Discorso
29 giugno 2009

CONVEGNO “BEYOND THE WELFARE STATE, TOWARDS SUBSIDIARITY” -<br>Sessione “Subsidiarity and italian politics”, intervento di Massimo D’Alema<br>

Auditorium Università La Bicocca - Milano, 29 giugno 2009


Grazie per l’invito a questo convegno, che prosegue un’esperienza di collaborazione di antica data tra la fondazione che presiedo e il Forum per la sussidiarietà. E grazie per la possibilità di partecipare ad una discussione di grande rilievo. Mi dispiace che il ministro Sacconi non sia qui, perché in una certa misura egli e’ il mio interlocutore ideale sul confronto che si e’ aperto sulle linee di riforma dello stato sociale. Un confronto che è partito, effettivamente, da scelte meritorie sul piano del metodo. Noi stessi, come Fondazione Italianieuropei, abbiamo partecipato a questa consultazione e siamo certamente interessati ad una ripresa del confronto di alto livello sulle grandi riforme necessarie per il Paese.
La discussione sui grandi problemi del Paese e’ anche un modo per recuperare credibilità alla politica. Un confronto che difficilmente buca il muro dell’indifferenza dell’informazione, perché i retroscena sono più popolari dei libri. Tuttavia penso che la politica debba continuare a fornire idee per il futuro del Paese . Un impegno con il quale ci siamo misurati, anche attraverso il concorso di studiosi che abbiamo ospitato, cercando di fornire elaborazioni molto impegnate su alcuni temi cruciali del dibattito di oggi. In particolare, abbiamo pubblicato due quaderni della rivista Italianieuropei, uno dedicato al tema del federalismo fiscale, ricco di contributi, con un approccio “no partisan”, con studiosi di diversa tendenza, e l’altro sul funzionamento del sistema sanitario, sulle possibili linee di riforma. Contributi ad un dibattito pubblico sulle riforme non ideologico, ma approfondito, colto, in grado di mobilitare al di fuori della polemica forze intellettuali della società civile. Naturalmente è difficile che queste tematiche riescano ad imporsi, ma in sedi come queste credo possano essere valutate in modo sereno come un contributo ad un dibattito sulle riforme che non sia ideologico e che punti a trovare le soluzioni necessarie per il Paese.
Dunque, la sussidiarietà, non la supplenza, come ci ha spiegato Guzzetti con una espressione sintetica che però tocca un punto essenziale. La sussidiarietà, che non e’ supplenza, e’ un concetto che non esclude la responsabilità pubblica ed e’ un’idea dello stato sociale non residuale o meramente caritatevole. Ed è un punto non rinunciabile per un confronto che possa avere una convergenza di visioni. La sussidiarietà, in questo senso, e’ chiave di una necessaria riforma del welfare state italiano. Penso che acquisire questo punto come condiviso sia già una affermazione non banale.
Non si consideri, da parte mia, la polemica, ma il riferimento ai fatti è necessario per uscire da una discussione totalmente ideologica.
La destra italiana al governo nazionale si è distinta per l’attacco a due capisaldi della sussidiarietà e del terzo settore italiano: il tentativo di statalizzare le fondazioni bancarie, di privarle della loro autonomia, di sottometterle ad un governo politico, e il tentativo di distruggere la peculiarità dell’impresa cooperativa, per ricondurla al modello dell’impresa capitalistica. In tutti e due questi casi, la destra non e’ riuscita nei suoi intenti. Tuttavia, sul piano sostanziale, due dei principali capisaldi del terzo settore, le fondazioni bancarie e il movimento cooperativo, sono stati oggetto di attacchi distruttivi, che fortunatamente sono stati bloccati, anche per una azione di resistenza esercitata da una parte del mondo cattolico del centrodestra, che si e’ aggiunta a quella della società civile. Aggiungo anche che nelle politiche concrete, economiche, di finanza pubblica del centrodestra, l’attacco all’autonomia del welfare comunale e’ stato fortissimo, fino ad una interpretazione restrittiva del patto di stabilità, che ha limitato enormemente le possibilità di manovra e di iniziativa. Siccome considero il welfare municipale un aspetto essenziale di questo concetto di sussidiarietà, sostanzialmente, al di là delle dichiarazioni ideologiche, si e’ cercato di ridurre la realtà italiana, lungo tre direttrici fondamentali, a Stato da una parte e a mercato capitalistico dall’altra. E di distruggere o limitare fortemente questa dimensione di autonomia della società civile, che, evidentemente, e’ vista come una anomalia o un pericolo.
Se si abbandona questa strada, se – come afferma il ministro Sacconi – oggi il principio della sussidiarietà e’ posto alla base di una riforma dello stato sociale, e’ un fatto estremamente positivo. Dovrebbe essere considerata una svolta, più che un ritorno alla tradizione, dato che nella tradizione vi sono i tentativo che ho citato. Non voglio dire che, contrariamente a quella che apparirebbe una visione ideologica degli schieramenti, gli unici provvedimenti che vanno nel senso della valorizzazione della sussidiarietà (la legge sulla parità, l’autonomia scolastica e universitaria, la riforma costituzionale del Titolo V), sono stati portati avanti dal centrosinistra.
Sgombriamo il campo dall’idea che in Italia vi sia una sinistra statalista che fa da tappo alla sussidiarietà. Ripeto, se giudichiamo le scelte di governo così come si sono articolate negli ultimi quindici anni, gli unici provvedimenti che sono andati nel senso di un rafforzamento hanno portato il segno del centrosinistra, mentre dall’altra parte si e’ portato un attacco piuttosto sostanzioso ad alcuni capisaldi del terzo settore.
Credo che noi dobbiamo profondamente correggere un sistema di welfare inefficiente e che costituisce uno dei problemi seri del nostro Paese. Il nostro e’ uno dei Paesi sviluppati che ha il più alto indice di diseguaglianza sociale. Vi e’ un criterio di calcolo della diseguaglianza, l’indicatore Gini, che segnala l’Italia come uno dei Paesi che ha il più alto indice di diseguaglianza sociale. Presto sarà resa pubblica una ricerca sulle diseguaglianze, voluta dalla Fondazione Nens e dalla Fondazione Italianieuropei, nella quale vi e’ un particolare che mi ha molto colpito. Gli studiosi hanno calcolato l’indice di diseguaglianza pre welfare (cioè la diseguaglianza di mercato) e l’indice di diseguaglianza post welfare, stimando l’azione pubblica di correzione della diseguaglianza.
Il caso italiano e’ particolarmente allarmante, perché la diseguaglianza post welfare e’ maggiore di quella di mercato. Il sistema di welfare italiano non soltanto non corregge le distorsioni prodotte dal mercato, ma le accentua. Determinando, in particolare, un fenomeno tipico del nostro Paese, che considero veramente molto grave . Intendo quella diffusa povertà dei minori, che è il tratto più drammatico della diseguaglianza. La distribuzione del reddito in Italia non prevede soltanto una pesante e crescente diseguaglianza sociale a danno dei redditi da lavoro, con una pesante e crescente diseguaglianza geografica tra Nord e Sud, ma anche una pesante e crescente diseguaglianza generazionale.
Dunque, il sistema di welfare italiano non solo non corregge queste tre fondamentali diseguaglianze, ma la distribuzione del reddito garantita dal welfare le aggrava. Quantomeno aggrava la diseguaglianza geografica e la diseguaglianza generazionale, perché la spesa pubblica procapite non e’ distribuita in modo eguale nel Paese. Nel Mezzogiorno, in particolare nel Mezzogiorno continentale, cioè dove non ci sono regioni a statuto speciale, la spesa pubblica procapite e’ sensibilmente inferiore alla media nazionale. Inoltre, perché l’intervento pubblico correttivo è decisamente spostato a favore delle generazioni più anziane e a danno delle generazioni più giovani.
A questo si aggiunge l’iniquità pesante del sistema fiscale. Nel gruppo dei redditi più alti, i cittadini che dichiarano di guadagnare più di 200 mila euro sono oltre 300 mila in Gran Bretagna e (a parità di Pil procapite e Pil complessivo, e pressoché a parità di popolazione), sono 90 mila in Italia. Un dato assolutamente improbabile, chiaramente indicativo del peso gigantesco dell’evasione fiscale, che naturalmente favorisce i redditi da capitale, a danno dei redditi da lavoro. L’iniquità del sistema fiscale è un fattore molto grave di appesantimento delle ingiustizie sociali nel nostro Paese.
Gli effetti di queste distorsioni del sistema di welfare sono drammatici, perché non si tratta soltanto della crescita e della povertà assoluta o relativa, si tratta anche del fatto che, in particolare, questo welfare, totalmente squilibrato a danno delle generazioni più giovani, favorisce un altro record italiano, quello della staticità sociale. Noi siamo uno tra i Paesi del mondo dove c’e’ minore mobilità sociale: i figli degli operai fanno gli operai precari, i figli dei professori fanno i professori, e non sempre con criteri di selezione trasparenti, i figli dei notai fanno i notai… Questa staticità sociale, che è il contrario della meritocrazia, della valorizzazione e dell’uguaglianza delle opportunità , e’ uno dei dammi del nostro Paese e una delle ragioni che concorrono a ridurre la qualità dell’economia e la capacità competitiva italiana.
E qui, secondo me, interviene un punto di principio, di carattere generale: nel corso di questi anni, il dibattito pubblico ed economico, soprattutto nei Paesi europei, ha considerato quasi come un dogma un assioma che, invece, non corrisponde a verità: l’idea che la spesa sociale sia un peso rispetto alle esigenze dello sviluppo e della competitività. Ora, in realtà, se esaminiamo i modelli di competitività in Europa, ci rendiamo conto che, secondo la classificazione degli economisti, ci sono quattro tipi di Paesi: quelli ad alta intensità di spesa sociale e bassa competitività, quelli che hanno un alto grado di competitività e una bassa protezione sociale, quelli che hanno indicatori molto bassi da tutti e due i punti di vista (tra cui ci collochiamo anche noi), e, infine, una fascia di Paesi che hanno alta protezione sociale e alta competitività. Sono, ad esempio, i Paesi dell’Europa del Nord, dove c’è un’alta competitività e, nello stesso tempo, sistemi di welfare molto efficienti. Ed anche costosi. Paesi, insomma, dove il welfare e’ un investimento sociale, perché produce empowerment dei cittadini, acculturazione, competitività, libertà.
Colpisce che la caduta della natalità, ad esempio, ha riguardato in particolare i grandi Paesi cattolici dell’Europa meridionale, mentre c’e’ una singolare coincidenza tra tasso dell’occupazione femminile e tasso di natalità: Paesi dove le donne lavorano, hanno anche figli. Da noi c’è chi pensa che le politiche sociali verso la famiglia consistano nel dare un assegno alle donne perché restino a casa, anziché occuparsi – come dirò – della dote fiscale dei minori.
Siamo nella situazione in cui l’assioma secondo cui la spesa sociale e’ un peso rispetto alla competitività e’ seriamente messo in discussione.
La crisi mette in discussione molte verità “consolidate”. Intanto l’idea che non ci fosse più bisogno della politica, che bastava lasciar fare al mercato e che l’unico compito della politica fosse quello di rimuovere gli ostacoli perché la globalizzazione capitalistica e il mercato mondiale potessero risolvere tutti i problemi dell’umanità. Questa e’ stata l’ideologia dominante per quindici anni. Dopodiché si e’ scoperto che ci vogliono le regole, le istituzioni, dei legal standards, perché, altrimenti, l’economia mondiale non funziona. Direi che la crisi ha messo in evidenza che questo sviluppo ha avuto un deficit di democrazia e di regolazione che ha prodotto instabilità, contraddizioni e conflitti.
Il secondo problema e’ che questo tipo di sviluppo ha prodotto anche un’enorme diseguaglianza sociale, che ha dato società più fragili, meno coese meno capaci di reagire alla crisi. E la diseguaglianza sociale è diventata anche un blocco economico, perché la distribuzione diseguale della ricchezza è un freno alla crescita dei consumi. Ed e’ del tutto evidente: se la ricchezza si concentra nel decile più alto, infatti, questo difficilmente si traduce in consumi e sostegno all’economia. E non e’ un caso che un grande Paese come gli Stati Uniti risponde alla crisi in chiave “europea”, cioè con misure fiscali volte a ridurre le diseguaglianze sociali e distributive, e con un rilancio di politiche di welfare, come ad esempio nel campo della sanità. Oltre, naturalmente, ad un forte sostegno agli investimenti e all’innovazione e ad una attenta regulation del mercati finanziari. Sono le direttrici della risposta americana alla crisi che – mi pare – sia fortemente innovativa.
Ora, penso che questa ispirazione ci debba spingere a guardare a quella italiana come ad una sfida che punta non ad un welfare residuale, caritatevole, per i più poveri. E, purtroppo, nel Libro Bianco questa ispirazione e’ molto forte. Viceversa, condivido il riferimento, nel Libro Bianco del ministro Sacconi, ad un welfare delle opportunità e delle responsabilità, un’idea meno burocratica e paternalistica. Penso che ci sono funzioni che lo Stato non e’ in grado di svolgere o che svolgerebbe in maniera peggiore di come possano essere svolte dal privato sociale. Mi riferisco al grandissimo tema dell’assistenza ai non autosufficienti, che e’ al di fuori della retorica familistica.
Siamo in un Paese in cui ad una assai accentuata retorica familistica corrisponde il minimo di politiche per la famiglia. Se vogliamo parlare della famiglia non solo in termini retorici, ma di attribuzione di un ruolo che non ne stressi le funzioni perché mancano politiche di accompagnamento, due sono i veri problemi. Il tema delle persone non autosufficienti, che è una grande questione. Infatti, se è sbagliata l’istituzionalizzazione dei non autosufficienti, allora bisogna sostenere le famiglie nel loro impegno di assistenza, perché ciò non può essere delegato soltanto alle badanti e a quella parte delle famiglie che se lo possono permettere. E vi e’ l’altro grande tema, quello dei minori. Al termine della legislatura precedente, come governo di centrosinistra eravamo arrivati a definire alcune proposte, come l’idea di una dote fiscale per i minori, quindi l’idea di una politica fiscale a favore dell’infanzia. Mi sembrerebbe un punto da cui ripartire. Purtroppo nel Libro Bianco il riferimento a questa tematica è molto vago, ma pare essenziale.
La famiglia? Bene, ma in modo non retorico, da sostenere attraverso una rete di servizi. E qui e’ fondamentale il welfare locale, perché e’ quello che meglio può adattare la rete dei servizi ai bisogni concreti della comunità. E, ancora, attraverso politiche pubbliche in grado di sostenere la famiglia su due punti: l’assistenza degli anziani e dei non autosufficienti; la promozione dei minori. Se non ci sono politiche pubbliche che affrontano queste due grandi questioni, il riferimento alla famiglia e’ solo retorica e si finisce per scaricare su di essa compiti e funzioni che non è in grado di svolgere.
Penso, quindi, che bisogna andare al merito e cominciare il confronto sui temi veri di una nuova organizzazione del welfare che trasferisca di più alle famiglie, che investa di più sui minori, che punti di più sulle responsabilità e generi opportunità e mobilità. Che punti sulla libertà delle persone… Sono assolutamente d’accordo.
E qui vorrei mettere in guardia, perché la libertà e’ un concetto indivisibile: libertà di scelta per quanto riguarda la scuola? Certo. Libertà di scelta per quanto riguarda la cura? Certo. Ma questo vuol dire libertà di cura, libertà di scelte nella propria vita, nella scelta delle forme di organizzazione familiare o parafamiliare degli individui. Il concetto di libertà e’ indivisibile. E’ difficile che, ad un certo punto, la libertà si fermi perché interviene un’imposizione di natura ideologica, che dice: la convivenza e’ proibita o penalizzata. Oppure, di fronte a situazioni estreme, non hai più la libertà di decidere se devi farti praticare un buco nello stomaco e metterti un tubo perché la legge ti obbliga a farlo…
Bisogna stare molto attenti, da questo punto di vista: se si punta sulla libertà, essa e’ libertà della persona e la legge deve creare il contesto in cui possa esplicarsi. Difficilmente può imporre principi. Mi viene spesso in mente, a questo proposito, una bellissima frase di Aldo Moro all’indomani del referendum sul divorzio. Rivolto al Consiglio nazionale della Dc, Moro disse: lo spirito del tempo consiglia ai cristiani più a testimoniare i loro valori con la coerenza dei comportamenti, che non a pretendere di imporli per legge. Noi viviamo in un curioso spirito del tempo in cui, talvolta, affiora la pretesa di imporre certi valori per legge. Quando a testimoniarli nei comportamenti, non se ne parla proprio…
Da questo punto di vista, quindi, penso che la sussidiarietà metta al centro la persona e la propria libertà. Ma bisogna sapere che il concetto di libertà e’ indivisibile. Comporta il fatto che la scelta morale appartiene alla persona e che difficilmente può essere imposta dalla legge. E che il compito della legge e’ creare un contesto nel quale la scelta morale della persona possa esplicarsi nella sua pienezza di responsabilità.
Credo nell’idea di una riforma dello stato sociale non residuale. Un’idea del sostegno alle persone che diventa un grande investimento. Investire nella cultura, nella salute e’ una condizione dello sviluppo economico moderno. E penso che ciò significhi un’organizzazione dello stato sociale che punti su una sussidiarietà non solo intesa come delega nella gestione dei servizi, ma come coinvolgimento nella determinazione delle politiche, appunto attraverso il concetto di governance sociale, non solo istituzionale. Anche il professor Salomon ha sviluppato questo tema interessante e giusto di diversificazione tra il concetto di governement e quello di governance, là dove quest’ultima rappresenta un concetto più ampio, che coinvolge sin dall’origine i soggetti della società.
Su questo terreno c’e’ un enorme spazio di iniziativa, anche se passerà attraverso un confronto di scelte politiche molto stringenti: quali politiche verso la famiglia, come passare dalla determinazione teorica alla realizzazione pratica del federalismo fiscale… A questo proposito vorrei sottolineare come la legge delega indichi principi in definitiva condivisibili, ma come la sua attuazione concreta richieda un lavoro estremamente complesso. Anche perche’ nel dibattito pubblico che ha accompagnato la delega sul federalismo fiscale si sono accavallate una infinità di domande. Il federalismo fiscale dovrebbe garantire maggiori risorse a cui auspicabilmente puntano le grandi regioni sviluppate del Nord per le loro politiche infrastrutturali. Nello stesso tempo dovrebbe garantire eguali risorse, anzi di più, al Mezzogiorno, se si prende sul serio il concetto di livelli essenziali di assistenza e costi standard. Dunque, più soldi al Nord, più soldi al Sud, una riduzione delle tasse…. Ci manca solo che con il federalismo fiscale si curi il raffreddore… Lasciatemelo dire: il dibattito pubblico, come avviene spesso nel nostro Paese, e’ più come la vendita di certi prodotti miracolosi nelle piazze del Far West.
Non credo che il federalismo fiscale possa dare più soldi a tutti e ridurre le tasse. Ho l’impressione che ciò non sia possibile e penso che il dibattito pubblico dovrà svilupparsi seriamente intorno alle scelte, che saranno molto più problematiche. Lì, davvero, per il tipo di welfare state che noi vogliamo, gli spazi saranno definiti dalle scelte concrete: cosa vuol dire livelli essenziali di assistenza, ecc. Dovremo passare attraverso la cruna di questo ago , se non vogliamo che il dibattito rimanga di carattere generale.
Infine, penso che vi sia un problema di finanziamento del terzo settore. E’ tempo di favorire, anche attraverso politiche fiscali adeguate, una maggiore autonomia finanziaria. Il governo auspica la trasformazione dell’Università in fondazioni? Allora coerenza vorrebbe che si favorisca una capitalizzazione delle fondazioni che operano in questo campo. Tra l’altro, il capitale sociale delle fondazioni e’ inalienabile. Le fondazioni, quelle culturali riconosciute per legge e con finalità cosiali, si alimentano dei proventi finanziari. Si tratta, quindi, di un capitale che non va disperso. Le fondazioni operano sotto controllo del governo, il quale non ha mai esercitato questa facoltà. Per quanto riguarda la Fondazione Italianieuropei, ad esempio, il governo avrebbe il potere di nominare un suo rappresentante nel cda.

Ripeto, il capitale sociale e’ inalienabile, non si tratta di un dono. Nel caso in cui, ad esempio, la Fondazione Italianieuropei cessasse le sue attività di natura culturale, quel denaro dovrebbe essere restituito. Ma , allora, perché non si incentiva seriamente, dal punto di vista fiscale, la costituzione di questo capitale sociale per le fondazioni riconosciute per legge , che svolgono una funzione sociale riconosciuta e controllata? L’attività di queste fondazioni costituite e che operano nel campo della cultura e della formazione o in altri campi di pubblica utilità, si renderebbe più indipendente rispetto al rapporto con il sistema politico (perché altrimenti si deve avere il contributo, che rischia di essere sempre discrezionale), oppure rispetto ad un puro rapporto con il mercato, con il sostegno privato.
Abbiamo avviato un confronto, dobbiamo cercare di lavorare insieme per dare maggiore forza a queste idee di sussidiarietà e ad una idea della dimensione della libertà civile che si organizza e che e’ una peculiarità importante del nostro Paese.
Grazie.









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