Intervista
26 marzo 2008

D'Alema picchia duro: «Berlusconi da Sudamerica»<br>

Conversazione con Stefano Cappellini - Il Riformista


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Seduto a un tavolo dell’hotel Oriente di via Diaz a Napoli, reduce dalle tappe elettorali a Scampia e Forcella, e prima di proseguire il tour per Portici e Torre Annunziata, Massimo D’Alema veste ormai a pieno l’abito del capolista alla Camera in Campania per il Partito democratico. Abito nemmeno troppo scomodo, del resto, per chi ha già calato in passato i panni dell’«eurodeputato del sud» e del «deputato di
Gallipoli». Ma nel cursus honorum dalemiano le dizioni correnti dicono ancora: vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri.
Due postazioni privilegiate per consegnare al Riformista una interpretazione di questa campagna elettorale, nonché dei possibili scenari futuri, tarata sul paradigma del caso Alitalia. D’Alema difende il governo Prodi («L’unico che abbia affrontato davvero il problema») e la soluzione Air France.Boccia la «convergenza tattica» tra berlusconismo nordista e sinistra bertinottiana.La ricetta del Cavaliere per la compagnia di bandiera? «Da America Latina degli anni Cinquanta.
L’unico suo obiettivo serio è farsi prestare un miliardo di euro dai contribuenti italiani ». La cordata italiana di imprenditori “amici”? «Non c’è, e se anche ci fosse non andrebbe lontano». Malpensa? «Non l’ha affossata Roma ladrona, ma quelli che come Formigoni oggi la ergono a simbolo e che in questi anni non hanno fatto niente per sostenerla».
Quanto al sindacato, dice D’Alema, «capisco le ragioni del negoziato, meno quelle che rischiano di sabotare la trattativa».
Ma il vero punto, secondo il vicepremier, è il collegamento tra la natura dell’offensiva berlusconiana su Alitalia e il rischio che il sistema paese correrebbe in caso vittoria del Pdl: «Berlusconi non ha più idee, non ha spinta propulsiva, non ha classe dirigente, e per di più si presenta con questa impronta leghista.La sua vittoria sarebbe solo un accasciarsi sul potere, un disastro che dal punto di vista internazionale provocherebbe l’accelerazione del processo di marginalità del paese. Qui rischia di andare fuori mercato non Alitalia, ma l’Italia tutta». Dice D’Alema che nel
Berlusconi versione Alitalia la cifra prevalente è il «cinismo propagandistico ». Ma non solo: «C’è l’idea assistenzialista
della mano pubblica, quella di chi suggerisce al governo “date un miliardo di euro ad Alitalia a spese della collettività per una soluzione ponte, poi ci penso io e la mia famiglia”.
Una frase di questo tipo non la si potrebbe dire in America Latina. Negli anni Cinquanta, forse. Nel mondo occidentale invece fa impressione, perché è un groviglio di cosa pubblica, affari privati, strumentalizzazioni elettorali». E gli imprenditori della cordata italiana alternativa ad Air France? «Non ci sono questi imprenditori. Parliamoci chiaro, per Berlusconi la vicenda Alitalia è come la questione dei rifiuti: un problema che lui non ha mai affrontato. Questo povero governo durato venti mesi e tanto vituperato, sul quale si sono scaricati tutti i mali, ha avuto il solo torto di affrontare la questione laddove Berlusconi, nei suoi cinque anni di governo, l’aveva solo rinviata. Abbiamo seguito procedure di assoluta trasparenza. La gara di vendita è andata deserta. Quando gli imprenditori italiani hanno capito che c’erano da mettere molti soldi ma senza grandi prospettive si sono fatti indietro.Ma questo era anche ragionevole, perché per gestire una compagnia come Alitalia ci vuole rilevante know-how. L’unica compagnia italiana che poteva competere era Air One. Intendiamoci, le aspirazioni di Toto sono legittime, tuttavia data la dimensione dell’azienda avrebbe bisogno di maggiori supporti finanziari e industriali. Non a caso si erano fatte avanti solo grandi compagnie straniere e in queste ore le uniche vere alternative di cui si parla portano a Lufthansa. E infatti noi avevamo cercato Lufthansa.Abbiamo cercato i cinesi. Siamo andati in Qatar. Abbiamo cercato per un anno. Berlusconi in cinque anni non ha fatto nulla, solo litigare con An per spartirsi l’azienda».
L’ostilità del Cavaliere ai francesi coincide però con le tesi di una parte del sindacato e della sinistra radicale. «Il sindacato non lo capisco. O meglio, capisco che voglia negoziare dal punto di vista dei lavoratori le migliori condizioni, ma non vorrei che per difendere le ragioni di una minoranza dei lavoratori si finisse per compromettere il destino dell’azienda, sabotare l’operazione e buttare all’aria Alitalia». Poi comincia il capitolo Bertinotti: «Bertinotti è interessante culturalmente. È sempre stato estraneo alla vena di cultura liberale che ha percorso la storia del comunismo italiano. Negli anni Trenta il primo a scrivere che l’Irizzazione dell’economia italiana dopo la grande crisi rischiava di tramutarsi in una socializzazione delle perdite e in una privatizzazione dei profitti è stato Gramsci. Il fatto che la garanzia statale sui debiti portasse a una situazione in cui la renditafinanziaria non correva l’“alea
del mercato” è citazione da Gramsci, il quale ne traeva la conclusione che è contro questa logica che i ceti “produttori” dovessero allearsi. La vena liberale ha segnato la storia del comunismo italiano. Bertinotti,venendodal massimalismo socialista e statalista, ne è sempre stato estraneo. Naturalmente, Berlusconi è un’altra cosa, è l’idea dell’uso privato della cosa pubblica.
Diciamo che ogni tanto si verificano delle convergenze tattiche ». Si accusa però il Pd di non farsi carico dell’ipoteca sui destini del paese che la vendita di Alitalia ai francesi comporta.Sostiene D’Alema: «Non è vero che la creazione di grandi imprese europee ci porta sempre a situazioni subalterne. In diversi campi noi ci siamo assicurati la leadership.Sul fronte finanziario, per esempio, con Unicredit. Nel campo energetico, con Enel ed Eni. Un’idea autarchica della compagnia di bandiera contrasta con la tendenza naturale alla creazione di grandi imprese continentali. Dopodiché,se la nostra compagnia aerea è al fallimento è difficile pretendere che la leadership nel settore aereo sia nostra ». Obiezione: due anni fa, in pieno risiko bancario, il tema dell’italianità andava forte tra i fautori dell’operazione Unipol- Bnl. «Continuo a ritenere valido il progetto industriale delle cooperative su Bnl, ma non per l’italianità, bensì perché lanascita di una grande banca legata alla piccola impresa poteva essere una risorsa importante per il paese. Ma a chi polemizza su Alitalia, dell’Italia non importa niente. In questa operazione c’è un marchio leghista, un pezzo di nord che fa un’operazione simbolica ma ingiustificata. Il principale affossatore di Malpensa è Formigoni, è il “partito del nord”. Non hanno costruito le infrastrutture nonostante gli avessimo dato i soldi negli anni Novanta. Hanno favorito la proliferazione di aeroporti nel nord. Non è certo Roma ladrona che vuole uccidere Malpensa».Altra accusa: nello stesso Pd c’è chi dice che la sinistra riformista è ferma alle vecchie ricette liberiste degli anni Novanta, che il Tremonti no global sia più sensibile ai guasti provocati dal mercatismo. «A me fa piacere – risponde l’ex premier - che ci sia a destra chi denuncia le contraddizioni della globalizzazione, dopo che la destra, internazionalmente, ha la responsabilità di aver esaltato il mercato e proclamato la morte della politica. Ma la soluzione a questi problemi sta nella regolazione, nel multilateralismo, non nella deregulation nazionale o nel protezionismo. La Cina si apre al sistema mondiale? Benissimo, accetti regole di protezione del lavoro, del lavoro minorile, e alla fine cresceranno anche i salari.Se insomma Tremonti sviluppa il suo pensiero nel senso di una visione liberale moderna, che considera il mercato una istituzione che ha bisogno di regole e di autorità, gli do il benvenuto nel socialismo liberale.Se invece ripiega sull’autarchia leghista, sul nord che si protegge coi soldi dello Stato, questo comporterebbe una dolorosa regressione del paese». Respinto il neostatalismo mezzo tremontiano mezzo berlusconiano, D’Alema propone però di rivalutare il ruolo dello Stato centrale. E fa pure autocritica sul passato recente della sinistra: «Diceva un vecchio slogan (leninista, ndr): “Meglio meno ma meglio”. Ecco, mi sembra perfetto per definire il giusto equilibrio della funzione pubblica, insieme a quello che rivendica senza contraddizione “più mercato e più Stato”. In Italia c’è una ipertrofia della presenza statale, e invece c’è bisogno di qualità. Ma la mancanza del senso di Stato è il nostro grande problema, anche perché una certa visione liberale da noi si coniuga storicamente con un antistatalismo che è una palla al piede della società. E qui faccio una riflessione autocritica. Per troppi anni siamo stati subalterni all’idea che bisognava scardinare lo Stato centrale, subalterni al federalismo, alla retorica dell’autogoverno alimentata anche dalla stagione dei sindaci, alla filosofia del glocalismo… Non funziona. Posso dire sulla base della mia esperienza che nel mercato globale i sistemi paese funzionano in quanto tali. Bisogna continuare sulla strada delle liberalizzazioni e privatizzazioni, ma pure ridare forza allo Stato, perché nel mondo puoi tutelare gli interessi nazionali con la forza del tuo governo centrale, e non con la Regione. Avere a Shangai una sfilata di ambasciate regionali è solo uno spreco di denaro e una fiera delle vanità. Serve invece un forte e autorevole Stato centrale, cioè quella struttura che era già nata debole e che da vent’anni lavoriamo a indebolire». Il seguito del ragionamento di D’Alema prende i toni del puro appello elettorale: «Siamo in una crisi internazionale molto delicata, che come tutte le crisi finanziarie ha bisogno di politica. Ecco, votare Berlusconi in un periodo di vacche grasse, in cui si possono distribuire mance e favori, posso anche capirlo.Ma in una fase così, il rischio che il paese paghi un prezzo altissimo è enorme. Abbiamo qualche giorno per evitarlo».

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