Discorso
3 luglio 2009

Dopo la Seconda Repubblica, per una alternativa di sistema politico, intervento di Massimo D'Alema

convegno nell’ambito dell’Assemblea nazionale annuale del CRS, Palazzo San Macuto, Roma


Malgrado l’ampiezza che gli stimoli della discussione propone, a partire dalla relazione di Mario Tronti, nel mio intervento cercherò di seguire un itinerario abbastanza circoscritto.
Innanzitutto, vorrei dire che condivido ampiamente le categorie attraverso le quali Tronti e poi Michele Prospero hanno letto la vicenda italiana degli ultimi quindici anni. Penso anch’io che tutta la transizione italiana si sia giocata lungo il confine di un conflitto tra antipolitica e sforzo di ridefinire la politica. Penso anch’io che l’antipolitica abbia largamente penetrato il campo del centrosinistra con l’effetto di favorire il naturale beneficiario dell’antipolitica, cioè Berlusconi. E ritengo anch’io (mi è sembrato uno spunto acuto della relazione di Mario Tronti e sarebbe un tema da approfondire), che la fine di questo ciclo di “liberismo antipolitico” non significhi affatto la fine della presenza di una cultura antipolitica. Anzi, per molti aspetti direi che l’antipolitica nella forma di un populismo nazionalista accompagna anche questa nuova stagione della destra.
Abbiamo ragionato in altre sedi su come e perché la fine del ciclo di una globalizzazione capitalistica senza la politica sfoci a sinistra in gran parte del mondo, a cominciare dagli Stati Uniti d’America, mentre invece in Europa sembra prevalere una risposta imperniata su una nuova destra, nazionalista e populista. In qualche modo, questa dicotomia ci ricorda quello che accadde dopo la grande crisi degli anni Trenta: il New Deal da una parte ed in Europa il trionfo del nazionalismo autoritario, dell’antisemitismo, che oggi appare sostituito dal razzismo, dallo spirito anti immigrati, dai blocchi d’ordine nazionalisti. Sicuramente il risultato è diverso, non voglio dire che siamo alle porte del nazismo, ma molti degli ingredienti sono simili. E siamo di fronte ad un problema peculiare della sinistra europea.
Questo, però, ci porterebbe in un’altra direzione, mentre vorrei tornare alla vicenda italiana di cui anch’io sono stato parte e rispetto alla quale è giusto rimproverarsi di aver rappresentato un argine insufficiente, paradossalmente in certi momenti anche proprio a causa di quello stesso spirito di partito. Voglio dire: è un paradosso l’aver sacrificato, a volte, la sostanza, nel senso di non aver condotto con la sufficiente fermezza e determinazione le battaglie che dovevano essere condotte, in nome del mantenimento di certe regole interne alla logica della vita di un organismo collettivo.
Oggi noi siamo ad uno di questi snodi, in una condizione resa particolarmente difficile dal fatto che lo spirito del ‘92/’94, che pure era già stato messo alla prova nei suoi esiti, ha presieduto alla nascita del Partito Democratico, con esiti analoghi a quelli di allora e persino più negativi, perché tutto il contesto è più problematico e più negativo. Questa è la verità, questo è il problema. Parlo dello spirito antipolitico, quello che definisco berlusconismo debole: uno schema politico che emargina il ruolo dei partiti come soggetti collettivi ed e’ imperniato sul rapporto tra il capo, i media, le masse. Salvo che da quella parte tutto ciò è potentemente strutturato, mentre da questa ci appare estremamente fragile. Avere affrontato l’antipolitica della destra sul suo stesso terreno portò all’esito del ’94 e ha portato, nel corso dell’ultimo anno e mezzo, la rapida successione delle rovinose sconfitte da cui veniamo.
Non credo nel bipartitismo e non perché esso sia un male in sé, ma perché non c’è nella realtà italiana. E non credo nella possibilità di forzare la realtà attraverso la violenza delle regole istituzionali: i partiti sono frutto di processi storici, culturali, non li si può imporre per legge, anche se naturalmente interagiscono con le regole istituzionali. E l’idea della costruzione di un grande partito politico che si proponga di essere il maggiore erede delle tradizioni popolari non soltanto non è un male in sé, ma, al contrario, è e rimane - a mio giudizio - il principale contrappeso rispetto ai rischi della personalizzazione e dell’antipolitica. Tuttavia e’ necessario rilanciare questo progetto su basi nuove per costruire una prospettiva nuova.
Naturalmente questo esito è problematico e oggi è affidato ad una difficile battaglia politica, percheè deve essere condotta controcorrente: contro quello che appare uno spirito pubblico prevalente, contro il peso del sistema mediatico, contro l’interesse convergente innanzitutto della destra, a cui conviene il massimo di destrutturazione del suo antagonista. Ma anche contro le “tendenze culturali” che prevalgono, almeno nella dimensione mediatica, nel capo del centrosinistra. Quindi è una battaglia molto difficile e importante, perché avviene in un Paese che è più fragile rispetto al ‘92/’94. Un Paese drammaticamente indebolito in sé e nel proprio sistema democratico. Qui, sullo sfondo di questa riflessione, mettiamo il peso della crisi internazionale: con la Germania e con il Giappone, noi siamo uno dei Paesi più colpiti dalla crisi.
La distorsione del dibattito pubblico ha cancellato questo dato, ma la crisi, che si è presentata come forte contrazione della domanda aggregata, in realtà sta producendo effetti pesanti anche dal lato dell’offerta, e rischiamo di uscirne con una economia drasticamente ridimensionata nelle sue ambizioni. Il Paese sta vivendo un processo di downgrading, di retrocessione. E’ un dato che riguarda l’economia, l’immagine e il peso internazionale dell’Italia.
E la vicenda di Berlusconi, che da noi viene occultata (io sono d’accordo anche con certi rilievi critici che ci hanno mosso alcune amiche), si presenta sulla scena internazionale come fattore e metafora della decadenza del nostro Paese. All’inizio la lettura di una stampa libera, come quella che si produce al di fuori dei nostri confini, mi dava soddisfazione. Adesso, oramai, provo un sentimento di umiliazione… Se qualcuno, oggi, legge il commento di Le Monde in seconda pagina, come cittadino italiano si sente umiliato, perché ha la percezione di quello che siamo diventati, del vero dato, e cioè che questo Paese appare ormai drammaticamente ridimensionato nella sua immagine internazionale, nella sua possibilità di esercitare un ruolo.
Tutto ciò e’ sullo sfondo della discussione che si è aperta nella sinistra. Una discussione, quindi, particolarmente impegnativa, perché – a mio giudizio - il problema politico che abbiamo di fronte non è soltanto salvare il progetto del Partito democratico, che comunque lo si voglia è soggetto centrale di una possibile alternativa al berlusconismo. C’è qualcosa di più che la creazione di una coalizione alternativa: c’è il problema della costruzione di una coalizione democratica, e non solo di partiti e di soggetti politici, in grado di gestire la fase che abbiamo di fronte. Essa rappresenta l’apice del berlusconismo, intesa come estrema espressione del suo potere personale, che appare oggi dominare in modo incontrastato il sistema politico, ma anche l’inizio del suo declino, difficilmente immaginabile in una forma lineare. In questo senso mi sono riferito (al di la’ delle strumentalizzazioni e degli equivoci voluti), al fatto che questo declino avverrà non senza scosse per il sistema democratico. Non si e’ trattato dell’annuncio di eventi particolari, ma di un’analisi politica abbastanza semplice. Gestire questa fase significa, a mio parere, costruire una prospettiva per la transizione italiana dentro una crisi drammatica sia da un punto di vista materiale, che dal punto di vista della struttura democratica del Paese.
Ora, per affrontare un passaggio di questo tipo, dobbiamo liberarci da un sospetto, e cioè dall’idea che, in definitiva, il progetto democratico sia quello della restaurazione di un sistema dei partiti di cui sono venute meno le basi materiali. Un’idea della politica che appare oramai superata nella convinzione della grande maggioranza dell’opinione pubblica. In questi termini, infatti, la sconfitta di una coalizione democratica sarebbe certa, non c’è niente da fare. Se ci rifacciamo ai classici, quello di cui c’è bisogno, in questo momento, è una sintesi di questo passaggio dialettico. E la sintesi avviene nella forma dell’aufhebung, non del ritorno alla tesi. Avviene, cioè, nella forma di un passaggio superiore che toglie ed incorpora gli elementi… Negazione e superamento, dove il superamento ingloba gli elementi di verità, altrimenti è inevitabile la sconfitta. Qui, allora, il problema è individuare gli elementi di verità in questa sia pure confusissima stagione della democrazia italiana.
Innanzitutto, penso che il riformismo non sia più proponibile nella forma antagonismo più realismo. Sono un tardissimo togliattiano, figuriamoci quanto ci piace questa idea del riformismo tematizzata dal Pci nei suoi momenti migliori. Berlinguer lo espresse con una formula a mio giudizio infelice. Disse: siamo rivoluzionari e conservatori. Una formula infelice su tutti e due i versanti, perché un Paese che chiedeva modernizzazione e che non aveva nessuna inclinazione a fare la rivoluzione non potevi lisciarlo contro pelo due volte. Questa idea del riformismo non regge più.
In realtà, oggi, abbiamo bisogno di un riformismo di governo, consapevole che la crisi della globalizzazione senza regole richiede una nuova centralità delle politiche pubbliche. E le politiche pubbliche, il cui fine non può essere quello di rioccupare l’economia, sono regolative: sono politiche di redistribuzione della ricchezza, perché non bastano le pari opportunità, ma bisogna porsi il problema di una maggiore uguaglianza; sono politiche di innovazione, perché lo sviluppo non può fondarsi soltanto sui bassi salari, come è accaduto in Oriente ed in Occidente in quest’ultimo quindicennio.
Le politiche pubbliche richiedono governi stabili ed efficaci. Non si può prescindere da questo bisogno di stabilità politica. Che, poi, ad esso si sia data una risposta distorta nella forma di un presidenzialismo di fatto che ha imprigionato i Parlamenti, che ha ridotto la dialettica istituzionale, è vero, ma il bisogno è reale. Dire semplicemente: torniamo all’equilibrio che si costruisce nelle relazioni tra i partiti, non è realistico, perché non c’è più quel sistema dei partiti che, tutto sommato, era retto dal senso dell’interesse nazionale e della responsabilità democratica. Dunque, e’ un discorso che in quei termini non e’ riproponibile. Io non sono per la religione del bipolarismo, ma la possibilità di una alternanza delle classi dirigenti è un dato di vitalità della democrazia. Noi abbiamo avuto un cattivo bipolarismo, perché innanzitutto ha prodotto governi che hanno offerto performance molto basse: in realtà, nel corso di questi quindici anni, salvo la stagione riformista del centrosinistra della seconda metà degli anni Novanta, il Paese non ha compiuto grandi passi in avanti. Detto questo, il ricambio delle classi dirigenti è un valore.
Come si puo’, allora, riorganizzare il sistema democratico in modo da assumere questi elementi di verità a cui si è data una risposta distorta? Questa è la sfida e non può essere presentata soltanto nei termini di un ritorno del sistema democratico italiano ad una mitica età dell’oro, che, secondo me, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, non era più tale. Quell’oro si era corrotto molto prima che l’antipolitica lo travolgesse e l’antipolitica lo ha travolto perché le strutture portanti ormai erano marce.
Se riflettiamo sulle leggi elettorali, io sono favorevole a soluzioni miti, non a forzature estreme. Credo ad un sistema ragionevole di sbarramento, che porti verso quel pluralismo moderato di cui ha parlato Tronti. Un sistema che, però, richiede regole, come il cancellierato e la sfiducia costruttiva, in grado di garantire la stabilità dei governi, di rafforzare una idea neoparlamentare ed anche i poteri dell’esecutivo nel quadro di poteri forti. Mi riferisco ad un Parlamento dotato di strumenti effettivi di controllo, ad una dialettica democratica efficace, che ci faccia uscire dalla logica mostruosa del leader che diventa padrone del Parlamento, del governo, del partito. Questa è una logica totalmente estranea a quel bipolarismo europeo e a quei sistemi neoparlamentari prevalenti in Europa a cui ci si dovrebbe ispirare e che sono più efficaci, dal punto di vista della governabilità, del modello della Prima Repubblica. Il modello della Prima Repubblica lo lascerei stare, perché non è più proponibile.
Auspico la rinascita dei partiti, a cominciare da quello in cui milito. Spero rinasca anche dandosi regole di partito. Penso che, senza dubbio, noi siamo nati con una impronta culturale antipolitica ed e’ proprio l’impianto regolativo di questo partito che lo tradisce. Ora andiamo ad un congresso dove è proibito parlare di politica, perché lo proibisce il regolamento. O, perlomeno, si può parlare di politica soltanto in quanto si sostenga una leadership, perché le forme della partecipazione sono tutte mediate attraverso la leadership. Se c’è un poveretto iscritto al Partito democratico a cui non piace nessun candidato, ma che vuole dire la sua, non può farlo.


È chiaro che dobbiamo andare ad un congresso fondativo che liberi questo partito, che ricostruisca un organismo democratico che è stato, con ogni evidenza, progettato su un modello che era quello del leaderismo plebiscitario. Questo tradisce un’impronta culturale e il fatto che la si riproponga ora, con lo stesso spirito, come se non fossimo passati attraverso due disastrose prove elettorali… Perseverare è diabolico. Naturalmente, se uno rifiuta di fare una riflessione critica sulle premesse, è chiaro che le sconfitte non possono che essere il frutto del tradimento interno, delle presunte “correnti”, del complotto degli apparati. Ed è chiaro che inevitabilmente la discussione si avvelena. Se non c’è la volontà di fare i conti con lo sviluppo dei fatti e di prendere atto delle lezioni della storia, ma si ripropone, negli stessi termini, quel modello, si deve anche dire che quel modello non ha avuto successo, che non abbiamo vinto le elezioni e non abbiamo ottenuto quel 40% che Scalfari ci aveva attribuito, perché c’erano gli apparati cattivi che hanno complottato. E’ chiaro, dunque, che non c’è più discussione politica, ma la corsa per eliminare i cattivi. E lungo questa strada si finisce male, finisce male il destino di un partito. Penso che avremmo dovuto cominciare facendo una discussione seria e libera, e poi, solo dopo, sarebbero potute arrivare le candidature. Ma – ripeto- per potere avere questa possibilità dobbiamo liberarci da un certo modello di partito che ha stretto le stesse potenzialità di questo grande progetto dentro una gabbia troppo asfittica.
Ricostruire i partiti comporta, a mio giudizio, una coraggiosa visione di riforma della politica. In realtà, il paradosso è stato che nell’epoca dell’antipolitica si è determinata una ipertrofia del ceto politico e credo che sono i nemici dell’antipolitica che debbano porre questo tema in modo molto radicale: un drastico ridimensionamento del ceto politico e dei costi della politica, il ritorno ad una sobrietà della politica, la lotta intransigente contro ogni forma di privilegio.
A me non piace il qualunquismo della polemica contro la casta, però l’unico modo di combatterlo, anche in questo caso, è cogliere gli elementi di verità che esistono e dare coraggiose risposte riformatrici, perché altrimenti si fa una battaglia perdente e sbagliata. Questa è la mia preoccupazione: siamo in un passaggio molto delicato, difficile, dall’esito incerto. Tuttavia non sono smarrite le potenzialità di un cambiamento vero, che risponde ai bisogni del nostro Paese. Se, invece, ci presentiamo soltanto come i nostalgici di un passato che non tornerà, anche perché ne sono venute meno le basi materiali, io temo che saremo sconfitti. Questo è il punto su cui siamo messi alla prova e dobbiamo cercare di dare le risposte giuste.

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