Intervista
13 aprile 2008

D'Alema: patto anti-Lega

Intervista di Giuseppe De Tomaso - La Gazzetta del Mezzogiorno


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Ministro D’Alema, tra Pd e Pdl la campagna elettorale era cominciata sotto tono ed è finita con urla e veleni...
«Per Berlusconi deve essere stato un grande sforzo, all’inizio, fingere uno stile anglosassone. Poi è tornato alla sua natura, sfoderando una carica notevole di aggressività. Al di là degli insulti e di una certa volgarità, Berlusconi, ha introdotto argomenti che hanno turbato la campagna elettorale. Mi riferisco in particolare alle pesanti, incredibili accuse sui brogli. Accuse gravi che potrebbero rivelarsi pericolose per il futuro, rendendo più difficili i rapporti tra i partiti».

Sta dicendo che anche in caso di pareggio al Senato sarebbe difficile riprendere il filo dei rapporti tra Pd e Pdl?
«L’innalzamento dei toni è stato ed è un chiaro sintomo di insicurezza, da parte di Berlusconi, e la conferma del forte recupero, dell’effettiva rimonta del Pd. Berlusconi è abituato a calcolare le sue mosse. Mi sembra difficile credere che certi messaggi, come quello di definire un eroe il mafioso Vittorio Mangano, o come quello - lanciato da Dell’Utri - di oscurare la Resistenza nei libri di scuola, siano figli del caso. Piuttosto sono appelli, direbbero gli inglesi, a determinate constituency, in questo caso a precise congreghe elettorali. Sono il chiaro sintomo di un certo nervosismo. Quando si esce allo scoperto rivolgendosi all’estrema destra o a un determinato mondo della criminalità organizzata - sembrano questi i significati inequivocabili
dei due appelli - allora vuol dire che si è molto nervosi e insicuri sul risultato
delle urne».

Sì, ma se al Senato finisse in pareggio o se Berlusconi non ottenesse quei 20 seggi in più necessari, a giudizio dello stesso Cavaliere, per una maggioranza parlamentare solida, cosa accadrebbe?
«Non so cosa accadrà. Penso solo che sarà difficile commentare persino gli exit poll, che spesso si rivelano sbagliati perché fondati su sondaggi non veritieri. Comunque vada a finire, si aprirà una fase politica del tutto nuova. Temo per la stabilità del Paese. Se andrà così, se cioè si aprirà una stagione di instabilità, avremo la conferma che queste elezioni non andavano indette. E che, al contrario, bisognava dar vita ad un governo capace di varare le riforme, a cominciare da quella elettorale».

Ma se vincesse Berlusconi perché si aprirebbe una fase di instabilità?
«Perché la sua vittoria, in termini di stabilità politica, non sarebbe equivalente alla nostra. Il Pd è una forza più coesa e meno isolata della Destra. La rottura berlusconiana con l’Udc è risultata lacerante per il centrodestra. La vittoria del Pd, invece, produrrebbe una minore divisione nel Paese».

Voi e l’Udc in questa campagna elettorale avete insistito molto sul rischio che il peso della Lega nel centrodestra possa penalizzare duramente il Sud. Il Pd vede nell’antileghismo il collante di un asse, di un patto con l’Udc?
«Credo di essere stato il primo a lanciare l’allarme sul carattere anti-meridionale di questa destra. Poi è diventato un tema-chiave della campagna elettorale. Se dovesse prevalere Berlusconi, il peso della Lega nella vita politica italiana diventerebbe ancora più accentuato e preoccupante. Lo si è visto in queste settimane. Non sono stati certo i vagiti di Fitto a dare il tono alla campagna elettorale
del centrodestra. La Lega, ad esempio, ha imposto come centrale la questione Malpensa fino al punto di rischiare il fallimento di Alitalia. Poi la Lega ha sfidato l’opinione pubblica con una notevole dose di arroganza: dal giuramento di Pontida agli insulti al tricolore. Ecco. Se vincesse Berlusconi, il partito di Bossi e Borghezio sarebbe determinante. La Lega si presenta come azionista di riferimento, come titolare della golden share del centrodestra berlusconiano. Il che, chiaramente, sposta a Nord l’equilibrio di potere, a danno del Mezzogiorno».

Palese obietta: il problema vero dei meridionali non è la Lega, ma i debiti di Regioni come la Puglia.
«Infatti, i pugliesi hanno mandato a casa lui e Fitto proprio per il modo in cui avevano governato la Puglia. Palese sa benissimo che con il governo di centrosinistra la sanità pugliese ha ottenuto ciò che le spettava: 6 miliardi e 150 milioni di euro per la spesa ordinaria e 800 milioni per investimenti su ospedali, tecnologie e infrastrutture».

Il dirigenti del centrodestra pugliese sottolineano però che lo stesso Nicola Rossi, del Pd, riconosce che il governo Berlusconi ha dato al Sud più soldi del governi di centrosinistra.
«Nicola Rossi, ora candidato nelle Marche, collaborava con me quando ero alla presidenza del Consiglio. Era orgoglioso del fatto che nel 1999 avevamo raggiunto la quota più alta di spesa pubblica allargata nel Mezzogiorno: il 35,8% delle somme in conto capitale per investimenti. Risultato che ha ricordato Gianfranco Viesti pochi
giorni addietro. Mi permetto di rivendicare la mia coerenza meridionalistica. Fui il primo firmatario della legge per il prestito d’onore ai giovani del Sud. Sono stato, insieme con Rossi, l’inventore del credito d’imposta: la forma più efficace di sostegno alle imprese meridionali. Sono stato io, inoltre, ad aver fatto finanziare l’ammodernamento dell’aeroporto di Bari e del porto di Brindisi. Siamo stati noi ad aver promosso gli accordi di programma per Manfredonia, ad aver realizzato i patti territoriali per agricoltura e manifatturiero. Al di là delle polemiche, delle voci e delle
strumentalizzazioni più ardite - persino la Corte Costituzionale è stata tirata in ballo in questa campagna elettorale - i soldi per completare il Petruzzelli li ha stanziati il nostro governo, e così il provvedimento per la caserma Rossani alla città di Bari. Non voglio sembrare presuntuoso, ma ritengo di aver fatto sempre il mio dovere come parlamentare della Puglia e del Sud. Se dovessi fare il conto, in milioni di euro, credo che il bilancio sia assai positivo. Altri, come Fitto e Palese, hanno dato chiacchiere».

Bersani di fatto ha proposto di ridurre o eliminare gli aiuti al Sud, visto che vanno o andrebbero a finire in sprechi e logiche clientelari. E’ d’accordo?
«Dobbiamo batterci per una politica nazionale per il Sud. Il che non risparmia la classe dirigente meridionale da una riflessione critica sull’uso delle risorse pubbliche. Bisogna comunque fare attenzione ai calcoli ingannevoli: le risorse cosiddette
straordinarie spesso hanno nascosto una carenza di interventi ordinari. Quando salii
a Palazzo Chigi volli subito sapere a quanto ammontasse l’impegno complessivo dello
Stato nel Mezzogiorno. In sostanza: quanto investivano le Ferrovie, l’Anas eccetera, indipendentemente dall’intervento straordinario. Ora bisogna continuare a cambiare i criteri di finanziamento. Noi abbiamo già eliminato la "488", fonte di sprechi, per reintrodurre il credito di imposta, un meccanismo automatico che finanzia il risultato,
non l’intenzione».

Sui fondi strutturali comunitari ci sono ritardi.
«Non mi pare. La nostra impostazione è semplice: il 50% dei fondi è vincolato per le grandi infrastrutture, concordate tra governo e Regioni meridionali. Il che significa sottrarre risorse all’intervento dispersivo per concentrarle sulle grandi scelte strategiche per il Sud. Le nostre priorità sono già state indicate non in un programma, ma in un disegno di legge: il che è stato reso possibile dal fatto che non dobbiamo più mediare con nessuno. Non c’è più il centrosinistra. Il Pd non è soltanto
l’alternativa alla destra, ma anche al centrosinistra affollato di partiti e partitini. Tra le priorità indicate con copertura finanziaria figurano il collegamento veloce Bari-Napoli e il completamento della jonica: due arterie fondamentali per la Puglia».

Poco tempo fa, preannunciando un ricambio generazionale al vertice della Sinistra estrema, Bertinotti ha tracciato un identikit nel quale quasi tutti hanno riconosciuto il profilo di Nichi Vendola. Se Vendola sùbito dopo il voto fosse chiamato a Roma alla guida della Sinistra Arcobaleno, che cosa accadrebbe alla Regione Puglia?
«Sono un estimatore di Nichi. Lo considero uomo intelligente e appassionato, che ha dato molto alla Puglia, interpretandone i sentimenti più profondi. Non posso pronunciarmi su una domanda che riguarda la sua prospettiva politica. Vedremo. Se
sarà chiamato a cariche, a impegni di carattere nazionale, ci sarà un ricambio di classe dirigente in Puglia. Non mi pare una prospettiva drammatica. Noi non abbiamo alcun problema da porre nei suoi riguardi. Ho apprezzato anche il modo in
cui Nichi ha affrontato la campagna elettorale, sostenendo il suo partito, ma dimostrando l’autocontrollo di un vero capo di una coalizione: segno di responsabilità, correttezza e maturità politica».

Quali risultati vi aspettate in Puglia?
«Positivi. Ci attendiamo una notevole avanzata del Pd. La destra di sicuro sarà una forza minoritaria nella regione».

Ma i sondaggi davano in vantaggio il Pdl.
«La maggioranza dei pugliesi, che è contro la destra, potrebbe dividersi tra Sinistra Arcobaleno, Pd e Udc. La destra potrebbe ancora prevalere come maggioranza relativa. Ma la destra è già minoranza in Puglia. E queste elezioni sanciranno la
natura minoritaria della destra. E siccome questa destra-minoranza sopravvive sotto
l’egemonia leghista, a mio avviso non tornerà più a mettere piede, al Sud, nei governi delle nostre istituzioni. Il vero patto per il Sud va fatto, quindi, con tutte le forze che si sottraggono e si oppongono all’egemonia e al dominio leghista».

Sta dicendo a Casini: incontriamoci dopo il voto.
«Il patto Berlusconi-Lega e la subalternità della destra meridionale spingeranno le altre forze, di sinistra e di centro, ad aprire un dialogo, innanzitutto per difendere il Mezzogiorno».

C’è chi ritiene che Di Pietro sia un valore aggiunto per il Pd e chi invece obietta che il suo giustizialismo possa allontanare elettori moderati da Veltroni.
«Di Pietro non si presenta alle elezioni come pubblico ministero. Da sempre è uomo politico particolarmente attento ai problemi della legalità, della difesa dell’indipendenza dei magistrati. Temi che non ci isolano dall’opinione pubblica, perché godono di vasti consensi tra i cittadini. Nella lotta al crimine, mi sembra che Di Pietro sia più credibile del mafioso Mangano. Così, tanto per fare un parallelo
con un eroe berlusconiano dei nostri tempi».

Nanni Moretti, invece, vi rimprovera di subire troppo sui temi legati alla legalità.
«Ho molto apprezzato il suo appello di voto per il Pd, la sua posizione contro l’astensionismo. Certo, ognuno ha le sue opinioni. Ciò che importa comunque è che una personalità come Moretti abbia condiviso la novità della nostra sfida. Berlusconi si dice certo della vittoria».

Se la sfida, invece, finisse con un sostanziale pareggio, Berlusconi, secondo lei, accetterebbe di guidare comunque il governo o passerebbe la mano a Letta, Moratti,
Tremonti? Casini, dal canto suo, si è detto pronto.

«Se le elezioni sfociassero in un’impasse ci sarebbe bisogno di un accordo, perlomeno per cambiare le regole del gioco. Nessuno potrebbe essere così folle da difendere o riproporre l’attuale legge elettorale. Questa follia è stata già compiuta da
Berlusconi. In caso di stallo, la parola passerebbe al Capo dello Stato. Entrerebbe in pista, come dice il professor Sartori, il motore di riserva».

La sinistra ha interpretato le parole di Berlusconi sull’ipotesi di dimissioni di
Napolitano come una prenotazione del Quirinale. Il Cavaliere ha reagito duramente.

«Penso che Berlusconi non abbia alcuna chance di diventare Capo dello Stato. Non soltanto perché la maggioranza degli italiani (compresa una parte dei suoi stessi elettori) difficilmente potrebbe accettare in quella funzione una persona sprovvista
di senso dello Stato. Ma anche perché la sua decisione di portare i cittadini anticipatamente alle urne pone fine ad ogni sua aspirazione per il Quirinale. Primo, perché non sarà il Parlamento che gli elettori sceglieranno oggi e domani a eleggere il successore di Napolitano. Secondo, perché se dovesse perdere, il politico Berlusconi scomparirebbe; se, invece, dovesse vincere, in due anni ci porterebbe alla catastrofe, e, quindi, addio, per lui, ai sogni quirinalizi. L’unica vera opportunità
di Berlusconi, se davvero egli puntava o punta al Quirinale, era di promuovere un accordo per evitare le elezioni anticipate. In tal modo si sarebbe accreditato come leader responsabile e attento alle istituzioni. La battuta, l’occasione, la svolta utile anche alle sue ambizioni, Berlusconi l’ha persa durante la crisi di governo, facendo fallire il tentativo di Marini. Oggi lo scenario è mutato. Indipendentemente dall’esito del voto, Berlusconi, che pure resta una grande personalità, ha intrapreso la fase conclusiva della sua esperienza politica. Il suo Pdl è un omaggio al passato. Il
Pd, invece, è un investimento sul futuro. Perché saremo noi a guidare l’Italia nei prossimi anni».

Se dovesse vincere Veltroni, cosa farà D’Alema?
«Qualcosa. Deciderà Veltroni. Credo di poter ancora recitare un ruolo significativo nella politica italiana. Quando mi renderò conto che non sarà più così, me ne andrò in pensione».

Ciriaco De Mita ha detto che Prodi ha attitudini a governare, ma non a esercitare
una guida politica. Un caporale, ha aggiunto De Mita, non può comandare. Lei, che
ha collaborato con lui, come giudica Prodi?

«Prodi è uomo di governo di grande valore. Purtroppo, in Italia, chi governa non è messo nelle condizioni di governare. Prodi sarebbe un formidabile statista europeo, perché in Europa chi vince poi governa. In Italia, invece, il principale compito di chi governa è gestire le bizze della sua maggioranza perché il sistema politico è malato.
Per questo, diciamo così, Prodi ha sofferto: lui non ha l’esperienza della politique politicienne, lui è uomo di governo».

Qual è la riforma più auspicabile?
«I programmi di Pd e Pdl propongono l’eliminazione delle Province. Sì, ci può essere un processo di riorganizzazione delle funzioni amministrative che punti a questo traguardo, ma la vera grande coraggiosa riforma da fare è dimezzare il ceto politico:
metà parlamentari, metà consiglieri regionali, comunali... la politica guadagnerebbe in considerazione, prestigio e autorevolezza. Se il Senato degli Stati Uniti fosse composto da mille rappresentanti, anziché da cento, com’è adesso, sarebbe di gran lunga meno autorevole».

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