Intervista
19 dicembre 2007

Esame di tedesco

Intervista di Bianca Berlinguer - Vanity Fair


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E’ vero. Fu lui il primo, dieci anni fa, a tentare il dialogo con l’opposizione sulle riforme istituzionali. Dunque non stupisce che oggi, mentre non si parla d’altro, rivendichi di aver precorso i tempi cogliendo in anticipo quello che poi sarebbe diventato il «problema» del paese. Ma allora fu contestato aspramente, e non solo dagli avversari: «Per questo mi dà fastidio l’immagine di un D’Alema furbo e tattico. Nella mia vita politica non c’è mai stato nulla di ciò. Al contrario, ho sempre cercato di avere una visione del Paese di lungo periodo, di guardare alle cose in modo strategico. E per questo ho pagato prezzi anche molto alti».
Dieci anni dopo, Massimo D’Alema, oggi ministro degli Esteri del governo Prodi, non sembra provare alcuna animosità (o almeno non lo dà a vedere) nei confronti di chi allora lo dileggiò e adesso applaude l’incontro tra Veltroni e Berlusconi.
Sia sincero: davvero non le dispiace neanche un po’ questa disparità di trattamento?
«No, davvero. Spero solo che questa volta le riforme si facciano sul serio».
Perché allora il dialogo fallì e oggi dovrebbe andare il porto?
«Non fallì affatto. La Bicamerale completò il suo mandato, approvò la riforma costituzionale con una larghissima maggioranza. Ricorderò sempre il discorso di Berlusconi che, alla fine dei lavori, disse: “E’ stato bello essere qui”. Ma dopo un mese votò contro quell’accordo che aveva salutato come una svolta storica».
Oggi quel rischio non c’è più? Ci si può fidare di Berlusconi?
«In questi anni tante volte mi è stato detto: hai fatto male a fidarti. Non io, ma milioni di italiani si sono fidati di lui. Io piuttosto ho discusso con lui delle riforme, sulla base di documenti e di proposte concrete. C’era un testo, lo abbiamo esaminato a fondo, Berlusconi prima ha detto di si, poi ha calcolato che gli conveniva tenere in piedi lo scontro ideologico con la sinistra, che quel tipo di bipolarismo frontale e brutale giocava a suo favore. Credo però che in questi anni si sia pentito più volte di aver buttato all’aria quell’occasione. Quando è stato presidente del Consiglio, se avesse potuto governare con le regole concordate in Bicamerale, avrebbe avuto meno condizionamenti, e tempi più rapidi per approvare nuove leggi».
Ma la bicamerale fallì solo per colpa di Berlusconi?
«Ci fu anche l’ostilità di una parte della sinistra che ama parlare delle riforme, ma poi, quando si tratta di farle… ha maggiori difficoltà. C’è stata una resistenza conservatrice anche dalla nostra parte, il timore che un cambiamento della Costituzione potesse portare a una deriva autoritaria, in particolare riguardo all’elezione diretta del capo dello Stato».
An, ma anche i partiti più piccoli, sparano a zero contro Berlusconi e Veltroni. Temono un asse privilegiato che li tagli fuori.
«Serve una riforma elettorale che riduca la frammentazione, spinga le forze minori a riorganizzarsi, aggregarsi, progettare un futuro diverso, come sta già avvenendo con la sinistra del governo. Una politica spezzettata come quella che abbiamo oggi rende il sistema ingovernabile. Ma, se si pensasse di fare una nuova legge ritagliata su misura per il Pd e per Forza Italia, sarebbe un errore, perché la riforma si potrà fare solo se riusciremo a trovare un ragionevole punto di equilibrio tra esperienze e interessi diversi».
Insomma a lei il Vassallum (il progetto di legge elettorale, un mix tra sistema spagnolo e tedesco, tra maggioritario e proporzionale: il cosiddetto “Vassallum”, dal nome del costituzionalista Sebastiano Vassallo, ndr)?
«Il problema non è che piaccia a me, ma che venga accettato da un’ampia maggioranza parlamentare. Se poi mi chiede quale è il sistema che io preferisco, potrei rispondere con una battuta: il più favorevole per il mio partito. Scherzi a parte, il punto vero è che dobbiamo lavorare per il sistema elettorale più vantaggioso per il Paese».
Lei ha fatto capire che quello che più apprezza è il sistema tedesco: proporzionale con soglia di sbarramento. Su questo la mediazione è possibile?
«Il dibattito sulla legge elettorale non esaurisce tutte le questioni. Il nodo da sciogliere non riguarda solo il sistema di voto, ma anche – direi soprattutto - la forma di governo. In questi anni abbiamo escogitato una cosa strana e pericolosa. Una sorta di presidenzialismo di fatto. I cittadini sono convinti di eleggere il capo del governo, ma la nostra Costituzione prevede un sistema parlamentare. È arrivato il momento di scegliere: o il presidenzialismo alla francese, ma ci vuole il doppio turno, o un governo parlamentare rafforzato».
Come in Germania?
«Il cuore del sistema tedesco non consiste solo nello sbarramento elettorale, ma soprattutto nel favorire un governo forte e stabile. Il giorno dopo le elezioni il Bundestag elegge il Cancelliere e, da quel momento in poi, mandarlo a casa è molto difficile perché ci vuole la sfiducia costruttiva: la maggioranza assoluta dei parlamentari deve firmare un documento dove si indica un programma alternativo e un nuovo capo del governo. A quel punto l’esecutivo non è più soggetto al rischio che, se un senatore si assenta cinque minuti, crolla tutto».
Dunque la sua proposta è in alternativa al Vassallum?
«La contrapposizione tra Veltroni, che vuole il Vassallum, e D’Alema, che preferisce il tedesco puro, è una scemenza. C’è una discussione che coinvolge tutti e si dovrà trovare un punto di equilibrio in Parlamento».
Non c’è il rischio, come dice qualcuno, che con una legge proporzionale nasca un nuovo Centro che torni a essere l’ago della bilancia e si allei, secondo convenienza, con la destra o con la sinistra?
«Il Centro c’è già. Casini, Pezzotta, Mastella… Ci sono forze moderate che non riusciamo a conquistare al PD e che non si riconoscono in Berlusconi. Sono destinate, se ci sarà una nuova legge elettorale, a fare fronte comune. Ma a un ritorno del Centro, motore immobile della politica, come è stato nel passato, non ci credo proprio, anche se è stato scritto che io auspicherei la nascita di un “un nuovo Centro”. Penso infatti che il bipolarismo sia oramai entrato nella testa degli italiani. Succederà come in Germania, dove il partito liberale non è stato “l’ago della bilancia”: si è alleato con i socialisti o con i cristiano-democratici, per cercare di condizionarne le politiche di governo. Ma a far pendere la bilancia da una parte o dall’altra sono stati gli elettori, scegliendo fra i due partiti più forti del centrodestra o del centrosinistra».
Ma il leader di Forza Italia dice che Casini è ormai irrecuperabile, andrà a sinistra…
«Per Berlusconi tutti quelli che non stanno con lui sono comunisti. Non conosce vie di mezzo».
Le riforme vanno fatte comunque, anche se a farne le spese potrebbe essere proprio Prodi?
«Riforme e governo non devono danneggiarsi a vicenda. Il Paese ha bisogno in pari misura sia di riforme istituzionali che della continuità dell’azione di governo. Noi abbiamo il dovere di farle perché ormai sono diventate la priorità. Tornare al voto senza averle fatte significa condannare il Paese a grosse difficoltà ancora per molti anni. Ma il loro percorso non riguarda la vita del governo, che deve proseguire il buon lavoro che sta facendo. Alla Camera, la Commissione Affari costituzionali ha già adottato un progetto di riforma che si sta discutendo in Aula. Contestualmente, in Senato, la stessa Commissione sta affrontando, e mi auguro che possa approvare al più presto, un testo base che naturalmente potrà essere migliorato nel corso del confronto. Un testo, quello proposto da Bianco, che recepisce i punti fondamentali su cui già tutte le forze politiche si sono pronunciate: proporzionale senza premio di maggioranza, soglia di sbarramento e recupero del rapporto tra elettori ed eletti».
Ma su quella bozza già mezzo Parlamento è insorto.
«Consiglierei di valutare compiutamente quel testo nella sua formulazione definitiva, che conosceremo nei prossimi giorni. Forse allora molte critiche si riveleranno infondate».
A proposito di governo. Ogni giorno ha la sua pena: i sindacati minacciano lo sciopero generale, Rifondazione annuncia la sua fine, anche se poi ci ripensa. Riuscirà a sopravvivere?
«I sindacati pongono un problema giusto. I salari e le retribuzioni minime devono migliorare, sono troppo bassi. C’è poi la crescente distanza tra i redditi di certe categorie professionali e quelli dei lavoratori dipendenti, che è diventata in molti casi insostenibile. Abbiamo bisogno di un nuovo patto sociale che consenta da una parte di migliorare la produttività del lavoro, e dall’altra di migliorare salari e stipendi. Il governo dal canto suo ci può mettere una politica di riduzione della fiscalità sui salari, ma il sindacato deve essere disponibile a rivedere il vecchio impianto della contrattazione centralizzata, che ormai non funziona più. A gennaio ci sarà quella che tutti con una parola orribile chiamano…»
Verifica?
«… Lo ha detto lei! Sarà quella l’occasione giusta per rilanciare la missione di questo esecutivo, che ha già realizzato tante cose buone. Quando Prodi si è insediato il rapporto deficit-PIL era intorno al 5% e il tasso di crescita a zero. Un anno e mezzo dopo abbiamo risanato la finanza pubblica, riavviato la crescita economica. C’è perfino una ripresa della competitività. Se Berlusconi, con i numeri risicati che abbiamo al Senato, avesse raggiunto questi risultati, si sarebbe fatto incoronare imperatore. Lui avrebbe certamente esagerato, ma noi esageriamo in senso inverso: siamo sempre pronti ad autoflagellarci».
Si riferisce a Rifondazione?
«Se la sinistra che sta al governo non rivendica le tante cose di sinistra che questo esecutivo ha fatto… Nell’accordo sul welfare con il sindacato abbiamo, per la prima volta da 15 anni, aumentato le pensioni, e siamo intervenuti su quelle future delle giovani generazioni. Non solo: quell’intesa è stata approvata da cinque milioni di lavoratori. E a questo punto Rifondazione che cosa fa? Invece di esibirla come un fiore all’occhiello, ne fa il bersaglio principale della sua polemica».
Bertinotti però dice che questo governo ha alimentato la distanza dal popolo della sinistra.
«Qui il problema non è il popolo della sinistra, semmai per Rifondazione si pone il problema di come coniugare il ruolo di governo con le domande che provengono dal proprio mondo di riferimento. A mio parere la strada non può essere quella di tornare ad una logica ristretta e minoritaria, e penso che il progetto a cui sta lavorando la sinistra della coalizione di governo dovrà misurarsi con le grandi sfide, le grandi questioni di politica estera…».
A proposito di politica estera, oramai non sembra pensare ad altro.
«Fare il ministro degli Esteri mi restituisce una dimensione della politica di grande respiro, che mi appassiona. La politica che si occupa dei problemi del mondo: la pace, la guerra, il terrorismo, la povertà, l’ambiente…E il grande tema dei diritti umani, che ci ha visti molto impegnati, come nel caso dell’iniziativa che abbiamo lanciato alle Nazioni Unite per una moratoria sulla pena di morte».
Il D’Alema privato come è? Notoriamente ha un brutto carattere, lo riconosce?
«Assolutamente no: sono una persona molto tranquilla, soprattutto con la mia famiglia e i miei amici che niente hanno a che fare con la politica».
E’ un padre severo?
«Tutto il contrario: come tutti i padri assenti sono molto indulgente e concessivo, a volte rimproverato per questo da mia moglie, che, anche se ha una sua vita professionale importante e di soddisfazione, è molto attenta all’educazione dei nostri due figli: Giulia e Francesco».
Non le rimproverano mai di avere troppo poco tempo per loro?
«Qualche volta. Mi accusano di essere distratto, ma in famiglia abbiamo un buon rapporto, molto affettuoso. Giulia è più aperta, autonoma e organizzata, come sono le donne. Se ha un problema viene subito a parlarcene. Francesco ha un carattere più riservato».
Forse, essendo il figlio maschio, avrà il problema di emanciparsi dalla figura di un padre “ingombrante” anche al di là della sua volontà...
«Forse, ma ha il vantaggio fisico di essere molto diverso da me: è molto alto, e molto bello. Insomma, mi guarda dall’alto».
Quando non lavora che cosa fa? La Tv la guarda mai?
«Le partite della Roma, Roberto Benigni, e poi soprattutto l’informazione su Sky Tg 24, anche perché è più facile da consultare, a qualsiasi ora. Ma appena ho del tempo libero leggo, soprattutto romanzi».
Torniamo alla politica. Tra i suoi avversari chi stima di più?
«Ce ne sono diversi… Con Bruno Tabacci, per esempio, mi sento affine, abbiamo la stessa idea della politica. Anche Gianfranco Fini, e altri».
E tra le personalità che ha incontrato come ministro degli Esteri?
«Sonia Gandhi. Una donna di Orbassano, provincia di Torino, che studia a Cambridge, si innamora di un bel ragazzo indiano, lo sposa e diventa parte di una grande famiglia, quella del Mahatma Ghandi. L’amore per quell’uomo diventa amore per il suo popolo. La suocera le muore tra le braccia, poi le uccidono il marito. A quel punto sente la missione di assumere una forte responsabilità politica in India, e lo fa. Ricevendomi a casa sua mi ha detto: “Io sono un leader politico di questo Paese, parlo inglese o indiano. Scelga lei”. E da quel momento non ha mai pronunciato una parola d’italiano».
Un’ultima domanda: le piace come Veltroni sta facendo il segretario del Pd? Faccia un elogio e una critica.
«Ho apprezzato molto il modo in cui ha preso in mano il tema delle riforme. È riuscito a farlo diventare il punto centrale dell’agenda politica del Paese. E, al tempo stesso, la difesa molto netta che fa del governo e della sua stabilità. Per il Pd però c’è ancora molto da fare, sia per quanto riguarda la piattaforma ideale e culturale che per quanto attiene al modello organizzativo. Su questi punti stanno lavorando le Commissioni varate dall’Assemblea congressuale».
Che consiglio gli darebbe?
«Quando se ne discuterà, dirò anch’io la mia opinione».

Nel frattempo, D’Alema tace. Ma non è detto che acconsenta.

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