Intervista
16 marzo 2008

D'Alema: dentro il Pd la visione di Moro

Intervista di Ninni Andriolo - L'Unità


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“Mantengo un ricordo vivissimo di quella giornata cruciale”. A trent’anni dal rapimento di Aldo Moro, Massimo D’Alema riflette sulla portata, ancora attuale, di una vicenda tragica scolpita nella memoria collettiva del Paese. “Ho sempre pensato che la Prima Repubblica sia finita lì, tra il marzo e il maggio del 1978”, afferma il ministro degli Esteri, che si sofferma anche sull’eredità politica dello statista democristiano trucidato dalle Brigate Rosse. Attento a non cadere nella tentazione di parallelismi superficiali tra l’Italia di allora e quella di adesso, D’Alema individua nel Pd “un soggetto politico riformista del tutto nuovo”, che si ispira tuttavia alla visione morotea della “democrazia compiuta”, “dell’alternanza” e “dell’interesse generale della nazione” parte integrante della tradizione “migliore” dei grandi partiti di massa.

Presidente D’Alema quali ricordo serba di quei giorni drammatici?
“Avevamo vissuto una crisi di governo molto problematica, con la politica delle astensioni il Pci si trovava in una posizione di sofferenza, in mezzo al gaudo. E, soprattutto per iniziativa di Moro, si lavorava per compiere il passo in avanti della partecipazione piena del Partito comunista alla maggioranza di governo”.

Una scelta contrastata anche all’interno della Democrazia cristiana..
“Sì, quella strada comportava problemi seri per la Democrazia cristiana, rischi anche per la sua unità interna. Alla fine, Moro aveva pagato il prezzo della formazione di un governo che, proprio per le esigenze dell’unità interna del suo partito, non poteva definirsi innovativo, anche perché esprimeva una compagine molto deludente. La giornata del rapimento si annunciava già come delicata. Il governo si presentava alle Camere e c’era un clima difficile anche all’interno del gruppo dirigente del Pci”.

Lei era segretario della Fgci, come apprese la notizia dell’agguato a Moro?
“Era mattina. Io, a quei tempi, abitavo a Roma, vicino Villa Bonelli. Stavo andando verso il centro e venni raggiunto dalle notizie drammatiche che trasmetteva la radio. Fu uno shock enorme. Ricordo una drammatica riunione della direzione del Pci, che si tenne alla Camera, negli uffici del gruppo parlamentare. Berlinguer spiegò che bisognava reagire garantendo un governo al Paese e votando la fiducia”.

Si espressero valutazioni diverse?
“Ricordo, come se fosse ora, l’intervento molto forte di Amendola. Spiegò che in una situazione diversa avrebbe posto il problema se si potesse concedere o no la fiducia al governo. Lui, infatti, era molto critico per la composizione di quell’esecutivo, così come Cossutta e altri. Esortò, però, in quella situazione drammatica e con la minaccia che incombeva sulla democrazia, a compiere quel passo”.

Si propose da subito il tema della fermezza nel rifiutare trattative con le Brigate Rosse?
“Ricordo che Amendola, in quello stesso intervento, avvertì immediatamente che il problema piu’ delicato sarebbe stato se lo Stato potesse trattare con i terroristi. “Questo non lo si può fare – sottolineò con forza - sarebbe un tradimento verso i magistrati, verso i poliziotti, verso tutti coloro che rischiano la vita”. Un discorso breve, ma molto intenso. Con il quale lanciò da subito la linea della fermezza come impossibilità per lo Stato di trattare con i terroristi”.

E cosa ricorda ancora, presidente?
“Ho ricordi molto nitidi. Poi ci furono le manifestazioni, la gente in piazza, le bandiere dei sindacati, della Dc, del Pci. Il Paese reagì unito di fronte a quell’evento tragico che lo ha segnato negli anni. Tra il marzo e il maggio 1978, l’ho sempre pensato, è finita la Prima Repubblica, è quella la vera data periodizzante. La fine del ruolo propulsivo dei grandi partiti popolari, democratici e di massa va collocata lì. Da lì inizia un lento declino caratterizzato anche dalla incapacità del sistema di riformarsi e di costruire una democrazia dell’alternanza”.

In questi anni la linea della fermezza è stata messa spesso in discussione. Fu giusto non trattare con le Brigate Rosse per liberare Moro?
“Secondo me si tratta di un dibattito abbastanza ozioso. Tra l’altro non è chiaro, sulla base di tutte le ricostruzioni, se effettivamente vi sia stata la possibilità di trovare un’altra soluzione. Sinceramente è dubbio che una linea diversa avrebbe potuto salvare Moro. Difficile dirlo”.

Con il rapimento e l’omicidio si bloccò sul nascere anche il processo politico che Moro aveva immaginato…
“Uccidendo Moro fermarono la transizione. Moro aveva chiaro che bisognava creare le condizioni per quella che lui chiamava “la terza fase”. Che consisteva, in sostanza, in una compiuta democrazia dell’alternanza. La prospettiva di Moro non era il “compromesso storico”. Ma un compromesso che affrontasse l’emergenza, perché non bisogna dimenticare che l’intesa tra grandi partiti nasceva in una situazione di crisi economica molto difficile. Nello stesso tempo, però, Moro gettava le basi perché il maggior partito della sinistra italiana potesse essere riconosciuto come forza di governo. E perché, in qualche modo, la Democrazia cristiana non fosse piu’ – utilizzando le sue stesse parole - “condannata a governare” in ogni caso. In questa condanna, infatti, Moro individuava anche un rischio per il sistema democratico. Immaginava, quindi, una democrazia compiuta nella quale ci fosse una comunione di valori e una legittimazione a governare per tutte le grandi forze politiche in campo. In questo senso Pci e Dc erano soggetti di una transizione capace di gettare le fondamenta per una terza fase nella quale, poi, si sarebbero articolate due posizioni alternative”

Il problema di una democrazia compiuta è ancora sul tappeto, dopo trent’anni…
“L’Italia rimane una democrazia fragile, perché il problema di un reciproco riconoscimento, e di un quadro di regole e di valori condivisi, deve ancora trovare una soluzione. Alla fine, va rilevato, gli eredi di quella politica hanno finito per ritrovarsi tutti dalla stessa parte”.

Moro molto piu’ avanti di altri esponenti del suo stesso partito. Perché secondo lei?
“La necessità di un sistema politico aperto all’alternanza è legata a un’analisi della società italiana. Non fu indifferente per Moro la riflessione sul ’68. Ebbe la percezione profonda di una vicenda non riconducibile a fenomeno marginale, a forma di folclore giovanile. Per lui si era realizzata, in realtà, una rottura profonda della società alla quale la politica doveva dare risposta. In Moro è fortissimo il tema del rapporto politica-società, del primato della politica inteso come capacità dinamica di rispecchiare i movimenti, le crisi e i bisogni sociali in evoluzione. E’ partendo dal ’68 che Moro elabora l’idea di una democrazia piu’aperta, capace di promuovere un ricambio delle classi dirigenti”.

Reichlin sostiene che Moro si pose il problema di allargare le basi ristrette del capitalismo italiano…
“Il tema di Moro è stato sempre quello della democrazia, dell’allargamento delle basi del sistema democratico. Se questo non si fosse posto l’obiettivo di allargare la sua rappresentanza, infatti, i movimenti della società avrebbero potuto svolgersi al di fuori della possibilità di una mediazione politica, mettendo a rischio la democrazia. Moro è stato un pensatore della democrazia”.

Scoppola sostenne che il Partito democratico incarna il processo fondativo della democrazia italiana. Lo stesso che subì un colpo con l’assassinio di Moro…
“Sicuramente noi ereditiamo la visione della necessità di una democrazia compiuta, di una riforma delle istituzioni in grado di organizzare una democrazia dell’alternanza. Questo è il tema di fondo che abbiamo perseguito nel corso degli anni. Per realizzare, anche insieme agli altri, un quadro di regole condivise. Quest’ispirazione morotea, come dimostrano i fatti, nemmeno oggi è facile da costruire. Ho cercato di tradurla in un’espressione: “fare dell’Italia un Paese normale”. Certo, rispetto alle categorie dell’analisi di Moro sono cambiate molte cose. Perché noi ci siamo impegnati nella costruzione di un soggetto riformista di tipo nuovo e le culture politiche sono andate oltre. Ci sono state delle rotture che non erano percepibili ai tempi di Moro”

Ad esempio?
“La fine della guerra fredda. Io vedo oggi un elemento forte di continuità, la necessità di dare fondamento condiviso alla democrazia dell’alternanza che, altrimenti, si traduce nella rissa lacerante conosciuta spesso in questi anni. E vedo un elemento di novità nel mutare dei soggetti politici e delle ispirazioni politiche perché, nel dopo guerra fredda, la fusione tra cultura cattolica, riformista e sinistra, è apparsa possibile. Anche nella visione morotea, infatti, quell’incontro si traduceva in un patto congiunturale e non in una visione strategia. Non c’è dubbio che il Partito democratico eredita la visione democratica di Moro. Ma quello che nasce è un soggetto politico che esprime una realtà che nell’epoca di Moro non era pensabile”.

Moro esprimeva anche una percezione dell’interesse nazionale, comune ad altri leader dell’epoca, basti pensare a Berlinguer, e che la politica oggi lascia spesso sullo sfondo…
Non c’è dubbio. E non c’è dubbio che il Pd interpreta l’idea dell’interesse generale propria della stagione migliore dei partiti, L’idea, cioè, che la politica deve cercare di dirigere il Paese e non di rispecchiarne soltanto gli interessi particolari. Moro, però, aveva anche una certa visione del ruolo dell’Italia…”

A proposito della collocazione internazionale del nostro Paese?
“Non per tornare alle polemiche di queste ore. Ma l’idea di una grande politica estera condivisa nei suoi fondamenti, di cui Moro è stato uno dei promotori, sostanzia da sempre l’iniziativa di un’Italia che è parte dell’Occidente, parte dell’Unione europea ed alleata degli Stati Uniti. E che svolge, assieme, un ruolo specifico nel Mediterraneo dialogando, come Paese di frontiera, con il mondo arabo”.

Moro, peraltro, pagò anche un prezzo politico ad un’alleanza con gli Usa che teneva in conto gli interessi autonomi della Nazione…
Interpretava un’idea adulta del rapporto con gli Stati Uniti, un’alleanza in cui non scompariva il senso anche dell’interesse nazionale italiano e della collocazione geopolitica del nostro Paese. Non dimentichiamo che uno dei frutti della stagione della “solidarietà nazionale” fu l’approvazione di una piattaforma di politica estera condivisa. E anche il Pci maturò una piu’ compiuta scelta euro-atlantica. Questa evoluzione del Partito comunista fu sicuramente incalzata dalla Dc e da Moro. La convergenza sui fondamenti della politica internazionale era vista da lui come una delle condizioni della “terza fase”. Nei sistemi democratici dove vige l’alternanza, i grandi fondamenti della politica estera sono condivisi. Non possono cambiare ogni cinque anni, infatti”.

Moro era un leader politico meridionale. Espressione della Puglia, terra che la elegge parlamentare…
“Per Moro la questione del Mezzogiorno era centrale e rappresentava un problema della nazione italiana, dello Stato italiano. La migliore stagione meridionalistica della Dc, della quale Moro è stato un grande protagonista, si è avuta quando il Mezzogiorno è diventato un obiettivo della politica nazionale del Paese. Moro non ha mai cavalcato il particolarismo. Si tramanda che avesse anche una certa diffidenza verso il suo partito come portatore di istanze particolari. I suoi amici pugliesi, raccontano ancora oggi che quando qualcuno di loro lo esortava, “presidente potremmo cercare di ottenere il segretario della Dc”, lui rispondeva che “l’importante”, semmai, era “scegliere bene il prefetto”. Aveva l’idea che quello del Mezzogiorno è un problema di tutto lo Stato italiano. Un grande tema di politica nazionale che rifuggiva dal rivendicazionismo meridionale. E questo continua ad essere assolutamente vero”.

Lei, in queste settimane, mette spesso l’accento sul rischio che il Sud possa venire emarginato dall’alleanza tra Berlusconi e la Lega.
"Berlusconi è il contrario di Moro. E’ l’idea che la politica debba rispecchiare una somma di istanze particolaristiche agitate in modo confuso. Un assemblaggio di tanti bisogni diversi che tali rimangono e che non vengono ricollegati a un progetto per il Paese. E in quell’assemblaggio il Mezzogiorno conta sempre di meno. Berlusconi ha fatto una duplice operazione. Si è spostato a destra, perché ha rotto con il mondo ex democristiano e si è fuso con il mondo ex fascista, e ha spostato a Nord il suo asse politico. La Lega ha assunto un ruolo assai maggiore di quello che aveva con il bilanciamento dell’Udc, componente piu’ moderata ma anche piu’ meridionale dell’alleanza di centrodestra. Abbiamo, quindi, una destra piu’ destra e molto piu’ nordista, leghista nel senso di un nordismo molto piu’ antimeridionale".

Esiste anche una questione settentrionale, tuttavia…
“Che i bisogni del Nord debbano trovare una risposta nella politica nazionale è assolutamente essenziale, anche per il Mezzogiorno. Il Nord deve tornare a crescere e a essere competitivo. Ma il nordismo antimeridionale è altra cosa e divide il Paese”.

Nel centrodestra era Fini il contrappeso della Lega nel Sud, oggi non è piu’ così?
“Forse si potrebbe dire, semplicemente, che una volta c’era Fini”.

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