Intervista
31 luglio 2009

IL RITORNO DI SPEZZAFERRO

Intervista di Maurizio Belpietro - Panorama


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Silvio Berlusconi, il ministro GiulioTremonti, la politica economica e quella estera del governo: Massimo D’Alema attacca a tutto campo. Ma soprattutto disegna il Partito democratico che sogna dopo il congresso. Senza Dario Franceschini.

Per anni l’ho chiamato Baffino, Leader Massimo, Spezzaferro, Max il Gelido, Dalemix, Dalemone quando voleva inciuciare con Silvio Berlusconi, Minimo D’Alema quando l’hanno messo da parte nel suo stesso partito. In tutto fanno una mezza dozzina di soprannomi. Di alcuni sono responsabile per intero con i colleghi del Giornale, che ogni giorno dovevano inventarsi un modo per chiamare il leader della sinistra senza ripetersi. Di altri la paternità è dei suoi compagni di militanza. Amici o ex amici, anzi quasi sempre ex, di partito. Di certo nessuno dei leader politici italiani ha mai avuto una sfilza così lunga di nomignoli. Non Craxi, che pure dalla stampa non era amato e che infatti si vide appiccicare l’epiteto di Cinghialone, copyright Antonio Di Pietro. Non Andreotti, che come Bettino era il bersaglio dei cronisti, chiamato Belzebù o Divo Giulio.

Il primato per numero di soprannomi a suo modo segnala dunque una certa grandezza di Massimo D’Alema, ex segretario dei Ds, ex presidente del Consiglio, ex ministro degli Esteri e, soprattutto, ex candidato alla presidenza della Repubblica, trombato all’ultimo, quando già intravedeva il Colle, dai nemici ma forse anche dagli amici. Ma pur essendo un ex di molte cose, di sicuro D’Alema non è l’ex uomo forte della sinistra, o almeno del maggior partito della sinistra. A lui ancora fanno capo molti funzionari e dirigenti del Pd. È lui il portatore d’acqua, anzi di voti, e quanti lo vedremo presto, di Pier Luigi Bersani. Lui che tira le fila di questa difficile battaglia congressuale del Partito democratico che si concluderà, con l’elezione del nuovo segretario, il 25 ottobre.

«Onorevole, vogliamo partire da qui?» gli chiedo nella sua stanza di presidente di Italianieuropei, la fondazione che vuole indicare la via riformista alla politica. Ma D’Alema, offrendomi dei cristalli di cannella e zenzero, una dolcezza brasiliana che infiamma il palato, preferisce prenderla alla larga. «Meglio la crisi, è più preoccupante» dice con l’aria rilassata di uno che pensa di avere già vinto. E quindi dalla crisi partiamo.

 

Cosa la preoccupa?

Constatare quanto poco sembra preoccuparsi il governo e forse anche una parte dell’opinione pubblica. Non mi riferisco solo a una crisi estremamente profonda, che fa di noi, insieme alla Germania e al Giappone, uno dei tre paesi più colpiti al mondo. C’è qualcosa di più: questa crisi ha accelerato i cambiamenti degli equilibri mondiali. Per circa 60 anni l’Italia ha fatto parte del gruppo di paesi che erano detentori della ricchezza mondiale, ma ora sta cambiando radicalmente lo scenario. E il nostro Paese, come la quasi totalità di quelli europei, si ritroverà in pochi anni non più tra i numeri uno.

 

Lei vaticina un’Italia in zona retrocessione.

Rischia di finire tra il 15° e il 20° posto. In ogni caso in discesa. E non sono io a dirlo, ma le previsioni di diversi istituti internazionali. La nostra classe dirigente sembra più preoccupata di vedere in quale università straniera mandare i propri figli invece che di cercare una soluzione. Evidentemente c’è una borghesia italiana che pensa di poter sopravvivere al declino del Paese. Come se una parte di italiani pensasse di poter avere un destino separato da quello dell’Italia. Qui la crisi non è solo del sistema politico, che è evidentissima, ma anche della classe dirigente più in generale.

 

Per lei ovviamente è tutta colpa dell’attuale governo.

No. Io considero Silvio Berlusconi una manifestazione del declino del Paese. Rappresenta questa situazione, più che esserne responsabile. È una situazione che viene da lontano, ma impressiona l’assenza di una risposta, di una strategia forte. L’attuale governo si muove con l’idea che prima o poi la crisi passerà. È Giulio Tremonti l’ispiratore più robusto di questo atteggiamento. Il suo motto è sopravvivere fino a quando le cose non si rimetteranno a posto.

 

Lei accusa il governo di tirare a campare, l’opposizione mi pare invece che stenti a campare.

L’appannarsi del più grande partito d’opposizione fa sì che questa strategia del galleggiamento possa apparire come l’unica possibile. Non è in campo un’alternativa forte, questo è il problema serio del Pd.

 

Perché?

Per il modo in cui si è sviluppato questo progetto. Il problema principale è stato tagliare i ponti con una tradizione piuttosto che costruire un’alternativa credibile. Si è pensato che il problema fosse quello di combattere contro i partiti da cui il Pd proviene, contro le loro tradizioni e una parte dei loro dirigenti, anziché quello di costruire il nuovo partito in rapporto al Paese e alle sue esigenze. Anche il meccanismo congressuale è pensato come se esistessimo solo noi: una gigantesca conta interna, che avviene in due fasi e produce una stagnazione lunga mesi. Un danno per il Paese.

 

Com’è possibile che gli eredi di partiti organizzati non abbiano trovato uno statuto adeguato? Dov’eravate quando lo si approvava?

Beh, io mi occupavo della politica estera del Paese, non c’ero fisicamente. E poi è prevalsa un’idea di partito leaderistico, dove conta di più il leader che gli iscritti. Una scelta rispettabile dal punto di vista politico-culturale, ma sbagliata. Su quel terreno c’è un modello ineguagliabile: Berlusconi. Un modello costruito con ben altri mezzi e con una struttura molto potente. Noi invece abbiamo indebolito l’unica struttura che avevamo: il partito.

 

Perché Pier Luigi Bersani dovrebbe riuscire dove ha fallito Walter Veltroni?

Bersani propone un cambiamento di rotta, quanto mai necessaria per un partito che in 20 mesi ha collezionato sconfitte così gravi. Trovo molto più ardito chi invece dice: andiamo avanti come se nulla fosse.

 

Le leggo una frase di Dario Franceschini: «Chissà perché ogni volta che Massimo dice qualcosa ci si chiede dov’è la fregatura». Perché ce l’ha con lei?

Non lo so, dovrebbe chiederlo a lui. Franceschini io l’ho portato al governo del Paese, come sottosegretario con l’incarico di occuparsi delle riforme costituzionali. Sono dispiaciuto per questa continua polemica di carattere personale. Il segretario ha voluto caratterizzare la sua candidatura innanzitutto contro quelli che c’erano prima e il risultato paradossale è che tutti quelli di prima lo sostengono, salvo il sottoscritto. Questo, ripensandoci, fa ritenere che ci si rivolgesse contro una sola persona.

 

Si è chiesto perché tutti gli ex stanno dall’altra parte?

Normalmente, sostenere il segretario fa parte della tradizione. Quasi tutto quello che io chiamo con molto rispetto l’apparato centrale è schierato dalla parte di Franceschini. È un risultato curioso per chi si è presentato come massima espressione del nuovo contro il vecchio.

 

Il congresso del Pd mi sembra uno dei più aspri che io ricordi nella storia della sinistra.

Dove? Io non vedo tutta quest’asprezza.


Lei dice che in queste divisioni non c’è nulla di personale: neanche con Veltroni?

Non ho nulla contro Veltroni.

 

Vi combattete da 15 anni…

Non è vero. Abbiamo intensamente collaborato per lunghi periodi. Quando sono diventato segretario del partito, la prima cosa che ho fatto è stata quella di proporre Veltroni per affiancare Romano Prodi.

 

Voleva levarselo di torno…

No, era un riconoscimento del suo ruolo. Così come quando andai a Palazzo Chigi lo proposi segretario del partito. E anche quello non era obbligatorio. E pure quando lo sollecitai a candidarsi alla segreteria del Pd e l’ho votato. Vorrei io avere dei nemici così. Abbiamo avuto anche momenti di divergenze e di confronto, ma per ragioni politiche, non personali.

 

Con il senno di poi fu uno sbaglio proporre a Veltroni la guida del Pd?

Era la scelta giusta in quel momento. Sono dispiaciuto perché non ha ottenuto i risultati sperati. Ha avuto un’opportunità e l’ha usata male. Ma le critiche con il senno di poi non valgono nulla.

(Squilla il telefono. «Aaah, Ignazio… sono impegnato in un’intervista. Ti richiamo io». Si scusa: «Era Ignazio Marino»).

 

Era proprio l’Ignazio a cui stavo pensando… Ha visto la storia delle note spese di Pittsburgh? «Libero» dice che c’è il suo zampino anche in questa vicenda. La descrivono come il regista di ogni complotto.

Come può notare, la vittima del complotto è un mio carissimo amico e ci sentiamo spesso. Se hanno il coraggio di scriverlo apertamente, li denuncerò e mi risarciranno.

 

Con i giornalisti ha un rapporto difficile.

Ottimo. Ma con quelli per bene.


Quand’era presidente del Consiglio li definì iene dattilografe.

Quella citazione era uno scherzo: «Iene dattilografe al servizio dell’imperialismo». Era una citazione di Stalin. I giornalisti colti e intelligenti capiscono e ridono. Gli altri no. Ma non è colpa mia.

 

Franceschini vuole gli immobili dei Ds.

So che è stata creata una fondazione che detiene gli immobili a garanzia del debito nostro che non abbiamo caricato sulle spalle del Pd. Protagonista di questa decisione fu Piero Fassino. Se Franceschini vuole contestare la decisione, ne parlino fra loro. E se vuole il patrimonio, si prenda anche i debiti.

 

Dicono che lei voglia candidare Pier Ferdinando Casini come futuro premier, ripetendo l’esperienza dell’Ulivo, ma con Casini al posto di Prodi.

In un momento così serio della storia d’Italia, il dibattito politico imperniato sul pettegolezzo e le malignità è un segnale preoccupante. Non ci sono altri paesi ridotti in questo modo.

 

Ma all’alleanza con Casini ci pensa?

Certamente. Un centrosinistra serio, rinnovato e credibile deve riunire le forze che oggi sono all’opposizione. Ritengo che si dovrebbe cambiare la legge elettorale con un sistema di tipo tedesco, che consenta a ciascun partito di presentarsi con il suo profilo, evitando le ammucchiate elettorali che hanno caratterizzato il bipolarismo italiano in modo non positivo, spingendo, col premio di maggioranza, ad alleanze che o sono incoerenti o esaltano il peso delle forze minori. Basta vedere cosa sta succedendo con la Lega: determina le scelte del governo pur avendo un rispettabilissimo, ma insufficiente, 10 per cento dei voti. È un effetto paradossale che avveniva anche con il governo di centrosinistra.

 

E chi fa il candidato premier della coalizione?

Il problema per ora non si pone. In Germania normalmente diventa capo del governo il candidato del partito che raccoglie più voti. Se dovesse permanere l’attuale sistema basato sulle coalizioni, credo che il candidato dovrebbe essere scelto con primarie aperte all’interno della coalizione. Tuttavia ritengo rischioso un sistema come l’attuale, ovvero una forma di presidenzialismo di fatto. Siamo un Paese anomalo: abbiamo una democrazia parlamentare ma la gente vota per il capo del governo.

 

Però nel passato lei era per l’elezione diretta del premier.

Ero favorevole in particolare all’elezione diretta del presidente della Repubblica.

  

Questa è una sua intervista al «Corriere della sera» di 10 anni fa: dice che ci vuole l’elezione del premier.

Altri tempi. Inseguendo il mito dell’elezione diretta del governo abbiamo perduto persino il diritto a eleggere il Parlamento. Nei sistemi presidenziali vi sono parlamenti autorevoli che bilanciano il potere del presidente, come negli Stati Uniti. Da noi invece uno vota la lista Berlusconi e Berlusconi nomina chi vuole. Così abbiamo deputati che sono accompagnatori del capo. Un parlamentare eletto in questo modo che autonomia può avere?

 

Nel 1997 candidò Antonio Di Pietro nel Mugello in quota Ds, creando il più pericoloso concorrente del Pd. Pentito?

Di Pietro è una personalità politica. Fu Berlusconi a proporgli di fare il ministro dell’Interno nel 1994. Poi Prodi nel 1996 lo nominò ministro dei Lavori pubblici. Io sono arrivato terzo. Di Pietro si dimise perché fu oggetto di indagini giudiziarie. Io, che sono un sincero garantista più di quanto lo sia lui, gli fui vicino e poi gli proposi di candidarsi alle elezioni.

 

Con il senno di poi fu un errore o no associarlo al centrosinistra? Non mi dica che pensa che l’Idv sia di sinistra.

È un’epoca di strani cambiamenti. Cos’era la Lega?

 

Lei disse che era una costola della sinistra.

No, del movimento operaio, ed era un’analisi giustissima. Adesso che gli operai votano Lega lo dicono tutti, io l’ho detto 15 anni fa.  

 

E l’Italia dei valori?

È un movimento che esprime una sorta di populismo democratico. Se il populismo di Berlusconi va al governo, non può mettere fuorilegge quello di Di Pietro. A me il populismo non piace, però è un dato della realtà con cui bisogna fare i conti, frutto anche di una crisi della politica tradizionale. Io penso che sia bene che il movimento di Di Pietro resti in una dimensione contenuta, perché se dovesse prendere la leadership dell’opposizione renderebbe impossibile un’alternativa. Finora ha guadagnato spazio anche grazie alle incertezze e alle difficoltà del Pd, ma dopo il congresso mi auguro che lo spazio si riduca. Ovviamente ci vuole un progetto.

 

E cosa ci sta dentro questo progetto?

La crisi mette in evidenza tre questioni di fondo. Una è quella della democrazia e delle istituzioni, non solo del rafforzamento delle istituzioni nazionali ma di un governo democratico della globalizzazione dopo il fallimento dell’idea che il mercato possa regolamentare se stesso. Il secondo tema è quello di una maggiore eguaglianza sociale, perché la ricchezza è ripartita in modo ineguale. L’ultimo rapporto dell’Ocse sulla crescita è impressionante: negli ultimi vent’anni le disuguaglianze sociali sono aumentate a dismisura, in particolare fra chi vive del proprio lavoro e chi percepisce rendite finanziarie. In Italia poi questo fenomeno è enfatizzato dall’evasione fiscale, testimoniato dalle dichiarazioni dei redditi degli italiani. Questa distribuzione della ricchezza è una delle ragioni della caduta dei consumi. Tanto è vero che Barack Obama ha detto che bisogna ridurre le tasse alle classi medie e aumentare le tasse ai più ricchi.

 

Lei vuole fare lo stesso?

Innanzitutto ridurrei le tasse a chi guadagna poco. Il governo invece ha fatto il contrario: ha ridotto le tasse ai più ricchi. L’Ici sulle case di lusso è l’esempio di una tendenza. Cosa vuole fare di più a favore della speculazione finanziaria se non dire a uno che ha portato 100 milioni di euro fuori dall’Italia che se riporta i soldi in patria avrà un prelievo dell’1 per cento, mentre un imprenditore normale ci paga il 50 per cento di tasse? Questo è lo scudo fiscale. Come le appare questo dal punto di vista di una politica per l’equità fiscale? Io trovo che l’aliquota dello scudo fiscale sia scandalosa. Si doveva fare un accordo europeo con un’aliquota ragionevolmente superiore.

 

E il terzo punto del progetto del Pd?

C’è stato un grave deficit di innovazione in questi anni. Ritengo che la svalorizzazione del lavoro sia una delle ragioni della crisi, della caduta di produttività. E per questo bisogna spostare risorse su innovazione, ricerca e formazione. Questo governo ha aumentato la spesa corrente, tagliando gli investimenti, il sostegno a ricerca, scuola e università. In questo modo si pregiudica il futuro del Paese.

 

Il Pd deve ripartire da questi tre punti?

Certamente, anche se qui indico dei titoli, essendo un’intervista. Bisogna rilanciare con coraggio uno spirito riformista, a cominciare dalla riforma della politica, con una drastica riduzione del ceto politico, del numero di deputati, consiglieri regionali, provinciali, comunali.

 

Ci siamo tenuti a distanza dalla questione Berlusconi. È vero che quando sente il suo nome ancora si innervosisce? Non gli perdona il tiro mancino che le giocò con la Bicamerale.

Berlusconi ha commesso un grave errore. Non ha deluso me, ma danneggiato gli interessi fondamentali del Paese. Se avessimo portato a termine quell’accordo, avremmo avuto istituzioni più efficienti e soprattutto un passaggio a un bipolarismo più civile, la fine della demonizzazione reciproca, un male del nostro sistema bipolare, di cui Berlusconi non è soltanto vittima ma anche artefice. 

 

Nessuna intesa è possibile con l’attuale centrodestra?

Auspico un’intesa per riformare la legge elettorale e cambiare la Costituzione. Qualche mese fa abbiamo discusso durante un convegno una proposta organica e l’abbiamo dibattuta con tutti. La Fondazione Italianieuropei promuove ricerca e dialogo fra tutte le componenti politiche e culturali. Abbiamo discusso di welfare con Maurizio Sacconi, di federalismo con Roberto Calderoli, di legge elettorale con Fabrizio Cicchitto e collaborato con Farefuturo, la fondazione del presidente Gianfranco Fini.

 

Tanto che si dice vi sia un asse Fini-D’Alema.

L’asse? Se uno va dietro tutte le cose che vengono dette...

 

Voterebbe Fini al Quirinale per evitare Berlusconi sul Colle?

Il Quirinale è ottimamente occupato in questo momento. Prima delle prossime elezioni del presidente della Repubblica ci saranno le politiche e la regola finora dice che chi governa le perde, regola realizzata costantemente in tutta la Seconda repubblica e io sono fiducioso che anche stavolta la regola verrà applicata, per cui... Detto questo, Fini fa il presidente della Camera in modo non fazioso e rispettando il suo ruolo istituzionale.

 

Lo preferisce a Berlusconi?

Fini è impegnato in una istituzione di garanzia e lo fa bene. Non ho mai visto Berlusconi in un ruolo di questo tipo, quindi non sono possibili raffronti. Lo vedo come presidente del Consiglio e secondo me lo fa piuttosto male.

 

Non c’è niente che riconosce al Cavaliere?

Ecco, il governo ha gestito bene il G8 e se fossimo un Paese ben ordinato l’opposizione avrebbe dovuto rendergliene atto con maggiore generosità. È stato un vertice allargato e questo è importante, ma l’impostazione è stata data dal governo precedente. Non solo, la presidenza italiana non avrebbe avuto successo se noi non avessimo pagato gli impegni presi al G8 di Genova. E li abbiamo onorati con un finanziamento straordinario di 1 miliardo. Insomma, noi abbiamo staccato un ticket perché Berlusconi potesse presiedere al meglio il G8 e ne sono contento. Ripeto, in un paese normale avremmo dovuto darcene atto a vicenda.

 

E la scossa di Bari? Gli scenari imprevedibili?

La trasmissione è andata in onda da Otranto, non da Bari. E io mi occupo di analisi politiche, non di retroscena giudiziari.

 

Sono anni che lei auspica, anzi prevede, la fine della stagione di Berlusconi...

Sì, penso sia una fase che volge al termine. E penso che sarà un finale agitato perché lui non è il tipo che passa la mano volentieri. Questo non significa che la destra in Italia non sia una grande forza. Penso che la destra abbia radici profonde nella storia del Paese. Ma certo la parabola della leadership berlusconiana è in fase discendente, anche se nessuno è in grado di prevedere la velocità di questa discesa.

 

Chi ne prenderà il posto secondo lei?

Diversi sono in pista.

 

Nomi?

Quelli noti: Fini, Tremonti. Poi ci sono quelli più strettamente legati all’entourage. Ma quando c’è un cambio non è mai uno della guardia pretoriana a prevalere, sono sempre personalità con maggiore indipendenza.

 

Lei sapeva dell’inchiesta di Bari?

Ho scoperto dopo che ero l’unico a non sapere. Al contrario il ministro Raffaele Fitto era informatissimo, ma poi mi hanno detto che a Bari lo sapevano tutti.

E quella frase che invitava il centrosinistra a prepararsi a governare?

Non ho parlato di governo, ma della necessità, per un’opposizione seria, di essere pronta ad affrontare momenti di instabilità e turbolenza politica. Al di là del gossip, che non mi interessa, non c’è dubbio che il tipo di situazione in cui si trova coinvolto il presidente del Consiglio indebolisca le istituzioni del Paese. Lo dico da testimone, da persona che gira parecchio il mondo.

 

Visto che gira il mondo, parliamo di cose estere. Ha senso restare in Afghanistan?

Non possiamo ridurre questo problema a una polemica strumentale interna alla politica italiana. Oltretutto, in questo modo si aggrava l’immagine già non molto positiva del nostro Paese. Bisogna discutere seriamente sull’Afghanistan nella sede dell’Onu e della Nato. Il vero problema è: quale strategia si ha per l’Afghanistan? Avevamo detto anni fa, essendo colpiti dagli insulti e accusati di essere amici dei terroristi, che serviva una via d’uscita politica che passa anche per il dialogo e una riconciliazione nazionale.

 

Ma il presidente Hamid Karzai è l’uomo adatto?

Io comincio ad avere dei dubbi sulla sua forza. È molto indebolito e pure lui sostiene come noi la necessità del dialogo con i talebani. Una soluzione militare non è la chiave per risolvere il problema. L’unica via è quella di rafforzare il regime democratico, la sua autonomia e autodifesa, e pacificare il paese attraverso il dialogo, isolando i terroristi di Al Qaeda. I bombardamenti indiscriminati hanno invece favorito i gruppi terroristici. Anche sul piano militare ci vuole una strategia militare coerente con l’obiettivo di isolare il terrorismo. Ma, senza strategia e anche un termine ragionevole per la missione, c’è il rischio che i singoli paesi comincino a sfilarsi a uno a uno, il che sarebbe un disastro per la comunità internazionale e per l’Alleanza atlantica.

 

Lei andò a braccetto in Libano con un esponente di Hezbollah. Lo rifarebbe?

È una delle operazioni di politica estera più importanti che abbia mai fatto il nostro Paese. Io svolsi un’intensissima opera di mediazione per cercare di fermare il conflitto, d’accordo con gli americani. A Beirut, quella mattina del 14 agosto, i bombardamenti erano cessati da un’ora e all’aeroporto trovai il ministro degli Esteri libanese che mi invitò, come segno di solidarietà, a visitare la città bombardata. Mi sembrò un atto giusto verso la popolazione civile. Vidi i morti e la gente che scavava tra le macerie. Fui avvicinato da un parlamentare libanese che mi prese sottobraccio, anche a scopo di protezione, non per andare a braccetto. La polemica nata in Italia aveva un livello di meschinità e povertà politica impressionante. Di cosa dovrei essere pentito? Di avere portato l’Italia a guidare per la prima volta nel dopoguerra una grande missione internazionale? Un ruolo di primo piano riconosciuto da tutti, mentre qui si affiggevano manifesti con «Dalemallah» amico dei terroristi. Una vergogna.

 

Però non v’è dubbio che Israele non la consideri un amico.

Io sono amico della pace e lavoro per gli interessi internazionali del nostro Paese. Le polemiche a cui si riferisce sono alimentate dall’interno del nostro Paese e non da parte israeliana. Sono molti, in Israele, a sapere che avere schierato l’Unifil alla frontiera con il Libano è stato un grande contributo alla sicurezza di Israele.

 

Chi silurò la sua candidatura alla presidenza della Repubblica?

In particolare credo che si opposero Casini e Fini. Ma vede che io non porto rancore, né verso Casini né verso Fini. Sono cose che capitano nella vita politica. Le dirò: è andata bene così. Al Quirinale c’è la persona giusta, Giorgio Napolitano. Io ho avuto modo di fare il ministro degli Esteri, un’esperienza bella e importante. I due mestieri più divertenti e appassionanti che mi è capitato di fare sono stati quelli di direttore dell’Unità e di ministro degli Esteri.

 

Tornerebbe a fare il presidente del Consiglio?

Non mi pare ora una prospettiva realistica, ma le assicuro che per il Paese non sarebbe un danno.

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