Intervista
24 marzo 2009

INTERVISTA ALLA RADIO TEDESCA ‘’ARD” SUI DIECI ANNI DALLA GUERRA NEI BALCANI -

di Stefan Troendle - ARD


Sono passati dieci anni dall’inizio della guerra nei Balcani. Quando questa vicenda e’ diventata piu’ difficile e la guerra e’ parsa inevitabile, lei con chi parlava?
“Le decisioni furono prese a livello internazionale. Proprio in questi giorni e’ uscito il libro di Marta Dassu’, esperta di politica estera, che allora lavorava con me a Palazzo Chigi. Nel libro, si rievoca l’incontro con il presidente Bill Clinton, alla vigilia del conflitto. Dalla discussione con lui e il suo consigliere per la sicurezza nazionale, Sandy Berger, emergeva che in quel momento gli americani erano convinti che un’azione militare della Nato avrebbe piegato la Serbia in due, tre giorni. Io intervenni e dissi: “e’ un’analisi sbagliata, non conoscete Milosevic, non conoscete i serbi. La situazione e’ molto piu’ complessa e difficile. L’intervento sara’ molto piu’ lungo. Non durera’ due giorni… Cosa faremo?”. Era il marzo ’99. E allora Clinton si fermo’, non rispose. Lo fece, invece, Sandy Berger, che disse: ‘’continueremo a bombardare’’. Una risposta che dimostrava che gli americani non erano molto preparati a quello che poi sarebbe accaduto. Eravamo alla vigilia. Tra i principali leader dei Paesi occidentali si parlava della necessita’ di una azione militare”.
In Germania, dove governava la sinistra, c’era un grande problema, perche’ per la prima volta il nostro Paese partecipava ad una azione aggressiva, ad una guerra. Anche voi, qui in Italia, avete avuto lo stesso problema?
“Non fu una scelta facile, neanche a livello europeo. In quella direzione spinsero in particolare gli inglesi con Tony Blair ed anche i francesi. Ma in realta’, per ragioni storiche, Inghilterra e Francia sono Paesi che hanno una maggiore propensione all’uso della forza. Per l’Italia e la Germania, invece, e’ piu’ traumatico, anche perche’ per tedeschi e italiani, che hanno perduto la seconda Guerra Mondiale, la guerra e’ un tabu’. Detto questo, fu per tutti una decisione molto drammatica. Ricordo che, prima dell’intervento della Nato, quando si scateno’ l’offensiva militare e dei gruppi paramilitari serbi in Kosovo, andai per la Pasqua a Kukesh, al confine tra il Kosovo e l’Albania. Vidi personalmente i profughi che fuggivano dal Kossovo. Fu un’immagine fortissima, drammatica. Ho assistito a scene che mi hanno colpito duramente, persone ferite, bambini, anziani… Ecco, devo dire che in quel momento arrivai alla convinzione interiore che si doveva agire, che bisognava fare qualcosa, che non si poteva accettare passivamente quello che stava accadendo, che bisognava intervenire. E decidemmo di intervenire. Clinton mi disse: l’Italia e’ talmente prossima allo scenario di guerra che noi non vi chiediamo un impegno militare. Vogliamo l’uso delle basi. Ma io risposi di no. Spiegai che se ci doveva essere questa azione militare, mi sembrava giusto che l’Italia si prendesse la sua parte di responsabilita’. In questi casi, si risponde si’ o no. Nel caso del si’, la responsabilita’ - a mio avviso - deve essere tutta intera. E me la presi”.
Quanto e’ stato difficile, personalmente, prendere una decisione come questa?
“Personalmente fu molto difficile, molto pesante. E fu pesante tutto il periodo del conflitto, anche dal punto di vista umano. Cominciarono, naturalmente, ad arrivare le notizie delle vittime civili, gli effetti collaterali, le tensioni con gli alleati… Non fu una vicenda ne’ breve ne’ semplice. In Cdm non chiesi neanche di votare. Nessuno, nel governo, chiese di farlo. Io dissi: mi prendo la responsabilita’, lo faccio io, non vi chiedo di condividerla. Se le cose andranno male, mi dimettero’. La discussione fini li’. Vi fu rispetto”.
In Italia che clima c’era?
“Credo che all’inizio vi fu comprensione delle ragioni, vi fu condivisione. Poi, pero’, la guerra continuava, non si vedeva una conclusione e questo creo’ angoscia nel Paese. Ci preoccupammo delle misure di sicurezza, visitai i comandi della Nato, le sale operative… Mi resi conto, in quel momento, che il dispositivo di sicurezza della Nato era molto forte. Non c’erano minacce effettivamente rilevanti per il nostro Paese, anche se, certamente, era possibile che vi fossero azioni ritorsive, ma limitate. Poi comincio’ il lavoro diplomatico per cercare una via d’uscita. E noi giocammo un ruolo molto importante, a mio parere anche perche’ ci eravamo presi le nostre responsabilita’ militari. C’e’ poco da fare: in questi casi, chi si assume responsabilita’ sul piano militare, conta di piu’ anche sul piano politico.
Dieci anni dopo, lei pensa che tutto questo valeva la pena?
“Credo che non vi fossero alternative. E comunque bisogna considerare la vicenda del Kosovo nel quadro delle vicende civili balcaniche. Il Kosovo non era un episodio isolato: nei Balcani c’erano stati trecento mila morti. Bisognava porre fine a questa tragedia. Effettivamente, dopo il Kosovo, i conflitti cessarono, perche’ la sconfitta’ apri’ la strada ad un processo di crisi del regime di Milosevic”.
Lei ando’ a Kukesh con la San Marco.
“Andai con i nostri militari, con i volontari, ma la presenza italiana era gia’ significativa, perche’ rappresentava il principale aiuto al di la’ del confine. Credo che noi facemmo una grande operazione umanitaria, con un concorso della societa’ civile, delle ong, veramente molto importante. E si tratto’ anche di una grande operazione di sicurezza, perche’ l’Albania non era in grado di accogliere i profughi. Se non li avessimo assistiti in Albania, avremmo avuto i boat people in Adriatico, una grande massa di persone che si sarebbe riversata in Italia. Da questo punto di vista, la “Missione Arcobaleno” fu un’operazione umanitaria e di sicurezza. Dal Kosovo scapparono 300 mila persone, che vennero in gran parte soccorse li’. Per le situazioni piu’ gravi e difficili, invece, attivammo un ponte aereo con Comiso. Insomma, fu un’operazione gestita bene. Non vi fu solo il lato militare, vi fu anche questo grande impegno civile che rappresento’ un momento importante e che aiuto’ a costruire un rapporto positivo con l’Albania. Noi, infatti, avevamo sofferto moltissimo l’immigrazione clandestina che veniva da quel Paese. A partire da quel momento, gettammo anche le basi per risolvere insieme il problema. Ora in Puglia non arriva piu’ nessuno: e’ il frutto delle scelte di allora.
Quando fu presa la decisione della “missione Arcobaleno”, prima della guerra oppure a guerra scoppiata?
“Gli aiuti italiani cominciarono prima, ma decidemmo di intervenire con la Missione Arcobaleno, contestualmente all’inizio della guerra, quando apparve chiaro che il flusso dei profughi, gia’ fortissimo, si sarebbe moltiplicato”.
La guerra e’ cominciata il 24 marzo. Lei da quando sapeva che sarebbe scoppiata?
“La decisione di partire con i bombardamenti fu di pochi giorni prima. Intendiamoci, gia’ con il governo Prodi - dunque alcuni mesi prima - era scattato il dispositivo della Nato ‘Activation Order’, attraverso cui le Forze Armate italiane erano state poste sotto il comando operativo della Nato, con il gen. Clark. Dunque, gia’ da allora, in qualche modo, le nostre Forze Armate erano in stato di pre-guerra e si cominciava a valutare la possibilita’ di un intervento della Nato. Il momento in cui far scattare le operazioni militari fu deciso pochi giorni prima, tra il 19 e il 24 marzo, in particolare durante la riunione del Consiglio europeo di Berlino”.

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