe essere richiamata in patria dalla prospettiva di una pace duratura, fornendo così un prezioso contributo allo sviluppo del futuro Stato. Lo stesso Hamas è un’entità complessa, la cui ala militare convive con componenti politicamente più moderate.

LIMES: Ma siamo sicuri che Fatah è moderato? La maggior parte dei razzi che piombano sulle case israeliane presso Gaza sono sparati da milizie collegate a Fatah, mentre negli ultimi anni Hamas ha scatenato la sua forza militare più contro i suoi avversari politici palestinesi che contro Israele.

D’ALEMA: Più che di milizie, si tratta di schegge fuori controllo. Ma insisto: occore un’analisi meno superficiale. Come la società palestinese non è riducibile all’alternativa Hamas/Fatah, così il risveglio religioso nel mondo arabo-islamico non autorizza ad ascrivere tutte le azioni violente contro Israele al “nemico islamico”, sia esso al-Qā‘ida o l’Iran. Nei mesi precedenti alla guerra in Iraq, e poi ancora per lungo tempo dopo la conquista di Baghdad, i neoconservatori americani assicuravano che la diffusione della democrazia in Medio Oriente avrebbe comportato la marginalizzazione dei movimenti radicali. L’ascesa al potere di Hamas, attraverso regolari elezioni, ha messo in crisi queste certezze. Oggi anche gli Stati Uniti sembrano piu’ prudenti sui tempi e sui modi dell’affermazione della democrazia – esito che tutti auspichiamo – nel Medio Oriente.

LIMES: Infatti la fase “trozkista” dell’amministrazione Bush – l’esportazione della democrazia nel mondo – è durata poco. Washington non minaccia la stabilità degli Stati autoritari nel campo islamico, purchè “amici”.

D’ALEMA: Sì, quella fase è durata poco. Ma davvero l’Occidente non ha altra alternativa che appoggiare le autocrazie mediorientali? O esiste un islamismo politico in grado di assumere caratteri democratici, non violenti? Io credo di sì.

LIMES: E chi sarebbero questi islamisti democratici?

D’ALEMA: Penso al caso dell’Egitto, ove i Fratelli musulmani potrebbero divenire un movimento politico vasto e variegato, non necessariamente antidemocratico; penso all’opposizione islamica giordana, al partito islamico del Marocco ora all’opposizione e a quello della Turchia, attualmente al governo. Da laico, non nutro simpatie verso i movimenti islamisti. Tuttavia, non ritengo che sia saggio etichettare come terroristi movimenti e partiti che godono di grande consenso popolare ed elettorale solo perché di ispirazione islamica.

LIMES: Perché Israele si fida degli Stati Uniti e non si fida degli europei?

D’ALEMA: Innanzi tutto per intuibili ragioni storiche, le cui radici affondano purtroppo in un’antica tradizione europea di antisemitismo. Una tradizione i cui segni sono ancora visibili in vari paesi europei. Meno in Italia: per fortuna, il nostro paese, con la drammatica eccezione delle leggi razziste del fascismo, non ha una storia di antisemitismo acuto.
Gli israeliani tendono ad affidarsi agli americani perché hanno sinora concepito la propria sicurezza in termini principalmente militari, contando dunque sulla protezione della superpotenza Usa. In questa cornice, l’Europa ha svolto il ruolo importante, ma pur sempre secondario, di partner economico e commerciale.

LIMES: E allora che possiamo fare noi europei per contribuire alla pace?

D’ALEMA: Credo che in questa fase, caratterizzata da una profonda incertezza internazionale, il ruolo europeo sia potenzialmente maggiore rispetto al passato. La guerra del Libano, l’estate scorsa, ha dimostrato a Israele che la sua sicurezza non può fondarsi solo sul fattore militare. Al riguardo, l’azione dell’Europa è stata fondamentale: se oggi dal Libano meridionale non si spara più su Israele, è soprattutto perché gli europei hanno preso l’iniziativa di inviarvi, rafforzando la missione Unifil, una robusta forza internazionale. L’Europa ha dimostrato di potersi ritagliare un proprio ruolo, in parte autonomo da quello degli Stati Uniti. E ha fatto in primo luogo l’interesse di Israele, che ora più che mai ha bisogno di amici in grado di esprimere posizioni autonome e complementari rispetto a quelle degli Usa.

LIMES: Sulla questione israelo-palestinese e sugli equilibri mediorientali aleggia l’incognita iraniana. Il presidente francese Sarkozy ha osservato che rischiamo di trovarci di fronte all’alternativa tra bomba atomica iraniana o bombardamento dell’Iran. Concorda?

D’ALEMA: Condivido pienamente la preoccupazione di Sarkozy. Al contempo, sostengo che possiamo evitare di spingerci fino a quel bivio, che poi sarebbe un vicolo cieco. Da una parte, infatti, l’Iran potenza atomica scatenerebbe nel mondo arabo la corsa al nucleare. Né l’Egitto né l’Arabia Saudita accetterebbero il radicale sovvertimento degli equilibri regionali e farebbero di tutto per dotarsi di arsenali non convenzionali. E tuttavia, un attacco militare all’Iran avrebbe conseguenze devastanti. Ne deriverebbe, tra l’altro, con ogni probabilita’ un’offensiva terroristica su scala mondiale. Il Medio Oriente, e in particolare Israele, rischierebbe oggi di diventare teatro di pesanti rappresaglie iraniane.

LIMES: E allora?

D’ALEMA: L’Italia ha contribuito all’adozione di sanzioni contro l’Iran, divenute ad un certo punto inevitabili a causa della mancata cooperazione dell’Iran rispetto alle richieste della comunita’ internazionale. E lo abbiamo fatto nonostante gli alti costi che esse comportano per noi, dati i nostri cospicui interessi economici in Iran. Alle sanzioni, però, deve accompagnarsi l’iniziativa politica: usate da sole, infatti, la loro efficacia come strumento di pressione è, di norma, scarsa.
Una strada logica sarebbe chiedere il congelamento degli attuali livelli di arricchimento – al di sotto della soglia critica – come condizione minima per l’apertura di un negoziato. In sede di colloqui, poi, dovremmo intavolare trattative onnicomprensive, che spazino dal nucleare all’Iraq al futuro della Palestina, avendo cura di offrire a Teheran garanzie sufficienti per la sua sicurezza in caso di verificata rinuncia al nucleare militare. Credo che, mentre chiediamo giustamente all’Iran di abbandonare le sue ambizioni nucleari, occorre offrirgli garanzie circa la sua sicurezza in un contesto regionale così turbolento. In generale, non ha senso portare avanti trattative separate su singoli problemi che, in realtà, rappresentano aspetti diversi della stessa questione, vale a dire l’assetto complessivo del Medio Oriente post-Saddam.

LIMES: C’è un nesso fra l’iniziativa diplomatica americana sulla questione arabo-palestinese, più o meno convinta, e la preparazione di un attacco all’Iran per impedirgli di dotarsi di un arsenale atomico? Può essere anche un modo per cementare un fronte arabo-sunnita, aprendo allo Stato palestinese, in vista della guerra al regime di Teheran?

D’ALEMA: Non credo ci sia un nesso così automatico. Certo, in questa fase gli Stati Uniti hanno interesse a consolidare un fronte arabo-sunnita in funzione anti-iraniana. Del resto, è stata l’America stessa ad eliminare i due nemici storici dell’Iran, l’Iraq di Saddam Hussein e il regime talibano in Afghanistan, che fungevano da elementi di contenimento delle ambizioni di Teheran. Gli iraniani sorridono di questo, e sarcasticamente definiscono gli americani “i nostri migliori alleati”. Ora Washington cerca comprensibilmente e, mi pare, con maggior determinazione di correre ai ripari. E quindi anche di affrontare seriamente la questione palestinese.

LIMES: Se lei fosse israeliano, non considerebbe l’Iran una minaccia esistenziale?

D’ALEMA: Oggi Israele avverte l’Iran come la principale minaccia alla propria sicurezza. Ma paradossalmente, la convergenza tra Israele e Stati Uniti potrebbe contribuire alla soluzione della questione palestinese.

(ha collaborato Fabrizio Maronta)

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