Intervista
10 luglio 2008

La dottrina D'Alema

Intervista di Francesco Cundari - Il Foglio


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“Oggi sarei tentato di parlare di politica estera”. Così esordisce Massimo D’Alema, seduto nel suo ufficio alla Fondazione ItalianiEuropei, all’indomani del girotondo grillo-dipietrista, che campeggia sulle prime pagine di tutti i giornali. “Italiani”, aggiunge l’ex ministro degli Esteri. E indica l’Herald Tribune al centro della sua scrivania, ben lontano dal mucchio dei quotidiani nazionali.
Prima di arrivare ai girotondi e al modo migliore di fare opposizione (“Il modo peggiore è senz’altro quello che consente a Silvio Berlusconi, mentre ci costringe a occuparci dei suoi problemi in Parlamento, di inorridire dinanzi all’estremismo di piazza e dire che i problemi del paese sono altri”); all’alleanza con Antonio Di Pietro (“una scelta legittima, fatta nella convinzione che così si potesse vincere… il che dimostra quanto sia infondato il dibattito sull’autosufficienza del Pd”); al prossimo convegno sul sistema tedesco (il 14 luglio) e alle relative polemiche nel Pd – prima di tutto questo, dicevamo – bisogna partire dal titolo dell’Herald Tribune, che non è ovviamente su Beppe Grillo, ma sulla riunione del G8.
“Quella riunione ha dimostrato ancora una volta – dice D’Alema – che il G8 così com’è non serve. Condizione perché torni a essere utile è che diventi il forum in cui si confrontino il vecchio mondo, gli ‘otto grandi’, tra i quali peraltro quelli veramente grandi sono ormai molto meno di otto, e il nuovo mondo emergente. Non serve a nulla, invece, un club esclusivo dei paesi ricchi, che tiene fuori dalla porta la Cina, l’India, il Brasile… salvo poi lamentarsi perché quando gli aprono la porta quelli non si mettono d’accordo. E’ ovvio che la condizione in cui sono tenuti non aiuta”. L’Italia, con il governo Prodi, era il paese che cercava di uscire da una simile formula. E pertanto, ricorda D’Alema, aveva proposto di mettere al centro della prossima presidenza italiana del G8 proprio il tema dell’allargamento. “Una scelta che dovrebbe essere considerata naturale, perché corrisponde a quello che chiamerei lo ‘spazio italiano’ nel sistema delle relazioni internazionali… perché corrisponde profondamente, innanzi tutto, all’interesse nazionale”. Berlusconi, invece, ha “ricollocato l’Italia sulla linea dell’amministrazione americana uscente”. Una scelta che per D’Alema rappresenta un “doloroso arretramento”, che ha lasciato – o restituito, se si preferisce – la “bandiera del dialogo” alla Francia di Nicolas Sarkozy, anche nel Mediterraneo. “Sull’allargamento, per esempio, noi ci eravamo impegnati per coinvolgere l’Egitto nel cosiddetto gruppo dei cinque (i paesi candidati a entrare in un futuro “G13”, ndr), dove sono presenti due paesi asiatici come Cina e India, due paesi latinoamericani come Brasile e Messico, e il Sudafrica, mentre è del tutto assente il mondo islamico. Un errore di cui non è difficile scorgere l’origine”. Ma la “ricollocazione” del paese operata da Berlusconi D’Alema non la contesta soltanto come innaturale e contraria all’interesse nazionale. “Per l’Italia fare finta di essere la Gran Bretagna, prima che sbagliato, è ridicolo. Per fare il gendarme dell’occidente ci manca la ‘capability’, come direbbero gli anglosassoni”. Questo mutamento di linea, sostiene il presidente di ItalianiEuropei, contraddice peraltro quanto dichiarato in Parlamento dal ministro Franco Frattini, che aveva parlato di “continuità” della politica estera italiana e che sull’allargamento aveva mostrato di condividere l’iniziativa del precedente governo. “L’idea che allineandoci in modo subalterno alle scelte più sbagliate dell’amministrazione americana contiamo di più è infondata, com’è stato dimostrato dalla penosa vicenda del fallito tentativo di essere ammessi al ‘gruppo 5+1’ sull’Iran”.
E così si torna all’Herald Tribune. In particolare a un articolo di qualche giorno fa, dove si spiegava quello che Barack Obama dovrebbe dire (non era quindi un “retroscena”, puntualizza D’Alema) nel corso del suo prossimo viaggio in Europa. Un discorso contro l’unilateralismo, riassume il presidente di ItalianiEuropei, incentrato su “come una comunità di grandi paesi può costruire le condizioni di una maggiore armonia nelle relazioni internazionali e nello sviluppo del mondo”. E questo, secondo D’Alema, dovrebbe essere anche l’approccio del Pd. Un approccio utile pure per stabilire un “rapporto più stretto con i democratici americani, che ci auguriamo saranno presto protagonisti di un nuovo corso della politica degli Stati Uniti”.
Nel frattempo, però, il Pd ha già le sue difficoltà a confrontarsi con l’Italia dei Valori, con i girotondi e con tutto quel mondo che non rappresenta forse un nuovo corso della politica italiana, ma che certamente, anche rispetto ai precedenti del 2002, una certa discontinuità la mostra. Se non altro perché quella dell’altro ieri è forse l’unica manifestazione da cui larga parte dei promotori si sia in qualche modo dissociata prima ancora che terminasse. “L’esito era prevedibile, avrebbero potuto anche dissociarsi in anticipo. Se si invitano Beppe Grillo e Sabina Guzzanti, mi pare difficile che ne venga fuori un grande convegno sul rispetto delle istituzioni repubblicane”. D’altra parte, la differenza rispetto al 2002 c’è, ma non riguarda solo i girotondi. “Anche Berlusconi nel 2002 era un po’ più elegante. E’ il conflitto politico che sta degradando: da un lato abbiamo una destra al governo che ha esaurito la sua spinta propulsiva e non sa come affrontare, al di là delle fantasiose trovate del ministro Tremonti, la gravissima crisi economica che si profila; dall’altro manifestazioni che riflettono pienamente questa caduta complessiva del dibattito pubblico”. Due aspetti complementari della stessa crisi che sembra attraversare il paese. “Un paese impoverito, dunque impaurito, in cui trovano consenso anche le iniziative più forcaiole, come il prendere le impronte digitali ai bambini rom. Un sentimento non dissimile da quello che cavalca l’antipolitica e il qualunquismo contro i partiti”.
“Se restiamo stretti tra Maroni e Di Pietro, non è un caso che alle elezioni vinca la destra. Mi pare logico: se non altro, loro giocano in casa”. E’ stato dunque un errore, da parte del Partito democratico, allearsi con l’Italia dei Valori? “Si è fatta una scelta legittima, pensando che così si potesse vincere. Per questo trovo infondato il dibattito sull’autosufficienza: perché il Pd non è andato da solo neanche alle ultime elezioni. E così come allora, legittimamente, si è fatta la scelta di allearsi con Di Pietro, alle prossime elezioni, altrettanto legittimamente, se ne possono anche fare delle altre”.
Questo sulle alleanze – con l’Italia dei Valori o con Pierferdinando Casini, con la sinistra radicale o senza – non è l’unico dibattito che a D’Alema paia infondato. L’altro è quello, non senza rapporto con il primo, sul bipartitismo. “Il bipartitismo è finito il giorno delle elezioni, dove si sono presentati da una parte un cartello elettorale come il Pdl, alleato con la Lega, dall’altra il Pd, alleato con l’Italia dei Valori, e al centro l’Udc. Anzi, gli elettori hanno premiato proprio i partiti minori delle due alleanze, e l’Udc non è affatto scomparsa”.
Sgomberato il campo dal bipartitismo che non c’è, occorre dunque mettere in campo “una diversa prospettiva”. E proprio a questo serve il convegno promosso da ItalianiEuropei e da un gran numero di altre associazioni e fondazioni, molte delle quali più o meno esplicitamente legate a partiti che vanno dall’Udc alla sinistra radicale. Il convegno sul sistema tedesco, fissato per il 14 luglio. La presa della Bastiglia, dunque? “Mi auguro, semmai, una presa della pastiglia, da parte di tanti che vedo agitarsi su questo tema”. In effetti, c’è chi dice che una simile piattaforma rappresenti un mutamento di linea per il Pd. Una scelta, insomma, che richiede un congresso. “A me sembra una ‘belinata’, come dicono a Genova. Se poi si vuole fare un congresso, non sarò io a oppormi, anche se non ne vedo la ragione. A me pare che Veltroni abbia sempre detto che era favorevole al sistema tedesco, ad esempio quando tentammo la strada del governo Marini, solo che non era possibile. E noi, per l’appunto, stiamo cercando di rendere possibile ciò che in passato è stato impossibile”.
Il tema, in fondo, è antico. Tanto da essere divenuto ormai luogo comune: la “transizione” infinita, le riforme incompiute, l’Italia “in mezzo al guado”. Il problema, sostiene D’Alema, è che “da quindici anni ce ne stiamo in mezzo a questo guado, senza indirizzarci verso nessuna delle due sponde possibili: un sistema coerentemente presidenziale, con i pesi e i contrappesi previsti, o una rinnovata democrazia parlamentare, imperniata su grandi partiti”. La prima soluzione fu tentata ai tempi della Bicamerale, con il modello del semipresidenzialismo francese, che D’Alema continua a “non demonizzare”, anche se oggi ritiene quella soluzione irrealistica (“Di sicuro richiederebbe, come previsto in Francia, una legge elettorale a doppio turno, perché non è immaginabile attribuire quei poteri senza il voto della maggioranza assoluta degli elettori”). La soluzione migliore, più equilibrata e realistica, è ovviamente il modello tedesco. “Di sicuro la cosa peggiore è il sistema attuale: un presidenzialismo di fatto senza regole e contrappesi, in cui gli elettori da anni sono convinti di eleggere direttamente il capo del governo, il che non è vero, e pertanto se il Parlamento lo cambia pensano di trovarsi davanti a un colpo di stato… nulla è più pericoloso dell’avere regole scritte che differiscono tanto sensibilmente dalla convinzione diffusa”. Quanto alla tesi secondo cui un simile sistema comprometterebbe l’esistenza del Pd, D’Alema la considera un modo di “svilire le ragioni per cui abbiamo fondato questo partito, che non stavano certo nella legge elettorale. Ma nella necessità di creare finalmente una grande forza riformista come risultato della confluenza tra le tradizioni democratiche italiane. Oggi, la vera questione è affrontare con serietà una sfida drammatica, quella di un paese fermo nella sua economia, sfiduciato e dominato da una enorme questione sociale”.
Problemi non di oggi, però. E fino a non molto tempo fa al governo c’era il centrosinistra. “Che il nostro governo non abbia saputo rispondere adeguatamente a questi problemi non lo dico io, lo dice il risultato delle elezioni. Ricordo comunque che il nostro lavoro è stato interrotto. Berlusconi, che ha dato l’illusione di un cambio di passo rispetto al 2001, di presentarsi come un grande statista e un riformatore, è ripiombato nella palude, persino peggio di prima. Io non sono né un giustizialista né un moralista, però mi pare difficile che una classe dirigente che offre lo spettacolo di questi giorni possa credibilmente chiamare il paese a uno sforzo comune straordinario, come pure sarebbe necessario, per fare le riforme e tornare a crescere”.

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