Intervista
18 settembre 2009

AFGHANISTAN, IL RITIRO ADESSO SAREBBE UNA CATASTROFE MA IL GOVERNO CHE LITIGA E' LA PEGGIORE RISPOSTA

Intervista di Concita De Gregorio e Simone Collini - L'Unità


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Massimo D’Alema non ha dubbi: «Il ritiro della comunità internazionale dall’Afghanistan sarebbe una catastrofe». Servono, dice l’ex ministro degli Esteri, azioni politiche che affianchino l’azione militare: una conferenza internazionale di pace allargata ai paesi dell’area, l’invio di una personalità politica di indiscusso prestigio che, come rappresentante dell’Onu, affianchi Karzai. Utile sarebbe che il presidente afghano, così indebolito dal voto contestato, «con un gesto di responsabilità politica, allargasse il governo anche ad altre forze finora a lui ostili». Il primo passo, tuttavia, è «dire agli americani che Enduring freedom dovrebbe giungere a conclusione». Insomma, «deve esserci una sola missione Onu». Parte da qui la necessaria rinegoziazione con gli Stati Uniti di una strategia che «lo dicevamo nel 2007, non ha prodotto gli effetti sperati». «Bisogna sempre tenere presente cos’è stato il barbaro regime dei talebani. Nell’inconscio di certa sinistra c’è l’idea che da una parte ci siano sempre i popoli in lotta e dall’altra l’imperialismo cattivo. In Afghanistan non è così. Le ragioni e i torti affondano le radici in un terreno di scontro tribale, religioso, politico. Non possiamo permettere il ritorno al dominio della ferocia. Discutiamo come rafforzare la nostra presenza, soprattutto nel campo civile, della cooperazione economica, e se possibile far sì che i paesi vicini concorrano in quest’opera».

Dunque non è da discutere il nostro impegno militare, lei dice.

«In primo luogo dobbiamo sentirci vicini alle forze armate, che hanno pagato un prezzo altissimo. Sono stato in Afghanistan molte volte, i nostri militari hanno un rapporto straordinario con la gente, sono stati capaci di agire nei territori non con le armi ma con l’opera di aiuto, di assistenza, di sostegno alle popolazioni. E poi non dimentichiamo che il rinnovo della missione civile dell’Onu (Unama) è avvenuto durante il biennio di presenza italiana nel Consiglio di sicurezza, dove noi siamo stati i relatori. E che stiamo parlando di una missione Onu».

Posta però sotto il comando Nato.

«Non facciamo confusione. In questo caso, infatti, parliamo della missione Isaf, nella quale la Nato svolge un compito su mandato delle Nazioni unite. Non dobbiamo ritirarci perché, per quanti errori possa aver compiuto la comunità internazionale, quando si discute bisogna sempre aver presente cos’è stato il regime dei talebani, la barbarie integralista, la violenza, la ferocia contro le donne, il massacro delle minoranze etniche. Non possiamo andare via e succeda quel che succeda».

E allora cosa possiamo fare?

«Dissi in Parlamento, già nel febbraio 2007, che la missione militare in Afghanistan non aveva prodotto gli effetti sperati. Ripeto quello che dissi allora: dobbiamo rinegoziare e discutere con gli Stati Uniti il rafforzamento di un’azione di pace. All’epoca di Bush, quando eravamo al governo, proponemmo una conferenza internazionale. Quella proposta fu stupidamente strumentalizzata dal centrodestra. Ora tutti la ritengono un’idea sacrosanta».

Chi dovrebbe essere coinvolto in questa conferenza, secondo lei?

«Deve essere aperta anche alle componenti ostili al governo Karzai, quelle almeno che non sono legate ad Al-Qaeda, quelle disposte a rinunciare alla violenza, che non si riconoscono nelle frange più fondamentaliste. E poi la conferenza deve essere allargata all’Asia musulmana, alla Cina, all’Iran, alla Russia. A nessuno, in quell’area, conviene che le tensioni si estendano. Certo, se tutti quelli che sono contro Karzai sono automaticamente definiti e identificati come “terroristi” è molto difficile sviluppare un’azione politica per una riconciliazione».

Perché dice questo?

«Perché bisogna distinguere. In Afghanistan c’è Al-Qaeda, i talebani, ci sono i conflitti tribali, etnici, gli interessi legati al traffico dell’eroina. Ciò che sta complicando molto è il sovrapporsi di un conflitto etnico-tribale con la lotta antiterroristica. Se gli afghani vivono l’espansione del controllo del governo di Kabul come una minaccia, il rischio è che la guerriglia trovi basi di consenso anche tra le popolazioni, non solo nelle frange fondamentaliste».

Non sarà però solo un problema di definizione: cos’altro, a suo giudizio, sta rendendo difficile la stabilizzazione?

«È stata applicata una strategia militare che purtroppo ha reso tutto più difficile. È stata utilizzata la logica del blitz, degli attacchi aerei, dei bombardamenti e si è finito per colpire in modo grave e indiscriminato anche la popolazione civile. Questo ha creato diffidenza e ostilità ben al di là dei gruppi legati al fondamentalismo e ad Al-Qaeda».

La soluzione?

«Passa per un approccio politico, recuperando lo spirito di una missione Onu. Inoltre deve cessare la sovrapposizione, che ha creato molti problemi, tra le due missioni militari, di sicurezza, presenti in Afghanistan: l’Isaf, di cui fanno parte i nostri soldati con funzione di peace enforcement, ed Enduring freedom, a guida statunitense, che ha come obiettivo l’eliminazione di Al-Qaeda. Bisogna dire agli americani che Enduring freedom dovrebbe giungere a conclusione e che ci deve essere un solo comando e una sola missione militare. E poi bisogna chiedere un impegno maggiore anche ad altri paesi, la Cina, la Russia, il Pakistan. La stabilizzazione è interesse non solo della Nato ma di tutta la regione, Iran compreso».

Diceva che la strategia militare che prevede gli attacchi aerei è sbagliata, ma qual è l’alternativa?

«Ho parlato con il generale Petraeus. Mi ha detto che più c’è presenza sul territorio, più è garantita la sicurezza dal basso. Per questo è fondamentale la formazione di forze di controllo locali, che abbiano rapporti col governo nazionale ma anche con le comunità territoriali. Solo così è possibile costruire una rete effettiva di presidio del territorio. Insomma, bisogna utilizzare diversamente le forze militari sul campo, impiegandole in modo più intensivo ed efficace in compiti di formazione».

Che cosa hanno cambiato le elezioni?

«Purtroppo molto poco. Ora la sfida, che riguarda tutti e in particolare Karzai, è unire le forze che si riconoscono nella democrazia e in un progetto di riconciliazione nazionale. Inoltre, ci vorrebbe una personalità internazionale di grande livello che stia lì come rappresentante del segretario generale dell’Onu, anche per sottolineare l’impegno politico e non soltanto militare della comunità internazionale».

Cosa può fare il governo italiano?

«La cosa peggiore che può fare è ciò che sta facendo: litigare, dividersi o cavalcare, come fa la Lega, un comprensibile sentimento di preoccupazione dell’opinione pubblica».

C’è stata una riunione Pd: l’esito?

«È stata una riunione positiva, nella quale abbiamo condiviso una posizione in continuità con ciò che abbiamo fatto quando eravamo al governo del paese».

È stato giusto per lei sospendere la manifestazione di sabato? Non tutti sono d’accordo.

«Noi dobbiamo comportarci come un paese normale, senza tuttavia mai dimenticare che non lo siamo. Farlo di per sé è un gesto coraggioso. In un paese normale, in un giorno così, la protesta è sospesa. È il tempo del cordoglio e della solidarietà».

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