Discorso
4 novembre 2008

20° Simposio Internazionale del Raggruppamento Costituzionale Democratico -<br>Tunisi, 3 e 4 novembre 2008 <br>

Intervento di MASSIMO D’ALEMA


Dal 1989 ad oggi abbiamo vissuto un’epoca di grandi cambiamenti, ma la grande crisi che ha sconvolto i mercati finanziari in questo ottobre del 2008 rappresenta certamente un cambiamento d’epoca. Non possiamo parlare di ciò che accade come se fossimo di fronte ad una delle crisi cicliche che abbiamo conosciuto fino ad oggi. Quello che stiamo vivendo è un grande sconvolgimento dell’economia mondiale e solo il tempo ci consentirà di valutarne pienamente gli effetti. Si tratta di una crisi che non tocca soltanto la finanza, ma l’economia reale e la società. Soprattutto, non si tratta soltanto di una crisi economica, ma del tramonto di un’intera stagione culturale e politica. Dal 1989 ad oggi, infatti, ha dominato su scala mondiale una cultura ultraliberale, l’idea cioè che la globalizzazione si sarebbe realizzata attraverso il dominio di un mercato senza regole e senza istituzioni. Per oltre un quindicennio si è affermata l’idea che la fine della politica, la fine della storia, la fine delle ideologie avrebbero prodotto una nuova stagione di prosperità e di armonia. Oggi questa teoria di un’economia liberata dai vincoli della politica, in grado di produrre i suoi effetti benefici, di garantire sviluppo e ricchezza per tutti, si rivela profondamente sbagliata. Entra in crisi la fiducia incondizionata nei mercati. Torna il bisogno della politica, dell’intervento dello Stato nell’economia, di regole e istituzioni sovranazionali in grado di condizionare un mercato globale. La politica, dunque, che si riteneva non avesse altri compiti se non quelli che l’economia le affidava, torna a rivendicare un proprio necessario primato.
Noi sappiamo bene che questo ritorno della politica può realizzarsi in modi molto diversi. La storia ci ricorda che, dopo la grande crisi del ’29, in America l’azione dello Stato consentì una forte ripresa economica insieme al rafforzamento della democrazia. Fu la stagione del New Deal: grandi investimenti economici, regole, riforme e promozione sociale delle classi più povere. Negli stessi anni, in Europa la crisi produceva, invece, una violenta svolta a destra, anticipata dal nazionalismo economico aggressivo, corporativo e protezionista. In Italia si consolidava il regime fascista e in Germania nasceva il nazismo e si apriva così la strada che portò alla Seconda Guerra Mondiale.
Le grandi crisi possono generare, dunque, un senso di insicurezza, di paura e di odio che favorisce la destra antidemocratica e nazionalista. Anche nell’Europa di oggi vediamo manifestarsi spinte involutive. C’è chi reagisce sostenendo la necessità di ritrarsi, rinchiudersi nei propri confini, delineando l’idea di un’Europa “fortezza”, che difende in modo illusorio il proprio benessere, i propri privilegi, la propria sicurezza contro la competizione dei paesi emergenti così come contro la immigrazione.
Dobbiamo chiederci coraggiosamente se questa è la politica di cui abbiamo bisogno di fronte ai grandi cambiamenti che stiamo vivendo. Sono convinto di no. Penso che, al contrario, una politica dettata dalla paura e dall’egoismo aggraverebbe tutti i problemi. Così come ritengo che sia illusorio pensare che si possa fermare quel grande processo chiamato globalizzazione che deve invece essere governato per far sì che ognuno possa godere dei benefici che esso porta con sé arginando, invece, il rischio di diseguaglianze crescenti, lacerazioni e conflitti. La strada da percorrere è, quindi, quella di una governance globale fondata su una larga partecipazione di Paesi e di popoli e su rinnovate istituzioni internazionali. Non basta una governance di tipo tecnocratico, per quanto rivista e allargata. È il modello stesso che va ripensato: abbiamo cioè bisogno di un governo globale in cui la politica riacquisti il suo ruolo di indirizzo e il compito di indicare le priorità. Una governance che abbia come fondamento la regola della responsabilità democratica. È un percorso, lungo, difficile, faticoso, ma è l’unico che consente il governo di un grande cambiamento che si è rivelato assai più complesso e contraddittorio di quanto le leadership occidentali potevano pensare all’indomani della caduta del Muro di Berlino, della fine del comunismo.
L’ottimismo dell’Occidente guardava alla globalizzazione come ad una possibile espansione – dopo la fine della Guerra Fredda e della divisione del mondo – del modello economico, sociale, culturale, istituzionale dell’Occidente. Una sorta di strada a senso unico lungo la quale esportare le nostre merci e le nostre idee. Era un’idea sbagliata e illusoria: la crisi di queste settimane, dopo lo choc dell’attacco alle Twin Towers nel settembre del 2001, ce lo sta dimostrando ancora una volta. Allora il presidente Bill Clinton disse che l’attacco terroristico al cuore dell’America faceva venire alla luce il volto oscuro della globalizzazione. Ma anche ciò che accade oggi ci mostra che la globalizzazione è un fenomeno complesso, carico di contraddizioni drammatiche, economiche politiche e culturali. Ha fatto emergere nuovi grandi protagonisti sul mercato mondiale, nel quale continua ad immettere masse umane prima escluse. Tuttavia produce nuove diseguaglianze, non solo tra paesi, ma anche all’interno di singoli Paesi. In Europa e negli Stati Uniti le diseguaglianze sociali sono cresciute in modo vertiginoso. Da una parte vi sono quelle minoranze che hanno potuto godere dei vantaggi straordinari legati alla finanziarizzazione dell’economia e dall’altra vi sono quel mondo del lavoro e quelle classi medie che si sono progressivamente impoveriti.
In fondo,all’origine della crisi finanziaria non c’è soltanto la realtà di un mercato speculativo esasperato e senza regole, ma innanzitutto un grande problema sociale legato al fatto che le famiglie americane non sono state in grado di restituire alle banche i soldi, il denaro avuto in prestito per alimentare i loro consumi o per comprare case. Sul piano politico e culturale la globalizzazione non ha prodotto quella omologazione che era attesa ed auspicata. Al contrario i popoli che si sono sentiti minacciati nel proprio sistema di valori, nella propria identità culturale e religiosa hanno finito per mobilitarsi contro l’Occidente e la sua pretesa di egemonia. E questo sentimento ha alimentato anche pericolose spinte fondamentaliste e regressive.
Se è vero che la globalizzazione è tutto questo, allora si pone con sempre maggior forza la questione di come governarla, valorizzandone le opportunità e arginandone i rischi. La politica di cui abbiamo bisogno non è quella che cede a tentazioni isolazioniste e protezioniste, all’innalzamento di fragili barriere in un mondo in cui la libera circolazione delle persone, delle culture, delle merci, dei capitali è inarrestabile. La politica di cui abbiamo bisogno è la governance globale, intesa come una assunzione comune di obiettivi e responsabilità di cui, però, bisogna rispondere ai cittadini, secondo processi democratici e trasparenti. Oggi il tema centrale riguarda gli attori e gli strumenti con cui esercitarla, oltre che i modi per fissare una agenda condivisa di questioni irrinunciabili e obiettivi politici essenziali.
La risposta ad una crisi internazionale di tale portata, capace di cambiare i vecchi equilibri geopolitici, dobbiamo cercarla nel consolidamento di una rete più ampia di cooperazione e co-decisione, di istituzioni e organismi internazionali robusti, inclusivi dei diversi interessi in campo, in grado di rappresentare anche i paesi più deboli. Bisogna imprimere una svolta, perché il governo globale non può continuare ad assumere la forma – di fatto – di un direttorio dei paesi più ricchi, con il pericolo di generare nuovi squilibri e nuovi conflitti.
Sta qui oggi – a mio parere – il significato di “partecipazione politica”: una più intensa, incisiva e inclusiva cooperazione internazionale.
È la cooperazione internazionale a dare alla partecipazione politica, oggi, quel valore, quell’impulso, quella forza per poter tornare in gioco con una nuova funzione regolatrice e sovranazionale. E con la chiara consapevolezza che occorre promuovere nuovi modelli di sviluppo, individuare nuovi programmi che favoriscano la crescita sociale e la riduzione delle diseguaglianze.
In queste ore si vota negli Stati Uniti d’America e mai forse come questa volta la coincidenza temporale tra crisi finanziaria internazionale ed elezioni americane ha messo in evidenza il peso globale delle scelte che i cittadini degli Stati Uniti compiranno. Mi è capitato, qualche settimana fa, partecipando a New York alla riunione annuale della Clinton Global Iniciative, di ascoltare direttamente John Mc Cain e, via satellite dalla Florida, un intervento del senatore Barak Obama. Mi ha colpito che tutti e due i candidati abbiano cercato di presentarsi come una novità rispetto alla esperienza della amministrazione di George W. Bush, che appare veramente impopolare nella opinione pubblica americana. Non c’è dubbio che la novità più profonda e radicale sia rappresentata dal candidato democratico e non soltanto per l’evidente ragione politica che egli rappresenta il partito alternativo ai repubblicani che hanno governato per otto anni. Barak Obama è una novità dal punto di vista generazionale e culturale. Mi ha colpito, ascoltando il suo intervento, il fatto che egli ha parlato dell’Africa e dei suoi drammatici problemi ricordando sua nonna che vive in un villaggio del Kenia. Un presidente degli Stati Uniti che si presenta così sarebbe davvero un leader globale e non soltanto il capo del mondo occidentale. Credo che non si debba sottovalutare quanto ciò cambierebbe profondamente la realtà del mondo, aprendo una nuova fase delle relazioni internazionali e – così auspichiamo – una stagione di cooperazione.
Un compito difficile ma appassionante attende la politica, se essa si dimostrerà capace di agire per cogliere le opportunità che pure la crisi presenta e non subirne soltanto gli effetti negativi. Non bisogna perdere l’occasione per lavorare, dunque, lungo due direttrici principali:
- La riforma delle organizzazioni internazionali;
- La promozione di una maggiore integrazione regionale, a partire dal modello dell’Unione Europea.
Innanzitutto – ed è ormai opinione largamente diffusa – è arrivato il momento di riformare e rafforzare radicalmente gli strumenti della governance, dalle Nazioni Unite alle istituzioni di Bretton Woods. È necessario rimettere mano, con coraggio e determinazione, ad una architettura ereditata dal secolo scorso, che non può più reggere di fronte al radicale e tumultuoso mutamento che stiamo vivendo. Servono regole e meccanismi nuovi nella logica di una crescente interdipendenza, superando le resistenze dei paesi maggiori ad un cessione di sovranità. Pensiamo, ad esempio, a come sia divenuta insostenibile l’asimmetria esistente tra le autorità di controllo nazionali e il mercato globale e al ruolo che potrebbe assumere, in questo senso, il FMI riformato e rafforzato con compiti di vigilanza e controllo.
Pensiamo al G8 la cui utilità, come organismo informale e come strumento operativo, è nulla se non se ne mette radicalmente in discussione la sua composizione. Nessuno dei dossier che possono arrivare su quel tavolo – dalla questione ambientale ed energetica alla lotta alla povertà e alle malattie – può essere trattato seriamente senza la presenza di paesi come la Cina, il Brasile, il Messico, l’India o il Sud Africa ma anche l’Egitto, che oggi non ne fanno parte.
Accanto alla stringente necessità di un nuovo assetto delle organizzazioni internazionali, è necessario promuovere una sempre più efficace integrazione regionale proprio perché, come abbiamo visto, la difesa della sovranità nazionale in un mondo interdipendente rende tutti più fragili. Da questo punto di vista, nonostante i limiti e i problemi che anch’essa deve superare, l’Unione Europea è ancora uno straordinario modello di integrazione da seguire.
L’Europa unita ha rappresentato un grande processo di pace, in grado di riconciliare i popoli lungo i confini dove sono nate due guerre mondiali e vi sono stati milioni di morti. Spinta da ragioni interne, l’Europa ha sanato le sue ferite e si è data un mercato unico, concentrandosi su sfide nazionali e continentali. Ma oggi scenari e rapporti di forza sono cambiati ed anche le istituzioni europee vanno rafforzate e riformate, per permettere all’Europa di agire e competere sul piano globale. Sono le sfide esterne che chiedono all’Europa un salto di qualità nel processo di integrazione, pena un inesorabile declassamento sulla scena mondiale dei singoli Stati nazionali che ne fanno parte.
È un discorso che vale allo stesso modo per questa regione. Il Maghreb, infatti, potrebbe fare molto di più per raggiungere quel livello di integrazione che ancora stenta a svilupparsi in pieno e che darebbe senza dubbio più forza all’intera regione e all’area del Mediterraneo.
Diventare un attore regionale di portata globale è condizione indispensabile per poter affrontare la sfida con potenze emergenti o che ritornano impetuosamente sulla scena mondiale, penso alla Cina e all’India. Insomma, anche questo secondo aspetto del processo a cui siamo chiamati – e cioè una forte integrazione regionale – si basa sulla considerazione dell’ampiezza e della difficoltà delle prove che ci attendono. Un’agenda che prevede lotta alla povertà, regolazione del commercio mondiale, questione energetica, lotta al terrorismo, non può che essere affrontata a partire da un’ottica regionale. Non possiamo essere ancora prigionieri di una visione nazionale di problemi di scala mondiale, anche perché a farne le spese maggiori sarebbero ancora una volta i paesi più deboli. Pensiamo al danno che ha rappresentato per tutti, ma soprattutto per i paesi più fragili, il fallimento del Doha Round, che contemplava tra l’altro la possibilità di accordi regionali a completamento del quadro multilaterale, successivamente saltato.
Tutti noi siamo legati, nella nostra esperienza politica e nella nostra formazione culturale, al valore degli Stati nazionali e difendiamo gelosamente il principio della indipendenza e della sovranità. Questo vale in modo particolare per paesi che hanno conquistato indipendenza e sovranità uscendo da esperienze coloniali o comunque di dominazione straniera. Tuttavia, appare sempre più chiaro che i singoli stati non dispongono di risorse politiche e materiali adeguate per incidere su processi globali e diventa sempre più necessario condividere la sovranità nazionale con altri Paesi, anziché isolarsi in una pretesa illusoria e vana di autosufficienza nazionalistica. Solo unendo le forze riusciremo veramente ad affrontare i problemi e ad offrire ai nostri popoli una prospettiva di pace e di sviluppo.
Il Mediterraneo può e deve essere un esempio di dialogo e cooperazione efficace. Abbiamo alle spalle una lunga storia comune, nel corso della quale i periodi di cooperazione e di convivenza pacifica sono stati certamente assai più prolungati e significativi rispetto ai momenti di conflitto. Nel corso degli ultimi due secoli, il fulcro delle relazioni internazionali si è spostato verso l’Atlantico e poi verso il Pacifico. Oggi il Mediterraneo sembra ritornare al centro delle grandi sfide mondiali. Passa dal nostro mare il rapporto fra paesi produttori e paesi consumatori di petrolio e di gas. Qui ci misuriamo con la sfida del fondamentalismo e la minaccia del terrorismo. Il dramma delle migrazioni e il fenomeno dei clandestini riguardano il Mediterraneo più di ogni altra area del mondo. Ma non vi sono soltanto rischi e problemi, vi è anche l’opportunità di fare del nostro mare un luogo emblematico di cooperazione, di sicurezza, di pace. Sviluppo sostenibile, dialogo interculturale, cooperazione economica e difesa della sicurezza sono solo alcuni dei settori strategici nei quali dobbiamo lavorare insieme. Fino ad ora vi sono stati molti buoni propositi . Penso al cosiddetto Processo di Barcellona. Vi sono state esperienze significative, anche se parziali. Penso alla esperienza del gruppo cosiddetto “5+5”. Ora bisogna che l’Unione per il Mediterraneo divenga davvero una sede per consolidare i rapporti politici e per fare avanzare progetti concreti.
È questo un banco di prova per le classi dirigenti dell’una e dell’altra sponda del nostro mare. Sta a noi scongiurare il rischio di uno scontro di civiltà tra Occidente e Islam e promuovere, invece, un processo di valore mondiale, di dialogo e cooperazione. Non si può pensare che in questa sfida si possa avere successo se non sapremo innanzitutto imprimere una svolta al conflitto cruciale che da troppi anni insanguina il Medio Oriente e, in particolare, se non sapremo dare una speranza al popolo Palestinese, indicando una soluzione capace nello stesso tempo di garantire la sicurezza di Israele. La nuova presidenza americana e l’Unione Europea sono chiamate, insieme al mondo arabo, a giocare un ruolo fondamentale in questa direzione. Oggi sembra che le stesse speranze suscitate dalla Conferenza di Annapolis non conducano alle soluzioni attese da tanto tempo. Ma una resa della comunità internazionale sarebbe intollerabile ed è importante che da qui parta un messaggio per rilanciare coraggiosamente l’impegno per la pace. Questa è quindi, in definitiva, la nuova frontiera della partecipazione politica.
Per quasi due secoli la partecipazione politica si è sviluppata nel quadro degli stati nazionali e ha consolidato esperienze istituzionali in grado di garantire sviluppo e sicurezza a ciascun popolo. Oggi questa dimensione appare evidentemente insufficiente e c’è bisogno di istituzioni, forme politiche ed un impegno delle società civili su una scala più ampia di quella dello stato-nazione. Solo così si potrà garantire quel benessere delle persone e dei popoli, e quella sicurezza e quella pace, che sono le aspirazioni comuni di ogni donna e di ogni uomo.

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