Intervista
18 aprile 2009

IL GOVERNO NON CONTRASTA LA CRISI. IL PAESE E' FERMO

ANCHE IL PD DEVE SAPERE INDICARE UN'ORIZZONTE NUOVO PER IL DOPOCRISI - intervista di Daniele Vaninetti - L'Eco di Bergamo


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«La decisione di non far svolgere l'election day è un arbitrio e Berlusconi
deve incassare il no di Bossi, decisore di ultima istanza delle sorti del
governo con solo il 7-8% dei voti. Anche questa circostanza sottolinea
l'anomalia del nostro sistema. In ogni caso, un rinvio della consultazione
referendaria potrebbe essere una scelta ragionevole». Il Massimo D'Alema
«diplomatico», ieri era a Bergamo per un incontro pubblico, si ferma
qui perché il suo j'accuse sulla sottovalutazione della gravità della crisi
in Italia è quasi spietato: «Non solo Berlusconi continua a dire che stiamo
meglio degli altri, ma senza fare quasi nulla per contrastarla, il suo
governo è riuscito nel doppio record, tutto negativo, di far riesplodere
evasione fiscale e debito pubblico. E così il Paese è fermo, come Grecia
e Portogallo, mentre Bankitalia è sotto attacco del ministero dell'Economia
quando diffonde i dati sulla situazione economica». Infine l'autocritica:
«Anche il Pd deve saper indicare un orizzonte nuovo per il dopocrisi».

Rinvio di un anno della consultazione referendaria. D'Alema è d'accordo,
possibilista o dice no?

«Prima di tutto, vorrei dire che ritengo molto
grave la decisione del governo di non tenere l'election day, come è normale
in tutti i Paesi civili. Parliamo di un elementare buon senso. Quando si
vota negli Stati Uniti ci si esprime anche su una ventina di consultazioni
referendarie. E non si possono scocciare tutti gli elettori ogni domenica.
Invece, in Italia, in questi giorni, siamo di fronte all'arbitrio e all'arroganza
di un ceto politico che impedisce ai cittadini di fare cose ragionevoli.
E constatiamo come il nostro iperdecisionista presidente del Consiglio,
che si spaccia per uno degli uomini più autorevoli del mondo, debba ubbidire
al no di Bossi. Io ammiro Bossi perché dimostra di essere il decisore di
ultima istanza, però in un Paese democratico uno che ha il sette o l'otto
per cento dei voti non dovrebbe essere il decisore di ultima istanza. Anche
questa circostanza sottolinea l'anomalia del nostro sistema».

Ma il rinvio di un anno?
«Di fronte a questo arbitrio, è legittimo domandarsi se sia
giusto "bruciare" il referendum, nel senso di piazzarlo in una domenica
morta, o se invece non valga la pena rinviarlo di un anno, visto che si
tratta una di materia elettorale e che non abbiamo scadenze di voto politico
ravvicinate. Un rinvio potrebbe avere anche il vantaggio di riaprire un
confronto sul sistema elettorale. Credo che sarebbe una scelta ragionevole».

Obama vince le presidenziali Usa spinto anche dall'effetto-recessione.
Il Pd, in Italia, non sembra «approfittarne». Perché?

«Io credo che di fronte a una crisi così profonda come questa che, a mio giudizio,
segna la fine di una fase storica e non di una congiuntura, noi assistiamo ad
una certa divaricazione delle risposte politiche date dagli Stati Uniti
e dall'Europa (e non solo l'Italia). Negli Usa la risposta alla crisi è
stata accompagnata da una svolta politico-culturale radicale dopo otto
anni di un dominio neoconservatore identificatosi con il neoliberismo senza
regole. Una svolta, quella americana, che ha assunto il significato del
ritorno in campo della politica nel segno della necessità di porre rimedio
alle profonde diseguaglianze sociali che lo sviluppo neoliberista aveva
determinato. Oltre Atlantico sta cambiando lo stesso modello di crescita
economica che ora punta sull'ambiente e sulla riduzione dalla dipendenza
dal petrolio. È un cambiamento radicale negli indirizzi di politica economica
ma anche della politica in senso lato, culturale e generazionale».

Invece in Europa e in Italia?
«Sembra prevalere una reazione alla crisi
dominata dalla paura. Non è soltanto il caso italiano. Prevalgono atteggiamenti
di chiusura nazionalistici, ritornano protezionismo e populismo. E quanto
sta avvenendo in Francia ma anche nei Paesi centro-orientali. L'Europa
appare più spaventata, più chiusa e non in grado di produrre una svolta
politica. Oltretutto questo fa sì che il profilo stesso dell'Europa si
stia appannando proprio nel momento in cui è più forte la pressione americana
per una risposta più energica alla crisi mondiale. Questa divaricazione
è emersa anche all'ultimo G20. In Italia e nell'Ue sta prevalendo, invece,
la logica delle politiche e delle scelte nazionali e l'Unione si limita
ad avvallare, allentando i vincoli, le scelte dei singoli governi».

Con quale rischi?
«Di uscire dalla crisi più deboli, proprio perché prigionieri
di una destra dalla visione economica ristretta. Una visione che non si
accorge che nel mondo viene avanti una diarchia cino-americana che segna
una nuova egemonia. Mentre noi siamo un po' confinati nel recinto delle
nostre miserie, l'Italia più degli altri. Dentro questo contesto il centrosinistra
ha una difficoltà, e non solo in Italia».

Un analogo problema di risposte
adeguate alla drammaticità della recessione?

«Manca la costruzione di
un progetto che sia in grado di delineare un nuovo orizzonte per il domani».

«Ripartire dal Sud», lei ha detto in un'altra intervista. Ma il Nord cosa
deve aspettarsi nei prossimi anni dal Pd?

«Senza dubbio il Mezzogiorno
è la parte del Paese che rischia di pagare il prezzo più alto a questa
crisi. Ed è fuori discussione che senza un forte programma di sviluppo
del Sud noi non riporteremo il nostro Paese a quei tassi di crescita che
abbiamo abbandonato da molti anni. Questo per dire che la questione italiana
ruota attorno al fatto che abbiamo un pezzo di Paese - il Nord - dove il
reddito procapite è uguale a quello della regione di Londra e un altro
- il Mezzogiorno - dove il Pil è più basso di quello del Portogallo. Nessuno
in Europa versa in una situazione simile e non è pensabile che il Paese
possa uscire da queste difficoltà strutturali senza affrontarla. Mi permetto
poi di ricordare che i grandi programmi per lo sviluppo del Mezzogiorno
degli anni Sessanta e Settanta sono stati un traino anche per l'industria
del Nord. Da qui un imperativo: o noi recuperiamo una visione unitaria
del Paese o non ce la caveremo, né al Nord né al Sud. Noi siamo misurati
all'estero per i risultati dell'Italia, non della Lombardia o del Veneto».

Dentro la crisi, negli ultimi giorni, Bankitalia ha rilanciato l'allarme
su debito pubblico ed entrate. Come ne usciamo?

«Prima è importante capire
come ci siamo entrati in questa situazione. L'economia italiana vive una
fase gravissima. Se ogni tanto non ce lo ricordasse Bankitalia, che anche
per questo è sotto attacco del ministero dell'Economia, questo dato verrebbe
cancellato. Tanto è vero che il nostro presidente del Consiglio si è accorto
molto tardi della gravità della crisi anche se la sua tesi di fondo resta
che noi stiamo meglio degli altri perché abbiamo agito in un modo più efficace
e tempestivo. Salvo che non è vero».

Perché?
«Perché noi viviamo in una
bolla mediatica, in una menzogna priva di qualsiasi sostanza. Noi stiamo
peggio, come ci dicono i dati della produzione industriale su base annua
che registrano una caduta italiana del 24,7% contro una media europea del
18 per cento. La media Ue non è certo brillante, ma noi siamo la maglia
nera con la più alta inflazione europea (l'1,2% contro una media dell'0,6%).
Il governo non ha fatto nulla tanto che l'Ocse stima in appena lo 0,3%
del Pil ? contro il 5,8% degli Usa e il 3,8% della Germania ? il valore
delle misure anticrisi adottate dal governo. Si è detto che il governo
non poteva fare altro perché avevamo il problema del debito pubblico, ma
paradossalmente, pur non facendo nulla, siamo il Paese che ha il più alto
incremento del debito. Questi sono i dati ma non se ne discute perché il
presidente del Consiglio ha proibito che se ne parli».

In verità il malessere
della finanza pubblica data da anni...

«Ma adesso, senza un'azione di
stimolo dell'economia, noi abbiamo una caduta del Pil che è maggiore degli
altri Paesi e questo si riflette anche sull'andamento della finanza pubblica.
E in secondo luogo siamo entrati in una situazione negativa perché abbiamo
una paurosa ripresa dell'evasione fiscale, la quale, relazione della Corte
dei Conti alla mano, è favorita dalle misure prese da questo governo nel
momento stesso del suo insediamento. Se l'evasione fiscale viene incoraggiata
da chi governa, una parte del Paese non aspetta altro».

Quindi non è solo
un problema di congiuntura sfavorevole?

«Noi siamo alle prese con una
serie di nodi strutturali irrisolti da 15 anni. Una circostanza che pone
in causa tutti perché questa democrazia dell'alternanza ci ha dato il ricambio
delle classi dirigenti, ma non ha prodotto risultati adeguati nel governo
del Paese. Io credo che l'unico momento in cui la nazione è stata governata
con qualche risultato sia stata la seconda metà degli anni Novanta, il
solo periodo in cui si sono fatte delle riforme vere. Nel millennio in
corso, invece, non è stata fatta alcuna vera, nuova, riforma e le performance
del Paese sono lì a dimostrarlo. Siamo a sviluppo zero».

Però noi abbiamo
stipendi greci o portoghesi, ma abbiamo anche il più forte sindacato d'Europa.
Non è un po' una contraddizione?

«Sì. In una certa fase il sindacato ha
accettato, per senso di responsabilità nazionale, una politica di contenimento
dei salari per fermare l'inflazione e favorire il risanamento della finanza
pubblica. Sarebbe ingeneroso fare carico al sindacato di scelte che sono
state fate per salvare il Paese e che al sindacato sono state chieste,
a cominciare dagli imprenditori. Però, da un certo momento in poi, il sindacato,
perdendo in parte il contatto con il mondo del lavoro, ha faticato a svolgere
il suo ruolo fondamentale: negoziare il salario. È un po' diventato il
sindacato dei pensionati o di certe categorie tradizionali mentre non ha
saputo rappresentare i settori nuovi, in particolare i precari, ma anche
i lavoratori più qualificati e i segmenti più moderni».


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