Discorso
20 febbraio 2009

Presentazione del volume “Un’idea di Europa – Riflessioni e proposte per l’Unione Europea di domani” - Napoli<br><br>

Intervento di Massimo D’Alema


Il volume che oggi presentiamo, “Un’idea di Europa – Riflessioni e proposte per l’Unione Europea di domani”, concentra l’attenzione su tre questioni cruciali per l’avvenire del nostro continente e non ha un carattere meramente analitico. L’analisi c’è ed è intelligente, ma l’intenzione e’ soprattutto quella individuare delle proposte. È un bel lavoro e per questo abbiamo deciso di presentarlo.D’altra parte, e’ questo il modo di lavorare della Fondazione: un gruppo di persone studia e se cio’ che viene prodotto e’ interessante, viene pubblicato e presentato. Laddove il lavoro arriva ad un buon livello di elaborazione, ha un impatto anche sulla vita politica ed istituzionale, cosicche’ le iniziative che svolgiamo diventano politica.

Da questo punto di vista, penso che il volume sull’Europa andrà a fornire un contributo importante anche alla piattaforma con la quale il PD si presenterà in campagna elettorale per le europee. Spero altresì che esso possa rappresentare un punto intorno al quale sviluppare nei prossimi mesi un dibattito pubblico sull’Europa, in modo tale che la campagna elettorale europea non sia soltanto un’occasione per misurare i rapporti di forza tra partiti e leader all’interno di uno scenario sostanzialmente domestico, com’è stato il più delle volte nel passato. Oggi questo sarebbe un gravissimo errore, perché le elezioni europee davvero toccano questioni cruciali dell’avvenire del nostro Paese, nel quadro europeo ed internazionale.

Prima di entrare nel merito della questione, vorrei soffermarmi su una delle domande che sono state poste dall’uditorio, a proposito della collocazione europea del PD. Sono vicepresidente dell’Internazionale Socialista, e la Fondazione Italianieuropei, che presiedo, fa parte del board delle fondazioni di cultura politica dei Socialisti Europei. Abbiamo anche partecipato all’elaborazione del programma del PSE e senza dubbio Italianieuropei si connota, oggi, come un pezzo del socialismo internazionale. Ciò detto, sono convinto che il PD debba sciogliere questo nodo, non nel senso di diventare un partito socialista, che sarebbe una richiesta sbagliata, ma nel senso dell’apparentarsi in Europa con quella che e’ la grande forza del riformismo europeo. Senza dover necessariamente essere un partito socialista, si può fare parte di un gruppo dei socialisti e dei democratici. Credo che la prospettiva debba essere quella di lavorare con i socialisti senza che cio’ muti l’identità di un partito che va oltre i confini del socialismo e che comprende socialisti e democratici – non – socialisti.

Tornando alle questioni che ci riuniscono qui, non si puo’ non affrointare da subito il problema della crisi profonda e drammatica, economica e sociale, che investe l’Europa e il mondo intero. Si tratta di una crisi di cui è ancora difficile prevedere gli esiti e misurare la gravità. Il FMI è costretto a rivedere le proprie stime in maniera quanto mai ravvicinata e le cifre mostrano un aggravamento drammatico. Gli ultimi dati sull’andamento della produzione industriale, che risalgono ormai allo scorso dicembre, parlano di un calo del 10,5% in un anno e c’è da ritenere che quelli relativi all’inizio dell’anno faranno registrare un ulteriore peggioramento.

È evidente come vi sia stata una clamorosa sottovalutazione della gravità e della reale portata della crisi, soprattutto da parte del governo italiano, ma più in generale da parte delle classi dirigenti europee. L’idea che tutto sommato l’Europa fosse al riparo dalle tossine della finanza di Wall Street e che la crisi fosse essenzialmente determinata dal mercato finanziario speculativo e ad esso circoscritta, si è rivelata una visione parziale di un fenomeno che in realtà investe l’intera organizzazione della globalizzazione economica e finanziaria. Insomma, la crisi finanziaria ha avuto, com’era ampiamente prevedibile, un “secondo tempo” rappresentato dalla crisi industriale ed economica, che adesso colpisce pienamente l’Europa, e particolarmente l’Italia.

Il nostro Paese se da un lato ha un sistema finanziario più solido e meno inquinato da quei prodotti che sono stati all’origine del disastro, dall’altro è essenzialmente produttore di beni di consumo e pertanto risente drammaticamente del crollo dei consumi internazionali. Inoltre, il nostro sistema delle imprese è estremamente “frantumato” e generalmente sottocapitalizzato. Pertanto è colpito in modo drammatico dalla restrizione della liquidità e dalle difficoltà del sistema bancario.

La crisi che attraversiamo non è solo economica e segna la fine di un lungo ciclo politico. Uno dei capitoli del lavoro che presentiamo oggi, “La politica estera di sicurezza”, evidenzia come lo scenario della politica internazionale e il ruolo dell’Europa nel nuovo equilibrio mondiale siano fondamentalmente connessi anche al tema energetico e a quello dello sviluppo. Oggi proprio questi aspetti determinano l’esaurirsi di una fase ed evidenziano una crisi della politica estera portata avanti dalle due amministrazioni – Bush. La politica dell’esportazione della democrazia e della guerra al terrorismo non solo ha lasciato irrisolti, ma anzi ha aggravato i problemi che si proponeva di risolvere: ha reso più drammatico il distacco tra mondo occidentale e mondo islamico; ha allargato e rafforzato le basi di consenso e sostegno al terrorismo fondamentalista. Irrisolto, infine, anzi ancor piu’ drammaticamente accresciuto, è quel conflitto israelo – palestinese che rappresenta il cuore anche simbolico dello scontro tra Occidente e mondo islamico.

Esiste, dunque, un rapporto tra crisi economico – finanziaria e crisi politica.
L’esaurirsi di un ciclo della politica americana con un bilancio così negativo e la necessità di imprimere un profondo cambiamento di rotta sono i due aspetti che costituiscono la sfida con la quale si misura l’amministrazione americana. Questa sfida avrebbe bisogno di un Europa - attore politico ed economico in grado di assumersi una responsabilità enormemente più grande di quanto non faccia.

Il gap tra questo bisogno di Europa e la debolezza delle sue istituzioni e classi dirigenti è oggi uno dei problemi più seri sullo scenario internazionale. A mio avviso dovrebbe essere questo il grande tema della prossima campagna elettorale, intorno al quale i cittadini europei dovrebbero venire in campo con le loro scelte, per fare in modo che le elezioni rappresentino un rilancio del processo politico europeo. A partire dalle grandi questioni della politica internazionale, non è pensabile caricare tutto sulle spalle degli Stati Uniti.

Qualche tempo fa, la Fondazione Italianieuropei ha promosso un seminario nel quale è stato presentato il lavoro di tre giovani ricercatori che, d’accordo con il CNR, hanno compiuto una sorta di viaggio d’istruzione all’interno di alcuni think tank americani, soprattutto democratici, per cercare di delineare uno scenario possibile dell’evoluzione della politica estera americana con il cambio dell’amministrazione, dunque prima ancora che questo accadesse. Ne è venuta fuori un’indagine molto interessante, soprattutto per una serie d’interviste con le maggiori personalità che lavorano nel backstage della politica estera americana, determinandone le linee. Alcune di queste personalita’, con l’avvento dell’amministrazione democratica, si sono poi trovate ad assumere delle responsabilità di governo. Bene, le valutazioni alle quali i ricercatori sono giunti, e che ho presentato in una lezione alla LUISS, sono state predittive. Ad esempio, non ci ha stupito il fatto che Hillary Clinton abbia compiuto in Asia il suo primo viaggio da Segretario di Stato. Era chiaro, lo avevamo detto, che la priorità della politica estera americana sarebbe stata il rapporto con l’Asia, mentre il rapporto transatlantico avrebbe contato relativamente meno. Anzi, assisteremo ad un certo disimpegno americano nell’area, perche’ e’ naturale che per un’amministrazione chiamata a misurarsi soprattutto con il dramma della crisi economica, i rapporti con i grandi partner asiatici siano cruciali. Basti pensare al fatto che è la Cina a detenere il debito pubblico americano, non certo l’Europa. D’altra parte, l’Asia è cruciale per gli americani anche dal punto di vista della sicurezza, perché al di là dell’avventura militare irachena di Bush, il vero nodo è l’equilibrio di Paesi quali l’Afganistan, il Pakistan, l’ India. Pertanto, è là che si concentrerà lo sforzo della nuova amministrazione. Questo scenario accresce gli spazi d’iniziativa dell’Europa, a patto, però, che essa sia in grado di assumersi responsabilità sia politiche che militari.

A questo proposito, il governo italiano ha annunciato la sua disponibilità ad un aumento della presenza militare italiana in Afganistan. Di questo, credo, prima o poi si discuterà anche in Parlamento, sebbene l’attuale governo sembri considerarlo come un disturbo alla sua azione. Personalmente, nel periodo in cui ero ministro degli Esteri, ritenni di dover sostenere due o tre dibattiti generali di politica estera di fronte alle Camere, anche perché avevamo una maggioranza che, se non altro, aveva il merito di voler discutere … Oggi, invece, c’è una maggioranza dal carattere più esecutivo.

Detto questo, ho recentemente avuto occasione di discutere dell’Afghanistan con il generale Petraeus, comandante dell' U.S. Central Command che detiene la responsabilità strategica di tutto il teatro mediorientale, compresa la conduzione delle operazioni militari in Iraq e Afghanistan. Petraeus è stato protagonista dell’ultima fase della strategia americana in Iraq, per altro quella condotta con maggiore intelligenza. Mi ha detto che certamente è utile e necessario incrementare la presenza militare in Afghanistan, ma che occorre soprattutto una nuova strategia. È evidente che alcune delle idee che, tra mille polemiche, abbiamo avanzato negli anni scorsi, ora finalmente divengono di attualità. Noi, infatti, sostenemmo con forza la necessità di una conferenza internazionale in Afghanistan per ripensare la strategia ed individuare un mix diverso tra azione militare, politica ed economica. Una strategia che aiutasse la crescita di una realta’ statuale e di una societa’ civile in quel Paese. Un lavoro che non puo’ certo essere fatto attraverso l’accavallarsi di una missione di stabilizzazione come Isaf con una missione di guerra come ‘’Enduring Freedom’’, che provoca la morte di tanti civili.

Siamo stati noi ad aver sollevato questi problemi in passato, adesso se li pone anche la nuova amministrazione americana e cio’ rappresenta un test impegnativo per la politica estera europea: ingaggiare un confronto con un’amministrazione che sembra finalmente orientata a cambiare strategia rispetto a quella che è stata seguita nel corso degli ultimi anni.

Al tempo stesso, occorre una maggiore responsabilità dell’Europa nel Mediterraneo, in particolare sulla questione drammatica del conflitto israelo - palestinese. Gli Stati uniti potranno cercare di accompagnare le scelte dei governi israeliani, ma difficilmente potranno essere incisivi se non c’e’ in campo un’Europa piu’ attiva e responsabile.

In ogni caso, se consideriamo lo scenario mediorientale, anche qui noi possiamo rivendicare di aver fatto da battistrada, perché certamente uno dei momenti più alti della politica estera e di sicurezza comune dell’Europa è stato, da ultimo, durante la crisi libanese. Da questo punto di vista, infatti, vi è una certa differenza tra il ruolo che l’Italia ha svolto durante l’ultima guerra di Gaza, rispetto alla quale il merito principale del governo Berlusconi è stato quello di non essersene occupato, e il ruolo che essa svolse durante il conflitto tra Israele e Libano. Allora, noi prendemmo l’iniziativa per porre fine al conflitto, promuovendo la Conferenza Internazionale per la pace nel Libano, che si svolse a Roma, capitale della diplomazia internazionale, e riuscimmo a riportare l’ ONU in uno degli scenari più tormentati del mondo, dal quale era stata praticamente estromessa. Successivamente, l’ONU e l’Unione Europea diedero vita congiuntamente alla missione a guida italiana, che a mio parere ha rappresentato un significativo contributo alla sicurezza d’Israele. Infatti, se non ci fosse stata quella missione internazionale, credo che durante la guerra di Gaza li’ si sarebbe riaperto un secondo fronte. Voglio dire che quello del Libano rappresenta l’esempio di un’assunzione di responsabilità europea, perche’ non si tratta di una missione UE, ma di una missione ONU a nerbo europeo. Ed è un buon esempio di cooperazione internazionale anche dal punto di vista istituzionale.

Insisto sulla necessita’ di un’iniziativa europea nel Medirterraneo, perche’ è chiaro che il processo di pace israelo-palestinese, senza un forte impulso internazionale, è destinato ad arenarsi e ad imputridire, con rischi giganteschi di moltiplicazione del pericolo terroristico non soltanto nelle aree interessate dal conflitto, ma anche in Occidente. Recentemente è stato condotto uno studio sull’effetto di “radicalizzazione” prodotto dalla guerra di Gaza nelle comunità islamiche europee. Il risultato di quello studio ci dice che il conflitto di Gaza non ha soltanto prodotto millequattrocento morti, in gran parte civili e bambini, ma ha avuto un impatto politico mediatico devastante. Gli spettatori di Al Jazeera, in quell’occasione, sono stati tra i quattro e i cinquecento milioni, ivi compresa una parte importante di quei venti milioni di musulmani che vivono nei nostri Paesi. Dunque,
il conflitto Israelo - Palestinese costituisce ugualmente un grande problema di sicurezza europea.

Una maggiore assunzione di responsabilita’ sara’, per l’Europa, un importante banco di prova, che richiede la realizzazione di alcune proposte da noi avanzate e delle quali siamo portatori. Ad esempio, il rafforzamento di una dimensione militare europea, che è possibile. Si può spendere meno e fare meglio. La spesa per la difesa europea ha una componente burocratica e gestionale totalmente sproporzionata, mentre è troppo bassa la componente per investimenti, tecnologie e cooperatività. Nell’ottica di un esercito europeo, è possibile sviluppare la specializzazione di ogni singolo Paese e ciascuno può investire in particolare nei settori in cui ha un più alto grado di qualificazione. L’Italia, ad esempio, è in grado di esprimere eccellenza in alcuni settori come l’elicotteristica o le navi di piccolo cabotaggio.

Davvero l’unica dimensione ragionevole è la dimensione europea, se vogliamo essere utili ad una politica mondiale di mantenimento della pace e di contenimento dei pericoli e delle minacce che abbiamo di fronte. Non solo. Ritengo, infatti, che ci sia un rapporto forte tra lo sviluppo di una dimensione europea per la gestione della politica estera e di sicurezza e le azioni di rilancio da intraprendere contro la crisi economica. Penso, ad esempio, a come il Mediterraneo sia cruciale dal punto di vista della politica e della sicurezza energetica. Anche a questo proposito, l’America indica una strada, che è quella di un grande piano di rilancio dell’economia attraverso l’innovazione energetica. Su questo tema, l’Europa si e’ data obiettivi molto ambiziosi, rispetto ai quali la strumentazione appare largamente insufficiente, poiché, ad eccezione della Germania, non esiste una grande industria europea dell’energia alternativa. Gli americani e i giapponesi hanno invece dei grandi colossi che operano in questo campo. L’Italia, poi, è particolarmente indietro.

Credo che per poter raggiungere gli obiettivi che ci siamo dati occorra ragionare soprattutto in un’ottica di politica di vicinato. Una delle strade d seguire è quella dell’interconnessione delle reti con i Paesi del Mediterraneo. La Libia, da questo punto di vista, ha delle potenzialità gigantesche. Tradizionalmente noi acquistiamo dalla Libia petrolio e gas, ma in realtà potremmo acquistare più semplicemente l’energia solare. La Libia è grande cinque volte l’Italia e ha sei milioni di abitanti. Nella parte meridionale del Paese c’è la migliore esposizione al sole che esista su questo pianeta. Se realizzassimo con quel Paese l’interconnessione della rete elettrica, anziché riempire il Mediterraneo di navi che trasportano petrolio con i tutti i rischi connessi, potremmo ricevere l’energia elettrica attraverso la rete, in maniera semplice e poco costosa.

Una politica energetica meno inquinante e meno rischiosa, che valorizzi una molteplicità di fonti, con gli stessi Paesi che sono nostri partner nei settori tradizionali della politica energetica, e’ tema fondamentale della cooperazione mediterranea, anche perche’ parliamo di un settore nel quale è possibile promuovere un grande sviluppo. Il salto di qualità si prospetta rapido e di grande portata, come avvenuto nel campo della comunicazione mobile negli ultimi 15 anni, nel corso dei quali i telefonini sono diventati un oggetto multimediale capace di trasmettere in tempo reale e a basso costo informazioni, immagini e altro. Un Paese come il nostro dovrebbe cercare di stare dentro questa prospettiva, invece di chiacchierare di nucleare.

Una politica energetica europea richiederebbe scelte coraggiose, che non sono soltanto quelle necessarie dell’unificazione e dell’integrazione fisica del mercato, ma sono soprattutto quelle che fanno dell’Europa un soggetto unitario nel confronto con i Paesi fornitori, modificando i rapporti di forza. Ad esempio, non e’ vero che noi siamo dipendenti dalla Russia, come sembra credere il presidente del Consiglio, che per questo motivo tralascia di affrontare la questione dei diritti umani. La Russia e l’Unione Europea, infatti, sono interdipendenti, perché senza le tecnologie e il mercato europeo il petrolio e il gas russi conterebbero meno. È evidente che se i Paesi europei smettessero di relazionarsi con la Russia ciascuno per conto proprio e le questioni venissero affrontate come Unione Europea, si avrebbe ben altra forza contrattuale per costruire un rapporto paritario, non ostile, ma di integrazione. E con reciproco vantaggio.

Vincere la logica dei nazionalismi e valorizzare la forza d’urto del soggetto - Europa è un salto di qualità che occorre fare e che avrebbe anche un’incidenza sui problemi e su tutti gli aspetti di sicurezza geopolitica. Invece, rilevo con preoccupazione come l’attuale establishment europeo, di fronte alla crisi, riconosca la necessità di stabilire regole comuni, ma che poi, nella sostanza, prevalga l’idea di allentare i vincoli e rinazionalizzare le politiche economiche. Per l’Europa e’ una risposta sbagliata e miope, ma lo è ancora di più per l’Italia, dove questo tipo di scelta rappresenta il contrario dell’interesse nazionale, perché, come giustamente ricordava Gianni Pittella, l’allentamento dei vincoli riguarderà soprattutto i Paesi che hanno minore debito pubblico e non è il nostro caso.

Per superare questa crisi bisogna coordinare le politiche e unire le forze. E per averne dimostrazione basta guardare all’impatto che producono le scelte americane. L’America è stato il Paese maggiormente responsabile della crisi internazionale e quello che ne è stato più drammaticamente investito, ma alla fine sarà probabilmente quello che ne uscirà meglio, perché maggiore è la sua capacità di reazione e di decisione, la sua forza d’urto. In Europa si discute su come mettere insieme duecento miliardi, mentre il piano Paulson ne ha resi disponibili più di mille e adesso Obama interviene con un altro programma di circa ottocento miliardi di dollari. Rispetto alla forza d’urto con cui il sistema politico americano reagisc e di fronte alla crisi, l’Europa, che si era illusa di esserne al riparo, rischia risposte insufficienti sia in termini quantitativi che qualitativi.

Da questa crisi, infatti, non sarà possibile uscire ripristinando il vecchio meccanismo di sviluppo. Occorre, invece, un cambiamento profondo, direi persino di valori. Questa è una crisi che investe anche l’etica dello sviluppo e per uscirne sarebbe necessaria una sorta di patto tra i produttori, in grado di rimettere al centro l’economia reale, la produzione e il lavoro. Questo richiede un mutamento politico e culturale.

Non si esce dalla crisi senza un profondo risanamento del sistema finanziario, il quale, dal canto, suo non può scaricare sulle imprese le sue difficoltà, come sta avvenendo attraverso una restrizione di liquidità che rischia di mettere in ginocchio tante imprese, soprattutto piccole e medie, e di farci arrivare all’appuntamento con la ripresa con un sistema economico drammaticamente indebolito.

Spero che si possa uscire dalla crisi evitando la nazionalizzazione delle banche. Tuttavia, è evidente che le grandi banche non possono fallire e che c’è anche una responsabilità degli Stati, rispetto a questo obiettivo. Occorre una forte solidarietà europea, perché in questa crisi anche gli Stati saranno in difficoltà. Capisco la preoccupazione del ministro dell’Economia, il quale quest’anno deve emettere duecento miliardi di titoli pubblici per finanziare il debito pubblico italiano e non sa bene se il mercato li comprerà. Se può esserci questa preoccupazione in un Paese come l’Italia, immagino che altri Paesi europei, dalla Grecia al Portogallo, avranno preoccupazioni in misura anche maggiore. E’ una preoccupazione che non puo’ riguardare i singoli Paesi, ma che investe la responsabilita’ europea. In tal senso, la BCE deve cessare di essere soltanto il luogo dove si stabiliscono dei vincoli. Il problema, adesso, è il funzionamento del sistema finanziario, non soltanto in termini di sopravvivenza, ma anche di capacità di garantire liquidità per lo sviluppo e per la salvezza delle imprese. Ripeto, non ritengo che questo significhi mettere all’ordine del giorno la nazionalizzazione delle banche nel nostro Paese, ma certamente le grandi istituzioni finanziarie italiane devono essere aiutate a superare questa crisi e devono essere messe a riparo dalle manovre speculative che le hanno colpite e danneggiate in queste settimane.

Ma se il primo problema è quello di garantire il funzionamento del sistema finanziario per le imprese, l’altro grande problema è sostenere l’economia attraverso investimenti e innovazione. Qui davvero ha ragione Obama: c’è bisogno di grandi investimenti pubblici orientati all’innovazione, alla ricerca per l’energia alternativa, alle grandi infrastrutture. I ritorni di questo tipo di investimenti saranno meno immediati, ma in prospettiva essi faranno la differenza. Il nostro Paese, invece, ha di fatto ridotto l’impegno nei grandi investimenti pubblici, tagliando soprattutto quelli destinati al Mezzogiorno, con una scelta antimeridionale che costituisce uno dei tratti distintivi di questo governo. E c’è bisogno di investimenti pubblici a sostegno dell’iniziativa europea.

Non riprendo le cose che sono state già dette, né ripropongo l’antica rivendicazione socialista di un programma europeo di investimenti, finanziato anche attraverso bond europei. Probabilmente è stato un errore, da parte dei socialisti europei, piegarsi ad una logica monetarista e non tenere su quel fronte. Vi sono responsabilità, in particolare, dei socialdemocratici tedeschi, che sono diventati gli alfieri di una politica fatta di vincoli, pagando alla fine anche un duro prezzo elettorale. Va ripresa, invece, l’idea di un’Europa- motore propulsore di politica economica, di investimenti, di innovazione.

Infine, credo da questa crisi si debba uscire anche attraverso una grande opera di redistribuzione della ricchezza. Non è un caso che l’ultima copertina del Newsweek dica: “Siamo tutti socialisti”. All’origine della crisi non c’è soltanto il prevalere di una logica speculativa e dell’idea che il denaro produca denaro, prescindendo dal lavoro e dalla produzione, ma c’è anche la paurosa crescita delle diseguaglianze sociali.

È vero che il credit crunch nasce dai prodotti derivati, però all’origine c’è una situazione reale. In fondo, è sui mutui delle case che le banche hanno intrapreso quella specie di giuoco magico del denaro che produce denaro, già descritto da Carlo Marx nel IV libro del Capitale. Se ad un certo punto il castello di carte è crollato, è perché milioni di famiglie americane si sono impoverite e non sono state più in grado di pagare il mutuo. L’impoverimento delle classi medie e del mondo del lavoro è stato uno dei portati della globalizzazione economica. Nel nostro Paese, ad esempio, negli ultimi 15 anni i redditi da lavoro autonomo sono cresciuti del 44%, mentre quelli da lavoro dipendente sono cresciuti del 6%. Si è, dunque, allargata la forbice sociale. E siccome l’accumularsi della ricchezza in poche mani e l’impoverirsi dei più produce anche una riduzione dei consumi, inevitabilmente la redistribuzione della ricchezza diventa non soltanto una fondamentale esigenza di giustizia sociale, ma anche una necessità economica, se si vuole fare ripartire il ciclo.

Bisogna remunerare di più il lavoro e questo non può avvenire a carico della competitività delle imprese, ma occorre che avvenga anche a carico della fiscalità generale. In Italia, invece, sta accadendo l’opposto: la redistribuzione del reddito, in questi mesi, è avvenuta a favore della rendita e l’abolizione del’Ici totale sulla prima casa ne e’ una testimonianza. Se si fossero usate le stesse risorse per abbattere l’IRPEF sui salari medio – bassi, questo sarebbe andato a favore dei lavoratori e delle imprese. Inoltre, e’ ripresa alla grande l’evasione fiscale, come si evince dal gettito e come ha ribadito la Corte dei Conti in un argomentato parere delle Sezioni riunite, specificando anche quali misure del governo l’hanno maggiormente favorita. Nello stesso tempo, la pressione fiscale e’ aumentata. Tutto ci dice che, in questo momento, sono i cittadini onesti e le classi medie a contribuire considerevolmente di più, vedendo ulteriormente ridotto il loro reddito disponibile.

Stiamo andando nella direzione opposta rispetto a quella necessaria, ben rappresentata dalla risposta dell’amministrazione americana, che va nel verso di salvaguardare il sistema finanziario non in una logica conservativa, ma garantendo liquidità per le imprese, in modo da rilanciare investimenti e innovazione e da favorire la redistribuzione della ricchezza. Può essere considerato un atto simbolico, ma l’America ha messo un tetto agli stipendi dei grandi manager e ha ridotto le tasse ai lavoratori della classe media: è una lezione di socialismo che viene da oltre Oceano. Certo, parliamo di socialismo nel senso dei valori, ma l’esempio viene da dove mai nessuno se lo sarebbe aspettato, in una vecchia Europa che appare non all’altezza della sua storia migliore.
Grazie

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