Discorso
14 marzo 2009

“LO SCENARIO ECONOMICO INTERNAZIONALE”, intervento di Massimo D’Alema - Cernobbio <br> <br>

FORUM CONFCOMMERCIO <>


Vorrei fare una serie di considerazioni sulla natura della crisi che viviamo e la qualita’ delle risposte che sono in campo nello scenario internazionale. Non sono uno specialista e non pretendo di gareggiare con gli specialisti. D’altro canto anche gli specialisti propongono analisi e ricette molto diverse. Abbiamo sentito proprio adesso una lettura della crisi in controtendenza rispetto alle posizioni oggi prevalenti nel pensiero economico e nelle scelte politiche. Quindi, mai come in questo momento non esiste l’oggettivita’ della scienza economica. Penso che la politica ha un compito, quello di restituire fiducia e speranza, indicare una prospettiva, assumere una guida.
Credo che bisogna partire dalla considerazione che la crisi attuale non e’ un incidente di percorso lungo la via delle “magnifiche sorti e progressive” della globalizzazione economica. Come se, in definitiva, nel processo inarrestabile di creazione di un mercato mondiale che si autogoverna, favorito dal fatto che non esistono istituzioni in grado di regolarlo, l’ingordigia di certi banchieri o l’eccesso di rischio che si sono prese le grandi banche americane abbiano creato un inciampo dal quale presto usciremo. E che, in fondo, si tratterà di rastrellare i titoli tossici, di infilarli in qualche bad bank e di metterli sul conto della collettività dei tanto disprezzati Stati nazionali, che, però, tornano ad essere utili e alla cui porta si bussa per ottenere il denaro per sistemare i patrimoni e i conti delle grandi banche. Tutto ciò rappresenta una interpretazione riduttiva che, a mio giudizio, non ci aiuta a trovare ricette adeguate. Dobbiamo sapere che siamo di fronte a qualcosa di piu’ profondo. Questa crisi mette in luce contraddizioni di una globalizzazione cresciuta troppo in fretta e senza regole.
Del tema della deregulation do una chiave di lettura tutta politica. In realtà, essa mette in evidenza un drammatico deficit di democrazia. Lo sviluppo capitalistico ha potuto conciliarsi con le ragioni della coesione sociale e con le ragioni della democrazia politica grazie alla funzione che e’ stata svolta dagli Stati nazionali. Ha scritto un grande pensatore liberale , Ralph Dahrendorf, che sono stati gli Stati nazionali a garantire la quadratura del cerchio, ovvero quella capacitaà di conciliare le ragioni di uno sviluppo capitalistico con le ragioni della coesione sociale, della redistribuzione della ricchezza e del mantenimento della democrazia. Lo sviluppo di un capitalismo e di un mercato finanziario globale e’ avvenuto in assenza di istituzioni in grado di svolgere questo ruolo. C’e’ qualcosa di più profondo che non la mancanza di buone regole, di una sorveglianza di mercati finanziari, di autorità capaci di prevenire l’eccesso di rischio di certi prodotti finanziari.
C’e’ ed emerge, a mio parere, un grande problema di governance. In questo senso ha regione Tremonti. Ed e’ questo il grande tema su cui si misura la politica internazionale: quali possano essere gli strumenti per una governance del capitalismo globale. Il che non significa tornare al vecchio statalismo. Il capitalismo e’ globale e la crisi non lo ricondurrà entro i confini dello Stato nazionale.
La risposta non puo’ essere affidata alla esclusiva azione degli Stati nazionali, che non possono colmare la asimmetria tra un capitalismo globale e l’assenza di istituzioni politiche capaci di stabilizzarne lo sviluppo e gli effetti. Anzi, l’illusione che questo ruolo possa essere di nuovo svolto fondamentalmente dagli Stati nazionali determina un rischio dirigista. Il mercato resta globale e non sarà l’autorità degli Stati nazionali a risolvere le questioni in campo, pena il rischio di una deriva nazionalistica e protezionistica, che sarebbe economicamente negativa e catastrofica dal punto di vista della tenuta dei sistemi democratici .
Il vero problema, dunque, e’ quello di costruire una architettura istituzionale, capace di garantire la stabilità dei mercati e di favorire una più equa ripartizione dei vantaggi della globalizzazione. Ciò comporta, naturalmente, una riforma di istituzioni di natura tecnica, come banche centrali e FMI. Ma questo non e’ sufficiente. Sono convinto che, dal punto di vista tecnico, ciò che appare fondamentale e’ la riorganizzazione, la riforma e la collaborazione tra il FMI e Financial Stability Forum, i due organismi chiamati a garantire questa funzione. Naturalmente, affinchè essi possano svolgere in piena legittimità questo compito di alta sorveglianza multilaterale sul funzionamento dei mercati finanziari, occorre che ne muti sostanzialmente la governance. E’ evidente che una governance globale che si affida fondamentalmente alla collaborazione tra i Paesi più ricchi, o meglio ex più ricchi, che non funziona.
Dico questo perchè i Paesi membri del G7 e G8, che rappresentavano la stragrande maggioranza della ricchezza mondiale, oggi ne rappresentano intorno alla meta’. Se ne e’ drasticamente ridimensionato il ruolo, il FMI e’ stato lo strumento dei Paesi ricchi per sorvegliare le economie dei Paesi poveri, imponendo loro politiche di segno liberista, non sempre, ma qualche volta con esiti disastrosi. Dunque, se e’ necessario assumere un compito di alta sorveglianza multilaterale, bisogna che anche i Paesi ricchi accettino di sottoporsi al controllo e occorre che la governance del FMI sia più equamente ripartita tra le economie tradizionali e le grandi economie emergenti. Starei anche attento a dire “emergenti”, perche’ i cinesi, giustamente, si offendono, dato che fino ad un secolo e mezzo fa rappresentavano quasi il 30 per cento del Pil mondiale: si deve parlare piuttosto di una parentesi degli ultimi 150 anni e del ritorno a quel ruolo di grande potenza che hanno ricoperto per 4000 mila anni.
Emerge, allora, un grande problema, che e’ squisitamente politico: e’ necessario mettere mano al riequilibrio dei poteri e degli strumenti, ridistribuire le azioni, tenendo conto dei cambiamenti intervenuti e chiamando questi grandi Paesi “responsible stay holder” dell’ordine internazionale. Chiamandoli, cioè, ad assumersi la loro responsabilità anche dal punto di vista dell’economia monetaria e delle politiche istitutive. E’ vero che noi, membri del club dei Paesi ricchi, ci siamo illusi di continuare a comandare e di poterlo fare, ma, in definitiva, abbiamo pagato anche un prezzo. I cinesi, infatti, restando fuori da quel club, hanno potuto non assumersi le loro responsabilita’.
Insomma, condividere i poteri e le decisioni, condividere le responsabilita’ e’, a mio giudizio, l’unica chiave per rifondare la governance globale. E’ chiaro che questo mette in discussione istituzioni consolidate e che cio’ spinga verso organismi più ampiamente inclusivi. In questo quadro, e’ venuto il momento in cui, all’interno di tali istituzioni, l’Europa (almeno l’area dell’Euro) si rappresenti con una sola voce, pena il rischio che il coro delle voci conti sempre di meno.
Vi e’, inoltre, una seconda questione. Mentre non appare realistico pensare ad un nuovo regime di parita’ tra le principali monete del mondo, tuttavia il sistema di tassi di cambio liberamente fluttuanti ha favorito la speculazione. Il problema esiste e deve essere affrontato con strumenti tecnici che siano piu’ raffinati di una nuova parita’, che –ripeto- non e’ realistica. Piuttosto ci sarebbe la possibilita’ di convertire le valute nazionali create in eccesso rispetto alla domanda in diritti spettabili di un prelievo, creando cosi’ maggiore stabilita’. Questo e’ un tema molto delicato, perche’ e’ complessa la trattativa internazionale. Pensiamo solo a come il gioco del valore delle monete sia stato una delle chiavi dello sviluppo accelerato della Cina o una delle ragioni di un relativo vantaggio americano. E’ venuto il momento di affrontare anche questo problema come una delle questioni cruciali di una governance globale che garantisca maggior equilibrio.
La prima contraddizione, dunque, e’ quella che ho chiamato “deficit di democrazia”, espressione piu’ comprensiva di “eccesso di deregulation” . In fondo, la deregulation e’ esattamente il frutto di una mancanza di istituzioni, di una assenza di democrazia, proprio per la asimmetria tra economia globale e istituzioni politiche nazionali . Insieme a questo “deficit di democrazia” viene alla luce una seconda grande contraddizione: una paurosa crescita delle diseguaglianze. Quest’ultima, infatti, e’ tra le ragioni della fragilita’ del sistema. Ho letto uno studio Ocse del dicembre 2008 ( “Grawing Unequal? Income Distribution and Poverty in OECD Countries”), dal quale emerge che negli ultimi vent’anni di forte crescita economica abbiamo avuto un aumento degli indici di diseguaglianza nei due terzi dei Paesi ricchi, con una crescita impressionante della poverta’ al loro interno.
La distribuzione ineguale della ricchezza e’ anche risultato da una parte dell’accentuarsi del peso della rendita finanziaria, dall’altra della perdita di peso dei redditi da lavoro. Badate che questo processo, che ha enormemente aumentato la forbice sociale rendendo piu’ fragili le nostre societa’, ha avuto importanti effetti economici. Quando, infatti, l’aumento della ricchezza si concentra nel decile piu’ alto, questo determina effetti sui consumi. Se il super manager che guadagnava 100 mila euro vent’anni fa oggi ne guadagna tre milioni, mentre il valore del salario rimane uguale, quel di piu’ non stimola i consumi diffusi. In questo senso, a mio parere, e’ naturale che voi poniate un problema di requilibrio.
Ma la crescita delle diseguaglianze non ha effetti economici soltanto sui salari e sul sistema dei consumi. Ha effetti inaspettati anche sulla produttivita’ del lavoro. Paesi che investono poco su salute e formazione, ad esempio, soffrono una diminuzione della produttivita’ del lavoro favorita dall’estrema precarizzazione e dal sottosalario. Lavoro precario e sottopagato e’ lavoro di scarsa qualita’.
Non si esce dalla crisi senza affrontare questi problemi, senza gettare le basi di uno sviluppo piu’ equilibrato . Anch’io credo che il keynesismo del fare le buche per riempirle non serva a niente e forse non serve a niente neanche quello dei mille progetti, ma sono convinto che sia essenziale una politica a favore della ripresa, capace di coniugare l’emergenza alla creazione di una nuova prospettiva strategica.
E qui veniamo al tema dell’Europa, che, penso, vada affrontato attraverso una comparazione con gli Stati Uniti. Essi sono stati l’epicentro della crisi, hanno prodotto quelle politiche e persino quella filosofia della deregulation e della crescita selvaggia. Ma sono il Paese da cui e’ arrivata una risposta alla crisi piu’ dinamica e aperta. E’ vero che in Europa i fondamentali sono piu’ sani, ma e’ anche vero che l‘Europa si e’ illusa di essere al riparo dalla crisi e, secondo me, per alcune settimane e’ stata una illusione colpevole.
La risposta americana e’ importante non solo per la sua dimensione, ma anche per la qualita’ delle scelte che mette in campo, con un forte segno di redistribuzione della ricchezza a favore del mondo del lavoro e delle classi medie, e un forte segno di sviluppo innovativo. Il keynesismo di Obama non consiste nel fare buche, ma nell’investire sull’innovazione, sulle tecnologie ambientali, sulla ricerca biomedica. E’ il tentativo di individuare nuovi grandi volani di sviluppo dell’economia reale, con una politica che punta all’innovazione di processo e di prodotto e, quindi, ad una nuova competitivita’.
Da questo punto di vista, trovo che da parte europea vi sia una risposta assai debole e frammentaria. La proposta di attivare eurobond per finanziare programmi di investimenti non e’ passata e non solo per l’opposizione di alcuni Stati nazionali. Infatti, si e’ fermata anche in Parlamento, dove i gruppi conservatori, in testa il gruppo popolare, si sono pronunciati contro. E mentre la risposta dell’America alla crisi e’ anche l’apertura di un nuovo ciclo produttivo, in Europa resistono i cascami del vecchio, le istituzioni appaiono estremamente fragili, si susseguono vertici che, pero’, sostanzialmente non riescono ad assumere decisioni coordinate. Al massimo, cio’ che sta concretamente avvenendo e’ un’allentamento di vincoli: c’e’ la crisi, ci vuole flessibilita’ in materia di patto di stabilita’ e di rapporto deficit/Pil; dobbiamo essere flessibili in materia di aiuti fiscali… Qual e’ l’effetto? Una sostanziale rinazionalizzazione delle politiche economiche, che non soltanto non ci fa fare quel salto di qualita’ verso una politica economica europea, ma rischia di mettere in difficolta’ persino moneta unica e mercato interno, che rappresentano le piu’ grandi conquiste degli europei degli ultimi cinquant’anni. Tutto cio’ e’ motivo di allarme.
E’ evidente che l’Europa e’ chiamata a coordinare le sue politiche. Vi sono situazioni che non sono piu’ sostenibili, a partire dal fatto che non vi sia ancora un’area di moneta unica con un coordinamento delle politiche di bilancio e una qualche armonizzazione delle politiche fiscali… Anzi, al contrario, siamo addirittura in un regime di concorrenza fiscale che si esercita in una politica di attrazione di capitali, con il risultato di una riduzione fiscale sui capitali e di un prelievo che, invece, resta molto forte sul lavoro. Faccio notare che alcuni dei Paesi che hanno fatto la piu’ spregiudicata politica di attrazione dei capitali e che negli anni scorsi sono stati indicati come un modello, penso all’Irlanda, oggi sono in ginocchio. Non c’era convegno di Confindustria in cui non si dicesse: “bisogna fare cosi’”. Ora non oserebbe dirlo piu’ nessuno e nessuno ringraziera’ coloro che non hanno seguito tali indicazioni.
L’Europa non puo’ rimanere a meta’ strada. Se non fara’ un salto di qualita’, rischiamo il ritorno a politiche sostanzialmente nazionali. In questo contesto, l’Italia corre davvero il pericolo di essere un vaso di coccio: se ci si affida a risposte nazionali, e’ evidente che un Paese come il nostro, con i suoi problemi di bilancio pubblico, sara’ tra quelli meno in grado di esercitare questa funzione. Non solo, ma aumenteranno le diseguaglianze rispetto agli altri Paesi europei. E qui parliamo di cifre. Dati alla mano (Thompson Datastream ), risulta che le dimensioni della manovra italiana sono lo 0,2 per cento del Pil, a fronte del 5 americano, del 4,2 cinese, del 3,8 tedesco… La manovra italiana di fronte alla crisi e’ vicina allo zero. Si sono spostate le cifre: meno investimenti, piu’ emergenze… Si sono presi i soldi del Fondo per le aree sviluppate e sono stati messi sugli ammortizzatori sociali. In sostanza una operazione di maquillage, quasi inesistente in termini di volume di intervento.
A fronte di un intervento zero, l’aumento del deficit previsto per il 2010 e’ 2,4, pari, circa, a quello della Francia, dove pero’ gli interventi sono molto piu’ consistenti. Dunque, noi siamo riusciti nel miracolo di non fare nulla, ma di pagare il prezzo di un consistente aumento del deficit. E vi e’ anche l’effetto della ripresa dell’ evasione fiscale, che ha determinato un buco del gettito e un aumento della pressione su chi gia’ paga le tasse. Insomma, l’effetto redistributivo e’ del tutto opposto a quello compiuto negli Stati Uniti.
Vi sono, allora, motivi di preoccupazione, perche’ prevale l’illusione che le politiche espansive degli altri traineranno in Paese, mentre non credo che l’Italia del dopo crisi potrà reggersi soltanto sulle esportazioni se non abbiamo una ragionevole ripresa degli investimenti, del mercato interno. Inoltre, si disinveste su università e ricerca scientifica, mentre aumenta la spesa pubblica corrente. Ci stiamo muovendo totalmente in controtendenza rispetto ai maggiori partner e concorrenti che abbiamo sul mercato internazionale.
Accanto a tutto cio’, pesano quelle strozzature tradizionali, quei nodi strutturali irrisolti che nessun governo, in questi 15 anni di alternanza, e’ stato capace di affrontare. Qualcuno potrebbe dire: “abbiamo fatto qualcosa di meglio”, ma in definitiva nessuno e’ stato in grado di risolvere i grandi nodi strutturali. Non sono pessimista sulle potenzialita’ del nostro Paese, sono preoccupato per l’incapacita’ a mettere in campo una politica condivisa, in grado di affrontare i nodi strutturali e ridare slancio all’Italia. Credo a quella vecchia idea che l’ottimosmo deve essere innanzitutto della volontà, cioè del coraggio delle decisioni e non l’ottimismo delle chiacchere, che non ci salvera’ dalla crisi. Grazie

stampa