«La decisione di non far svolgere l'election day è un arbitrio e Berlusconi 
deve incassare il no di Bossi, decisore di ultima istanza delle sorti del 
governo con solo il 7-8% dei voti. Anche questa circostanza sottolinea 
l'anomalia del nostro sistema. In ogni caso, un rinvio della consultazione 
referendaria potrebbe essere una scelta ragionevole». Il Massimo D'Alema 
«diplomatico»,  ieri era a Bergamo per un incontro pubblico,  si ferma 
qui perché il suo j'accuse sulla sottovalutazione della gravità della crisi 
in Italia è quasi spietato: «Non solo Berlusconi continua a dire che stiamo 
meglio degli altri, ma senza fare quasi nulla per contrastarla, il suo 
governo è riuscito nel doppio record, tutto negativo, di far riesplodere 
evasione fiscale e debito pubblico. E così il Paese è fermo, come Grecia 
e Portogallo, mentre Bankitalia è sotto attacco del ministero dell'Economia 
quando diffonde i dati sulla situazione economica». Infine l'autocritica: 
«Anche il Pd deve saper indicare un orizzonte nuovo per il dopocrisi». 
Rinvio di un anno della consultazione referendaria. D'Alema è d'accordo, 
possibilista o dice no?«Prima di tutto, vorrei dire che ritengo molto 
grave la decisione del governo di non tenere l'election day, come è normale 
in tutti i Paesi civili. Parliamo di un elementare buon senso. Quando si 
vota negli Stati Uniti ci si esprime anche su una ventina di consultazioni 
referendarie. E non si possono scocciare tutti gli elettori ogni domenica. 
Invece, in Italia, in questi giorni, siamo di fronte all'arbitrio e all'arroganza 
di un ceto politico che impedisce ai cittadini di fare cose ragionevoli. 
E constatiamo come il nostro iperdecisionista presidente del Consiglio, 
che si spaccia per uno degli uomini più autorevoli del mondo, debba ubbidire 
al no di Bossi. Io ammiro Bossi perché dimostra di essere il decisore di 
ultima istanza, però in un Paese democratico uno che ha il sette o l'otto 
per cento dei voti non dovrebbe essere il decisore di ultima istanza. Anche 
questa circostanza sottolinea l'anomalia del nostro sistema».
Ma il rinvio di un anno?«Di fronte a questo arbitrio, è legittimo domandarsi se sia 
giusto "bruciare" il referendum, nel senso di piazzarlo in una domenica 
morta, o se invece non valga la pena rinviarlo di un anno, visto che si 
tratta una di materia elettorale e che non abbiamo scadenze di voto politico 
ravvicinate. Un rinvio potrebbe avere anche il vantaggio di riaprire un 
confronto sul sistema elettorale. Credo che sarebbe una scelta ragionevole».   
Obama vince le presidenziali Usa spinto anche dall'effetto-recessione. 
Il Pd, in Italia, non sembra «approfittarne». Perché?«Io credo che di fronte a una crisi così profonda come questa che, a mio giudizio, 
segna la fine di una fase storica e non di una congiuntura, noi assistiamo ad 
una certa divaricazione delle risposte politiche date dagli Stati Uniti 
e dall'Europa (e non solo l'Italia). Negli Usa la risposta alla crisi è 
stata accompagnata da una svolta politico-culturale radicale dopo otto 
anni di un dominio neoconservatore identificatosi con il neoliberismo senza 
regole. Una svolta, quella americana, che ha assunto il significato del 
ritorno in campo della politica nel segno della necessità di porre rimedio 
alle profonde diseguaglianze sociali che lo sviluppo neoliberista aveva 
determinato. Oltre Atlantico sta cambiando lo stesso modello di crescita 
economica che ora punta sull'ambiente e sulla riduzione dalla dipendenza 
dal petrolio. È un cambiamento radicale negli indirizzi di politica economica 
ma anche della politica in senso lato, culturale e generazionale».
Invece in Europa e in Italia?«Sembra prevalere una reazione alla crisi 
dominata dalla paura. Non è soltanto il caso italiano. Prevalgono atteggiamenti 
di chiusura nazionalistici, ritornano protezionismo e populismo. E quanto 
sta avvenendo in Francia ma anche nei Paesi centro-orientali. L'Europa 
appare più spaventata, più chiusa e non in grado di produrre una svolta 
politica. Oltretutto questo fa sì che il profilo stesso dell'Europa si 
stia appannando proprio nel momento in cui è più forte la pressione americana 
per una risposta più energica alla crisi mondiale. Questa divaricazione 
è emersa anche all'ultimo G20. In Italia e nell'Ue sta prevalendo, invece, 
la logica delle politiche e delle scelte nazionali e l'Unione si limita 
ad avvallare, allentando i vincoli, le scelte dei singoli governi».
Con quale rischi?«Di uscire dalla crisi più deboli, proprio perché prigionieri 
di una destra dalla visione economica ristretta. Una visione che non si 
accorge che nel mondo viene avanti una diarchia cino-americana che segna 
una nuova egemonia. Mentre noi siamo un po' confinati nel recinto delle 
nostre miserie, l'Italia più degli altri. Dentro questo contesto il centrosinistra 
ha una difficoltà, e non solo in Italia».
Un analogo problema di risposte 
adeguate alla drammaticità della recessione?«Manca la costruzione di 
un progetto che sia in grado di delineare un nuovo orizzonte per il domani».
«Ripartire dal Sud», lei ha detto in un'altra intervista. Ma il Nord cosa 
deve aspettarsi nei prossimi anni dal Pd?«Senza dubbio il Mezzogiorno 
è la parte del Paese che rischia di pagare il prezzo più alto a questa 
crisi. Ed è fuori discussione che senza un forte programma di sviluppo 
del Sud noi non riporteremo il nostro Paese a quei tassi di crescita che 
abbiamo abbandonato da molti anni. Questo per dire che la questione italiana 
ruota attorno al fatto che abbiamo un pezzo di Paese -  il Nord - dove il 
reddito procapite è uguale a quello della regione di Londra e un altro
-	 il Mezzogiorno - dove il Pil è più basso di quello del Portogallo. Nessuno 
in Europa versa in una situazione simile e non è pensabile che il Paese 
possa uscire da queste difficoltà strutturali senza affrontarla. Mi permetto 
poi di ricordare che i grandi programmi per lo sviluppo del Mezzogiorno 
degli anni Sessanta e Settanta sono stati un traino anche per l'industria 
del Nord. Da qui un imperativo: o noi recuperiamo una visione unitaria 
del Paese o non ce la caveremo, né al Nord né al Sud. Noi siamo misurati 
all'estero per i risultati dell'Italia, non della Lombardia o del Veneto». 
Dentro la crisi, negli ultimi giorni, Bankitalia ha rilanciato l'allarme 
su debito pubblico ed entrate. Come ne usciamo?«Prima è importante capire 
come ci siamo entrati in questa situazione. L'economia italiana vive una 
fase gravissima. Se ogni tanto non ce lo ricordasse Bankitalia, che anche 
per questo è sotto attacco del ministero dell'Economia, questo dato verrebbe 
cancellato. Tanto è vero che il nostro presidente del Consiglio si è accorto 
molto tardi della gravità della crisi anche se la sua tesi di fondo resta 
che noi stiamo meglio degli altri perché abbiamo agito in un modo più efficace 
e tempestivo. Salvo che non è vero».
Perché?«Perché noi viviamo in una 
bolla mediatica, in una menzogna priva di qualsiasi sostanza. Noi stiamo 
peggio, come ci dicono i dati della produzione industriale su base annua 
che registrano una caduta italiana del 24,7% contro una media europea del 
18 per cento. La media Ue non è certo brillante, ma noi siamo la maglia 
nera con la più alta inflazione europea (l'1,2% contro una media dell'0,6%). 
Il governo non ha fatto nulla tanto che l'Ocse stima in appena lo 0,3% 
del Pil ? contro il 5,8% degli Usa e il 3,8% della Germania ? il valore 
delle misure anticrisi adottate dal governo. Si è detto che il governo 
non poteva fare altro perché avevamo il problema del debito pubblico, ma 
paradossalmente, pur non facendo nulla, siamo il Paese che ha il più alto 
incremento del debito. Questi sono i dati ma non se ne discute perché il 
presidente del Consiglio ha proibito che se ne parli».
In verità il malessere 
della finanza pubblica data da anni...«Ma adesso, senza un'azione di 
stimolo dell'economia, noi abbiamo una caduta del Pil che è maggiore degli 
altri Paesi e questo si riflette anche sull'andamento della finanza pubblica. 
E in secondo luogo siamo entrati in una situazione negativa perché abbiamo 
una paurosa ripresa dell'evasione fiscale, la quale, relazione della Corte 
dei Conti alla mano, è favorita dalle misure prese da questo governo nel 
momento stesso del suo insediamento. Se l'evasione fiscale viene incoraggiata 
da chi governa, una parte del Paese non aspetta altro».
Quindi non è solo 
un problema di congiuntura sfavorevole?«Noi siamo alle prese con una 
serie di nodi strutturali irrisolti da 15 anni. Una circostanza che pone 
in causa tutti perché questa democrazia dell'alternanza ci ha dato il ricambio 
delle classi dirigenti, ma non ha prodotto risultati adeguati nel governo 
del Paese. Io credo che l'unico momento in cui la nazione è stata governata 
con qualche risultato sia stata la seconda metà degli anni Novanta, il 
solo periodo in cui si sono fatte delle riforme vere. Nel millennio in 
corso, invece, non è stata fatta alcuna vera, nuova, riforma e le performance 
del Paese sono lì a dimostrarlo. Siamo a sviluppo zero».
Però noi abbiamo 
stipendi greci o portoghesi, ma abbiamo anche il più forte sindacato d'Europa. 
Non è un po' una contraddizione?«Sì. In una certa fase il sindacato ha 
accettato, per senso di responsabilità nazionale, una politica di contenimento 
dei salari per fermare l'inflazione e favorire il risanamento della finanza 
pubblica. Sarebbe ingeneroso fare carico al sindacato di scelte che sono 
state fate per salvare il Paese e che al sindacato sono state chieste, 
a cominciare dagli imprenditori. Però, da un certo momento in poi, il sindacato, 
perdendo in parte il contatto con il mondo del lavoro, ha faticato a svolgere 
il suo ruolo fondamentale: negoziare il salario. È un po' diventato il 
sindacato dei pensionati o di certe categorie tradizionali mentre non ha 
saputo rappresentare i settori nuovi, in particolare i precari, ma anche 
i lavoratori più qualificati e i segmenti più moderni».                                                                       
                    
                    	