Intervista
7 novembre 2008

«Obama primo leader globale. Con i suoi valori si vince»<br>

Forum all'UNITA'


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Presidente Massimo D’Alema, qual è per l’America e per il mondo il significato della elezione di Barack Obama e cosa possiamo attenderci?

«Il significato è racchiuso nello slogan che ha messo al centro della sua campagna elettorale: il cambiamento, che arriva dopo un lungo periodo dominato dalla destra neo conservatrice e contrassegnato dal fallimento. Fallimento della politica internazionale perché il fondamentalismo, il terrorismo l’odio anti occidentale sino cresciuti anziché diminuire. Gli Stati Uniti vengono da una stagione in cui sono stati più isolati e hanno perduto prestigio. E fallimento anche sul piano della politica economica, perché una globalizzazione neo liberale senza regole, ci ha condotto alla grande crisi finanziaria, sociale ed economica in cui si trova il mondo. Direi che questo è il senso politico della vittoria di Obama e del Partito democratico. Noi, infatti, siamo di fronte ad un dato che non è solo determinato dal carisma di una persona: Obama ha guidato un processo, ma a vincere largamente è stato anche il Partito democratico. Si tratta di una grande svolta politica che apre una stagione nuova. Arriva un messaggio molto forte: si può fare una campagna elettorale puntando sulla pace, sul multilateralismo, sulla giustizia sociale e su un’equa redistribuzione della ricchezza e vincere le elezioni negli Stati Uniti. Quindi le idee, i valori e i programmi che noi sosteniamo, possono vincere. Anche in Italia. Naturalmente il tema con il quale noi ci dobbiamo confrontare è come interpretarli in modo innovativo».

Lei pensa che avrebbe potuto vincere anche Hillary Clinton? Anche lei, presidente, era stato in un primo tempo un suo sostenitore...

«Io credo che avrebbe potuto vincere anche un altro candidato democratico, proprio perché quel voto ha avuto un fortissimo spessore politico. Ho molta stima di Hillary Clinton e ho con lei, ma soprattutto con Bill, un rapporto di amicizia e di vicinanza politica, maturato nel corso degli anni Novanta. Sono membro della Fondazione Clinton. Penso che Hillary sarebbe stata un ottimo presidente degli Stati Uniti e che l’elezione di una donna avrebbe avuto un grande significato.
Per diverse ragioni, però, penso anche che l’elemento di innovazione che ha portato con sé Obama sia per molti aspetti ancora più radicale».

Con l’amministrazione Bush finisce l’epoca dell’unilateralismo, delle guerre preventive e dello “scontro di civiltà”. Che cosa significa passare da questa fase al multilateralismo evocato da Obama?

«Sono d’accordo, è finita un’epoca. Ma questo concetto vale in un senso piu’ ampio. Non è soltanto finita la fase neocon, è finita una certa visione della globalizzazione. Anche noi, quando abbiamo governato negli Usa e in Europa, in un periodo di grande sintonia e di forte dialogo, eravamo influenzati dall’idea che quella globalizzazione avrebbe portato verso un mondo migliore. Poi sono emerse difficoltà, contraddizioni, conflitti. C’è stato l’11 settembre. E la risposta della destra a tutto ciò è stata quella di rilanciare una egemonia occidentale anche attraverso l’uso della forza. Adesso siamo alla fine di un’epoca e viviamo una novità straordinaria, perché Obama è il primo leader globale, non è il capo dell’Occidente. Vedere l’Africa in festa, ad esempio, dà l’idea del momento eccezionale che stiamo vivendo...Barack è mezzo africano, mezzo americano, la madre è sposata in seconde nozze con un indonesiano, il cognato è cinese. Da questo punto di vista, quindi, è veramente una figura straordinaria. Il bisogno di una politica globale per rispondere alla globalizzazione economica ha trovato - a volte succede - una persona che riassume simbolicamente un contesto complessivo. Questo fa emergere la forza di una società aperta, quella americana, rispetto alle chiusure europee. Per dirla con una battuta, in Italia il figlio di un immigrato keniota sarebbe ancora a far la fila per avere il rinnovo del permesso di soggiorno. In America, invece, diventa presidente. La novità piu’ radicale di Obama è proprio questa: passiamo da una leadership dell’Occidente, che è stata buona con Clinton e cattiva negli ultimi anni, ad una leadership globale. Insomma, è la prima risposta politica all’altezza delle sfide della globalizzazione. Non è un caso se quella americana è stata, in realtà, una campagna elettorale mondiale e che abbia vinto il candidato che era sostenuto da tutto il mondo. Vorrei che pensassimo per un minuto come si sarebbero sentiti tutti, non solo gli americani, se avesse prevalso quella pur bravissima persona che è John McCain. Immaginiamo il senso di delusione, di arretramento, di depressione che si sarebbe determinato in ogni parte del mondo. Da questo punto di vista, nemmeno Hillary, una donna alla Casa Bianca, avrebbe avuto lo stesso impatto. Tutto ciò rappresenta una grande sfida che interroga la civiltà europea. Rischiamo di perdere quel primato culturale del quale l’Europa si è a lungo ammantata. Oggi l’Europa appare vecchia, impaurita, nelle mani di una classe dirigente che ha una visione mediamente ristretta».

Da questo momento Obama comincia a misurarsi con i fatti interni del suo Paese. L’ex ministro degli Esteri italiano come vede il procedere tecnico-politico della formazione del governo degli Stati Uniti?

«Penso che ci sarà un’operazione molto collegiale. Obama ha riunificato i democratici americani anche sulla base di un forte accordo con i Clinton. E Clinton vuol dire un pezzo molto importante del Partito democratico degli Stati Uniti. Non sarà soltanto alla formazione di un nuovo governo, ma una grande operazione di ricambio della classe dirigente che faranno assieme. Il presidente degli Stati Uniti è il punto di equilibrio di un complesso sistema di poteri, non è un signore solitario a capo del mondo. Depurato dell’aspetto mitico, vorrei dire che nella vittoria di Obama c’entrano anche la politica e i partiti, certo nelle forme in cui si organizzano negli Stati Uniti. Credo che le nomine rifletteranno tutto questo. Sarà un mix di innovazione, ma anche di classe dirigente sperimentata».

Hillary potrà avere un luogo importante nel governo di Obama?

«Secondo i canoni, sarebbe strano che accadesse, mentre penso ci saranno diverse personalità dello staff di Clinton. D’altro canto, Hillary ha un ruolo molto importante come senatrice di New York».

Cosa si aspetta dalla nuova politica estera americana su fronti caldi dell’Afghanistan, dell’Iraq e del Medio Oriente?

«Per l’Afghanistan sosteniamo da tempo la necessità di un cambiamento di strategia, di una visione e di una iniziativa che metta in primo piano gli aspetti economici e politici, la conquista del consenso. In Afghanistan si è creato un diffuso sentimento di ostilità verso le forze occidentali. Certo, non tutte. Ad esempio, il lavoro degli italiani è molto apprezzato, sono impegnati nella ricerca del consenso, soprattutto attraverso l’aiuto concreto dato alle popolazioni. In quel Paese si dovrebbe puntare sulla formazione di una forza nazionale in grado di presidiare il territorio e non su una strategia di distruzione del nemico, condotta a volte con azioni indiscriminate che hanno causato tante vittime civili. Insomma, c’è l’esigenza di ripensare la strategia complessiva. Quanto all’Iraq, non sarà semplice per gli Stati Uniti realizzare una “exit strategy” immediata. La scelta richiederà una gradualità. Ma in tutto questo scenario,a mio parere, resta sempre determinante la questione israelo-palestinese, perché storicamente è quella che ha provocato il rancore dei Paesi musulmani verso l’Occidente. La soluzione è a portata di mano, la pace è già scritta. Non c’è nulla da inventare. Serve solo la volontà politica. Per questo la novità più importante dovrebbe essere quella, all’indomani delle elezioni israeliane, della ricerca di un accordo fra israeliani e palestinesi. Ad Annapolis si è consumato l’ultimo fallimento di Bush. E da qui dovrebbe partire Obama».

Che ruolo potrà giocare Obama nella crisi finanziaria che si è determinata a livello mondiale? E quale sarà il ruolo dell’Europa?

«Io credo che l’Europa per certi aspetti è stata anticipatrice della necessità di avere mercati regolati e quindi, da questo punto di vista, il modello europeo - in confronto a ciò che è successo in America - potrebbe persino rivendicare una sua priorità. Naturalmente questo oggi non basta, serve il coraggio di andare avanti. Noi abbiamo bisogno di un sistema di regole, e soprattutto di controlli, che ci faccia uscire dalla asimmetria tra un mercato globale e regolatori che sono di carattere nazionale o al massimo regionale. Poi, certamente, bisogna fare - come è stato largamente fatto - una operazione di salvataggio del sistema finanziario. Ma questo non basta. Il vero problema è intervenire sull’economia reale e questo intervento, a mio giudizio, da una parte deve assicurare sostegno allo sviluppo. Che significa credito alle imprese e rilancio di grandi programmi pubblici e coordinati di investimenti, di investimenti innovativi in particolare».

Oltre a questo?

«Bisognerà rilanciare i consumi, e ciò richiede il sostegno ai redditi medio bassi. È quello che ha detto Obama in campagna elettorale. Barack ha presentato un programma molto forte, è un uomo che colpisce anche per la forza della sua personalità politica e per la nettezza delle sue convinzioni. Il giorno in cui i due candidati sono andati alla Casa Bianca McCain è prima venuto al convegno annuale della Fondazione Clinton, al quale partecipavo anche io. Obama non è venuto e si è rivolto alla platea della Fondazione attravero il satellite, rispondendo all’intervento di McCain. Noi abbiamo assistito a questo confronto a distanza. In una giornata drammatica, perché era il giorno in cui il Congresso non voleva approvare il piano Paulson. E Bush chiamò i due candidati alla Casa Bianca in quella giornata cruciale. McCain aveva preso una iniziativa politica di una certa abilità, anche con la forza della sua credibilità personale.
Aveva chiesto di sospendere la campagna elettorale per il bene
dell’America: “rinunciamo al confronto televisivo e cerchiamo una soluzione” - chiese all’avversario. E io sono rimasto colpito dal modo con cui ha risposto Obama. ”Io non sospendo la campagna elettorale - disse Barack - Anzi, proprio perché la situazione è drammatica, questo è il momento di dire all’America quello che vogliamo. Andrò al confronto televisivo e se non ci sarà McCain troverò una sedia vuota”. Una risposta di una nettezza e di una determinazione assolute».

L’elezione di Obama quale messaggio invia alla sinistra e al centrosinistra italiani?

«Temo la ricerca dell’Obama italiano, che arriverebbe dopo la ricerca del Blair italiano e poi dello Zapatero italiano. Quello che accade negli Stati Uniti può avere un’influenza sull’opinione pubblica italiana, perché gli Usa hanno sempre avuto un loro peso, persino nell’immaginario collettivo. La vittoria di Obama, quindi, può ridare forza a determinati valori e principi. E l’importanza dell’esperienza americana, ancora, sta nel coraggio del cambiamento. In un meccanismo che favorisce anche l’emergere di nuove leadership. Naturalmente, però, Obama non è diventato presidente degli Stati Uniti da un giorno all’altro. Ha fatto politica partendo dalla base, è cresciuto abbastanza rapidamente sulla scena americana. Loro hanno meccanismi forti di ricambio della classe dirigente. Le primarie le fanno in modo diverso da noi, secondo me meglio. Come le concepiscono loro, le primarie rappresentano un processo di formazione del consenso intorno alla leadership, mentre noi - a volte - rischiamo di concepirle come un processo di formazione delle divisioni. Per questo, per noi, sarebbe interessante studiare attentamente il loro sistema. Nella società italiana vi è una nuova generazione, forze nate negli anni Sessanta che hanno una grande carica vitale. Devono emergere».

A proposito del suo riferimento all’immigrato keniota che in Italia fa la fila per il permesso di soggiorno e negli Stati Uniti diventa presidente, come si può sviluppare, nel nostro Paese, una politica dell’immigrazione che sappia coniugare solidarietà, accoglienza e sicurezza?

«Io credo che bisognerebbe allargare le maglie dell’immigrazione legale, cercando di attirare persone capaci, possibilmente formate professionalmente, favorendo il fatto che vengano in Italia con le loro famiglie e riconoscendo i loro diritti sociali e politici. Tutte cose che non facciamo. Abbiamo stretto le maglie dell’immigrazione legale, con l’effetto di favorire la crescita di quella clandestina. Facciamo di tutto per rendere difficile la vita delle persone, in modo di creare degli emarginati. Perché uno che non ha diritti sociali, non ha diritti civili, non ha diritti politici, non può può partecipare alle elezioni, non può vivere con la sua famiglia, è potenzialmente mano d’opera della criminalità. La politica dell’immigrazione dovrebbe favorire l’afflusso verso l’Italia di nuovi cittadini, e si è cittadini nella pienezza dei diritti, anche politici. Qualcosa come il 15% del lavoro dipendente è rappresentato in Italia, soprattutto alle mansioni piu’ basse, da immigrati. Questa percentuale è destinata a crescere. Io chiedo: un Paese nel quale il lavoro manuale non ha rappresentanza politica può definirsi un Paese democratico? Un sistema della rappresentanza che esclude un pezzo della società è inesorabilmente squilibrato e delegittimato. Chi vive e lavora nel nostro Paese e paga le tasse dovrebbe avere il diritto di votare. Questo fa la differenza tra una società aperta e una società chiusa»

Cosa pensa di un eventuale ingresso del Pd nel Pse, lei è anche vice presidente dell’Internazionale socialista...

«Una carica che mi onora. La mia opinione è che noi siamo di fronte ad una situazione nella quale il socialismo europeo e internazionale rappresenta soltanto un segmento del mondo progressista, riformista e democratico. Parliamo di un mondo che è diventato molto piu’ ampio. E forse il socialismo non rappresenta neppure il suo segmento piu’ dinamico. Basti pensare che tre dei grandi paesi del mondo - gli Usa, l’India e il Brasile - sono governati da partiti riformisti e progressisti che non fanno parte della famiglia socialista. Dunque c’è un evidente spiazzamento nella tradizione socialista, perché il campo delle forze progressiste e riformiste che condividono i nostri valori è molto piu’ vasto e in questo campo alcune delle forze piu’ innovative non fanno parte del filone socialista. La stessa Internazionale socialista, pure essendo tuttora il principale forum politico internazionale, se rimane chiusa dentro una posizione ideologica, rischia progressivamente di perdere influenza e di staccarsi dalle componenti piu’ vitali del campo riformatore. Nello stesso tempo, però, se guardiamo all’Europa, l’idea di un nuovo campo di forze riformatrici non puo’ prescindere dai socialisti. In definita, dobbiamo lavorare per costruire qualcosa di nuovo, che non si identifichi con la tradizione socialista strettamente intesa, ma che non prescinda dalle forze socialiste che in Europa, nel campo del centrosinistra, sono di gran lunga la componente maggiore. Noi abbiamo cercato di muovere i socialisti verso scelte innovative e coraggiose, e qualcosa si è già messo in movimento. Sul piano dell’Internazionale socialista serve una cesura piu’ netta. Dobbiamo creare un movimento internazionale che non sia soltanto dei socialisti e dobbiamo tentare un’operazione che, anche dal punto di vista simbolico, sia radicalmente innovativa>>.

Si pone, intanto, il problema delle europee e del rapporto tra Pd e Pse nel parlamento di Strasburgo. Il nodo di dove siederanno i democratici italiani verrà sciolto prima o dopo le elezioni della prossima primavera?

«A mio parere la questione dovrebbe essere affrontata e risolta prima delle europee. Dipende anche dalla disponibilità dei socialisti, però, a cambiare un po’ i caratteri e anche la denominazione del gruppo. Mi sembrerebbe francamente difficile affrontare la campagna elettorale senza dire con chiarezza dove noi ci collochiamo nel Parlamento europeo».

Alcuni lettori chiedono se non sia il caso che alcuni “vecchi” politici facciano un passo indietro per favorire il rinnovamento e un passo avanti verso il ricambio generazionale. Qual è il suo punto di vista?

«Io ho già fatto un passo indietro. Resto in attesa di quelli che devono fare un passo avanti. Alcuni dei massimi responsabili del nostro partito, tra l’altro, rimanendo saldamente al loro posto, chiedono agli altri di fare un passo indietro. Io l’ho fatto, non ho nessuna responsabilità nel Partito democratico, non ho chiesto incarichi istituzionali, non faccio parte del governo ombra, non faccio parte del coordinamento o della presidenza del gruppo parlamentare. Se esercito un’influenza non è perché occupo un posto, ma perché esiste una audience alle cose che dico. Sono del tutto favorevole a che si promuova e venga avanti una nuova generazione, purché non si usi questo tema come argomento di dialettica interna. Poi ognuno, anche io, darà un contributo sulla base delle proprie forze. Sono del parere che il Partito democratico oggi ha senso se riesce a promuovere una nuova classe dirigente. E, tra l’altro, andando in giro per l’Italia, anche a Roma naturalmente, nel gruppo dirigente, ci sono le forze su cui puntare. Ma poi bisogna sempre considerare che c’è la prova del consenso. La società italiana ha impavidamente votato per un signore che certo non rappresenta questa nuova generazione. Però, certo, io sono del tutto convinto che noi dobbiamo creare le condizioni migliori perché emerga una nuova classe dirigente>>.

Il fatto che una nuova classe dirigente non abbia fatto passi avanti in che misura dipende dai limiti di un’organizzazione che rende difficile il rinnovamento?

«Andiamo verso una conferenza di programma, credo che il tipo di forma politica che vogliamo costruire rappresenti un contenuto programmatico non secondario. E’ necessario costruire un grande partito di tipo nuovo che sappia tenere insieme gli aspetti della militanza con l'apertura alla società e, quindi, con la promozione di un ricambio. Bisogna fare in modo che una nuova generazione possa mettersi alla prova e assumere delle responsabilità anche importanti. Questo deve essere cura di chi dirige il partito. Noi cominciamo ad avere già, nelle amministrazioni locali, a livello regionale e in parte anche nel gruppo dirigente nazionale, personalità piu’ giovani. Accresciamone il peso e la funzione. Anche i partiti di una volta promossero grandi operazioni di ricambio. La mia generazione, a un certo punto, è diventata un pezzo importante del gruppo dirigente del Pci. Un po’ perché aveva avuto un peso reale nel ‘68, un po’ perché qualcuno, a un certo punto, ha forzato e deciso che fosse così. Berlinguer fece entrare alcuni di noi più giovani nella Direzione del partito».



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