Discorso
11 febbraio 2009

Giuseppe Tatarella: la politica delle idee, la politica del confronto<br>

Sala della Lupa – Palazzo Montecitorio,
Roma


Gentile signora Angiola, caro Salvatore, signor Presidente della Camera, signor Presidente del Consiglio, illustri colleghi e amici,
sono io che sono grato di partecipare a questo momento di ricordo di Pinuccio Tatarella, che certamente è anche l’occasione di una riflessione sul tempo che ci separa – dieci anni – dalla sua scomparsa, che ci toccò tutti profondamente e che suscitò l’unanime cordoglio del mondo politico e di tanta parte dell’opinione pubblica.
Ho conosciuto Pinuccio Tatarella molti anni fa, anche se non così tanti come è stato tramandato in una certa pubblicistica. Era l’inizio degli anni ’80 quando la segreteria del Pci decise di mandarmi in Puglia dopo l’esperienza alla guida dell’organizzazione giovanile, riavvicinandomi così a quel Mezzogiorno da cui proveniva la mia famiglia. Pinuccio Tatarella era il capo della destra pugliese. Parlamentare nazionale dal 1979, ma sempre presente nella vita politica pugliese e barese con la forza delle sue battaglie, delle sue denunce e della sua iniziativa politica. La destra che conobbi in Puglia era molto diversa da quella che avevo conosciuto nei miei anni giovanili. Ero poco più che un ragazzo quando, eletto consigliere comunale a Pisa, mi trovai di fronte quel Beppe Niccolai che Pietrangelo Buttafuoco ha definito “padre nobile di un mondo votato all’eresia”. Quel Movimento sociale ci sembrava davvero soltanto l’erede nostalgico di un fascismo seppellito dalla tragedia della Seconda guerra mondiale, dalla Resistenza e dalla Costituzione. E malgrado il fascino indiscutibile della oratoria e della personalità di un uomo come Niccolai, davvero non sembrava quella destra avere altro destino che l’emarginazione e la testimonianza. Il Movimento sociale di Pinuccio Tatarella era una realtà diversa. Radicato nella storia e nella società pugliese sotto l’autorità di un uomo che godeva di rispetto e di consenso come Araldo di Crollalanza, la destra pugliese era una forza politica e non soltanto un gruppo di nostalgici. Certo, era anche la diversa realtà di un Mezzogiorno non segnato dalla memoria della Repubblica di Salò e della guerra civile a fare la differenza. Ma vi era pure la qualità di una classe dirigente in grado di promuovere una cultura di governo anche dall’opposizione. Cioè di difendere interessi, di avanzare idee e progetti, di cercare di incidere sugli equilibri politici e di condizionare gli sviluppi e l’agenda dei governi e delle istituzioni. Eravamo nel tempo di un pentapartito che invadeva in modo imponente e arrogante la scena politica e dei poteri locali. E avevamo specularmente, noi del Partito comunista, un problema non diverso e cioè quello di strappare uno spazio, di aprire delle contraddizioni, di conquistare anche noi un posto all’interno di un panorama politico che sembrava interamente occupato dai partiti nell’area del potere. Fu così che, in modo naturale, si determinò una qualche comprensibile simpatia fra forze che esercitavano in comune il ruolo difficile dell’opposizione e che avevano lo stesso interesse a far funzionare le assemblee elettive e a rendere effettivi gli strumenti di un controllo democratico sul potere e di un’informazione libera in grado di accrescere la partecipazione e la vigilanza dei cittadini. Fu così che la lunga esperienza dell’opposizione fece crescere una cultura democratica proprio in forze che per la loro origine storica e culturale sembravano essere più lontane ed ostili ai valori liberaldemocratici. E’ proprio così, l’opposizione è una straordinaria scuola di democrazia. Si apprende l’uso delle garanzie ed il valore delle regole. Si comprende il significato delle assemblee elettive e del loro funzionamento, che può apparire, a chi abbia soltanto la cultura e l’esperienza del comando, un insieme di inutili riti, ma che invece sono spesso una forma fondamentale di esercizio di un indispensabile compito di controllo e di una necessaria partecipazione alle grandi scelte del Paese.
In Pinuccio Tatarella c’era poi anche nell’attività politica e nella vita di ogni giorno quella straordinaria e generosa curiosità verso gli altri, quell’attenzione verso il mondo della cultura e verso tutte le manifestazioni di dissenso e di libertà che ne facevano un uomo politico scevro da pregiudizi e capace di misurarsi a tutto campo anche con chi aveva idee e visioni così distanti dalle sue.
Sono queste qualità e questa esperienza che gli hanno consentito di essere, negli anni cruciali della crisi della cosiddetta Prima Repubblica e poi dell’avvento di una nuova stagione della politica italiana, uno dei protagonisti più significativi. Nel momento più alto del suo successo politico persino il prestigioso quotidiano francese Le Monde gli dedicò un articolo nel quale egli fu chiamato le renard – la volpe. Certo, non gli mancavano astuzia e capacità di manovra e una certa dose di quello spirito levantino che sono tratti tipici di un mondo politico meridionale cui si compiaceva di appartenere e persino di una baresità che egli – pur figlio del Tavoliere – aveva tuttavia profondamente acquisito. Ma non furono queste le sue qualità migliori né le ragioni per le quali ha lasciato un segno nella vita politica italiana. In realtà, egli fu nella destra uno degli uomini che ebbe una più lucida visione strategica dei problemi della transizione italiana e cioè del problema delle regole e del problema dei soggetti politici, le une e gli altri necessari per fondare e interpretare una nuova stagione della storia nazionale. Per questo egli lavorò al tema delle riforme costituzionali ed elettorali e, nello stesso tempo, al tema della costruzione di una nuova destra, una destra normale, in grado di interpretare quel sentimento moderato e conservatore che egli vedeva maggioritario nella società italiana. Lo ricordo al mio fianco nella esperienza appassionante del lavoro della Commissione bicamerale per la riforma della seconda parte della Costituzione, come vicepresidente e in particolare come Presidente che si occupava della forma di governo. Egli dette un contributo molto importante a definire un equilibrio sostenibile per una riforma in grado di raccogliere un largo consenso e di ammodernare seriamente il funzionamento delle istituzioni. Gli piaceva dire che bisognava cercare una mediazione, parola che talora nella pubblicistica appare come termine da non usare, quasi fosse carico di un significato negativo. Ricordo che, parlando della riforma della legge elettorale regionale, disse: “ Dobbiamo trovare una soluzione nella quale ciascuno possa riconoscersi senza vedere umiliate le proprie proposte e le idee avanzate agli elettori durante la campagna elettorale’’. Insomma, la politica anche come capacità di ricercare mediazioni e soluzioni che possano essere condivise. C’era in lui la consapevolezza che soltanto le riforme condivise sono in grado di essere approvate e di realizzare dei cambiamenti reali profondi e duraturi. E c’era anche la convinzione che fare insieme la riforma della Costituzione avrebbe comportato quella reciproca legittimazione necessaria ad un bipolarismo maturo e civile. Ho condiviso queste convinzioni e lo sforzo della mediazione e della riforma. Così come con Pinuccio Tatarella condividemmo la delusione per l’esito di quella sfida impegnativa e la speranza, come egli disse più volte, che “il filo si fosse solo ingarbugliato e non spezzato per sempre”.
Sul piano politico, egli lavorò a costruire una grande forza della destra italiana. Progressivamente muovendo dalla idea di un bipolarismo fondato sul confronto tra coalizioni multipartitiche verso l’obiettivo della creazione di un “grande partito democratico della destra”, come egli scrisse nel 1998. Prospettiva che egli intravide e che in modo più concreto si delinea oggi parallelamente alla nascita del Partito democratico nell’area del centrosinistra. Certamente egli fu mosso dalla volontà – ben comprensibile per chi veniva dalla sua storia politica – di evitare ogni rischio di nuove emarginazioni ed ogni pericolo di una deriva di tipo centrista, tale da mettere in forse quella democrazia dell’alternanza che ha rappresentato senza dubbio una delle acquisizioni più importanti – forse l’unica – di questi quindici anni di storia repubblicana. Nella ricerca di un orizzonte nuovo per la destra, oltre ogni ristrettezza nostalgica, egli guardò alle diverse correnti politiche e culturali del moderatismo italiano, nella convinzione che l’esaurirsi del sistema dei partiti nato dopo la Seconda guerra mondiale avrebbe consentito – caduta la contrapposizione fascismo-antifascismo – il ricomporsi di una forza conservatrice e moderata maggioritaria. Ci fu, in questa sua visione e nel modo in cui egli perseguì la sua iniziativa politica “oltre il Polo”, una impostazione che – con un linguaggio gramsciano – si potrebbe definire egemonica. Colpisce, ad esempio, l’attenzione con cui egli guardò alla tradizione laica e socialista e in particolare alla esperienza craxiana, scorgendo nel decisionismo di Craxi gli elementi di una visione presidenzialistica e ricercando nell’anticomunismo che segnò l’esperienza dell’autonomia socialista, la condizione se non per una alleanza, certamente per una strategia del dialogo e dell’attenzione. Dunque, davvero la sfida che egli lanciò alla sinistra democratica fu assai impegnativa e a tutto campo sul piano politico e culturale. In questo modo, egli seppe, a Bari e in Puglia, riunire attorno a sé uno schieramento assai ampio, non solo politico, ma anche nella società civile, capace di raccogliere una parte significativa dell’eredità democristiana e dello stesso craxismo pugliese. Vi era, in questo, anche l’idea che la costruzione di una “nuova” forza non potesse essere il frutto della improvvisazione o della funzione demiurgica di una persona. Ma che comportasse, al contrario, uno sforzo per radicare il nuovo nella storia del Paese, ricostruendo un legame con le culture e le tradizioni politiche. Una lezione che vale non soltanto per la destra e che mantiene fortissima la sua attualità nel momento in cui si lavora non senza difficoltà a costruire due grandi partiti, in grado di incardinare il bipolarismo italiano superando la frammentazione e la precarietà.
Senza di lui questa “egemonia” della destra in Puglia si è poi negli anni parzialmente ridimensionata, anche perché noi abbiamo saputo, dall’altra parte, ripercorrere in modo speculare le sue orme, spingendo alla sua maniera, “oltre il centrosinistra”, la nostra iniziativa politica e le nostre alleanze. In fondo duellando si apprende a vicenda.
La forza di Pinuccio Tatarella fu anche nella convinzione che per esercitare, appunto, una “egemonia”, la destra avrebbe dovuto liberarsi di ogni residuo estremismo e arroganza – anche verbale – e dimostrare una capacità di esercitare il potere nell’interesse generale e non come espressione di una visione particolare. E che il potere deve essere esercitato in modo lungimirante, inclusivo e “bonario”, senza che appaia una minaccia verso quelli che non condividono le tue opinioni. Insomma, il moderatismo di Tatarella si espresse sempre anche come moderazione. Una virtù rara nella politica italiana, una delle ragioni del rispetto e del rimpianto con cui è ricordato, oggi, non solo da chi gli fu vicino e solidale nella lotta politica, ma anche da chi, dalla parte avversa, lo considerò sempre un interlocutore intelligente, attento e aperto al dialogo. Bisogna dire la verità: il senso del rimpianto che oggi si avverte non nasce solo dalla constatazione del fatto che egli fu un anticipatore di processi politici e culturali che hanno segnato in questi anni la storia del Paese, ma anche, purtroppo, dalla considerazione delle occasioni che sono state mancate rispetto alle attese e alle speranze di quella che fu la stagione iniziale di questa Seconda Repubblica di cui egli fu partecipe.
Siamo certo ben lontani da quel bipolarismo maturo e civile per il quale egli lavorò con passione ricercando il dialogo e l’intesa. Non solo perché appare incompiuto il processo delle riforme costituzionali. Ma persino perché si affaccia costantemente il rischio di un conflitto fra le istituzioni dello Stato proprio quando le difficoltà e le fragilità del Paese richiederebbero il massimo di coesione e – appunto – di armonia. In realtà, l’esperienza di questi anni dimostra che senza istituzioni forti è assai difficile realizzare non solo la convergenza sulle nuove regole necessarie, ma anche quelle grandi riforme della società che hanno bisogno di dialogo e di un certo grado di condivisione per incidere in modo profondo e duraturo sulla struttura del Paese. Accade così che una stagione nuova, che pure ha dato all’Italia, dopo decenni di democrazia bloccata, la grande novità positiva dell’alternanza e del ricambio delle classi dirigenti, non abbia prodotto, sin qui, risultati significativi sul piano del governo del Paese, delle profonde trasformazioni necessarie per ridare slancio alla società italiana, invertire il rischio di un declino, vincere la sfida della competitività nel presente e, soprattutto, sconfiggere una perdita di fiducia nel futuro.
Insomma, se dobbiamo dire la verità, bisogna riconoscere che quel filo di cui parlò Tatarella, se non spezzato si era certamente ingarbugliato molto, al punto che non abbiamo più saputo ritrovare il bandolo della matassa. Non dico questo perché ci si debba abbandonare allo scetticismo o far vincere dallo spirito della rinuncia. In fondo, ricordiamo un uomo che ci ha lasciato una lezione di passione politica e di tenacia, una capacità di pensare il futuro e di progettarlo anche nelle condizioni più difficili. Questa è la lezione più importante da ricordare: la politica, la grande politica (Max Weber) consiste nella capacità di andare avanti malgrado tutto. Bisogna, allora, che i riformisti riprendano il cammino, se vogliamo che quell’ “arrivederci” alle riforme, con cui Tatarella salutò l’esito negativo della Bicamerale con un misto di amarezza e di ottimismo, diventi realtà. Bisogna ricominciare a dialogare non per il gusto del dialogo, ma guardando ai grandi problemi del Paese e cercando di ascoltare e di capire le ragioni degli altri. Siamo qui anche per dire questo e per confermare le ragioni di un impegno. E mi sembra il modo migliore per un ricordo che non sia soltanto la celebrazione di un rito ma la capacità di raccogliere una eredità e di riprendere il cammino verso obiettivi condivisi.
Massimo D’Alema

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