Discorso
25 maggio 2008

Religione e Democrazia, Ultima sessione – Relazione del Presidente della Fondazione Italianieuropei, Massimo D’Alema

Summer School Fondazione Italianieuropei, Marina di Camerota


Ringrazio le personalità del mondo della cultura e quanti hanno voluto partecipare e contribuire a questo importante seminario, che ha dato vita ad una discussione di rilievo su un tema cruciale del nostro tempo, dimostrando quanta domanda vi sia di formazione, di cultura, di confronto. Una domanda spesso relegata ai margini di un dibattito pubblico che sembra povero e incapace di cogliere fino in fondo sia gli interrogativi sia la diffusa volontà di capire. Italianieuropei, fondazione di cultura politica, proverà a farlo, con i mezzi limitati di cui dispone e ovviamente con un programma di ricerca che ruota intorno alla politica, legato alle disponibilità delle persone e degli strumenti.

In questo intervento, cerchero’ di ricondurre la discussione ai temi della politica, sia pure interpretati in una chiave non contingente. Ma, appunto, noi sappiamo che la politica ha bisogno di arricchire il suo retroterra di analisi, i suoi strumenti concettuali, la sua capacità di capire ed interpretare la società, pena il rischio di un suo drammatico impoverimento. Il tema è il peso che ha la questione religiosa, e per noi la questione cattolica, con tutte le implicazioni che ciò comporta in un Paese che, come ci ha ricordato Salvatore Natoli, ha una debole tradizione unitaria e statale. Ma più in generale vorrei esaminare la questione religiosa, tornata al centro del dibattito pubblico e che appare cruciale nella prospettiva delle nostre società.

Noi abbiamo coltivato a lungo la convinzione che, in una società ricca, dominata dalla spinta dei consumi individuali, animata da una fiducia anche acritica nei confronti degli sviluppi della scienza, la religione si sarebbe ridotta ad un fatto privato. Non è stato così. La religione ha assunto via via, soprattutto in questa lunga transizione e crisi del mondo occidentale, un rilievo pubblico primario. Si configura come un fattore essenziale di identità, di protezione e di consolazione di fronte alle dure sfide di un mondo che si trasforma velocemente. Ed appare anche come l’unica dimensione in grado di dare un senso non soltanto alla vita individuale degli esseri umani, ma anche al loro destino collettivo. Non è un caso dunque che la religione torni ad essere un affare di Stato. Ho ascoltato lo straordinario commento di Tzvetan Todorov ai discorsi del presidente Nicolas Sarkozy. Non ai discorsi di un cardinale, ma a quelli del capo di Stato della Repubblica francese, patria della Rivoluzione e dell’Illuminismo. Si potrebbe davvero dire <> Quale vittoria inattesa, trionfale, nella Parigi della presa della Bastiglia e dell’Illuminismo!

Si è detto che la rinascita del sentimento religioso scaturisce dalla fine delle grandi narrazioni ideologiche del Novecento, dalla caduta del comunismo e questo, a mio giudizio, è parzialmente vero. Uno sforzo di ricostruzione cronologica di quanto è accaduto negli ultimi 25 anni ci aiuta, forse, a vedere che il movimento è stato più complesso, perché in realtà, sul finire del secolo scorso - il “secolo breve” - non fu il sentimento religioso a trionfare sull’utopia totalitaria, ma fu piuttosto, e lo ha ricordato in qualche modo anche Todorov, l’ideologia liberale della società aperta e della forza dinamica del capitalismo. Di fronte a questa forza, alla sua straordinaria capacità di innovazione e di produzione di ricchezza, una società ed una economia pianificata hanno ceduto di schianto. Ed è stato il fascino della democrazia ad attrarre l’opinione pubblica dei Paesi dell’Europa centrale ed orientale verso l’Europa politica, verso l’Occidente.
Bisogna forse cercare di capire in che misura ha giocato l’utopia neoliberale. Ad essa si sono spesso riferiti Charles Larmore e Salvatore Natoli ed io tornerò sul tema, perché il liberalismo è una sorta di campo di battaglia. Voglio dire che, proprio in quanto ideologia vincente, esso diventa terreno di un confronto tra più liberalismi. In questo senso, non c’è dubbio che il liberalismo di cui ci ha parlato Larmore sulla scia della lezione di John Rawls, il liberalismo politico, è cosa diversa dall’ideologia liberista che ha dominato la globalizzazione. Così come il liberalismo che punta ad un compromesso sociale attento ai temi della disuguaglianza di Stuart Mill è diverso da un liberalismo attento soltanto alle regole, come teoria delle procedure.

Ma guardiamo al liberalismo concreto, quello che ha retto la globalizzazione. Questa ideologia del mercato contro la quale, oggi, si volge anche la nuova destra, dopo esserne stata propugnatrice. Guardiamo alla tesi secondo cui la fine del comunismo ha coinciso con la fine delle ideologie, con la fine della storia. Abbiamo avuto il fiorire di una grande letteratura: la fine della politica; la politica che perde di significato nell’epoca in cui è il dominio dell’economia, liberata dai vincoli imposti dalla politica, a sprigionare le forze positive in grado di darci il migliore dei mondi possibili. Ed è, quindi, il mercato a provvedere ad allocare le risorse. Il compito della politica - fu scritto - è soltanto quello di rimuovere gli ostacoli che si frappongono al pieno sviluppo del potenziale benefico dell’economia. Insomma, la politica ancella dell’economia. Tutto questo si è presentato come la fine delle ideologie, mentre probabilmente era l’ultima grande ideologia totalitaria del Novecento.

Qui vorrei fare una puntualizzazione. Credo, infatti, che la rinascita del sentimento religioso e quell’altro fenomeno, parallelo ma non coincidente, di ricristianizzazione della vita pubblica e politica siano distinti e tali vadano mantenuti, se si vuole cercare di costruire una risposta. Detto questo, alla base del ritorno del sacro vi è certo anche il fallimento delle grandi utopie millenaristiche, ma in primo piano vi è piuttosto il fallimento dell’ideologia del mercato e di una globalizzazione priva di politica, di principi, di idee guida.

In realtà, se è vero che la globalizzazione è stata un gigantesco tentativo di occidentalizzare il mondo, è anche vero che l’Europa si è espansa nel mondo fino a perdere se stessa. Insomma, il mare come metafora dell’Occidente può essere solcato in direzioni diverse. E noi ci siamo via via resi conto che la globalizzazione non consisteva soltanto nel fatto che noi esportavamo le nostre idee, la nostra visione del mondo, ma che le nostre idee ritornavano sotto forma di merci. Infatti, l’innesto del capitalismo occidentale sulle grandi società comunitarie asiatiche ha prodotto effetti formidabili dal punto di vista economico, anche se certamente carichi di problemi dal punto di vista umano e ambientale.

Abbiamo vinto e siamo vittime della nostra vittoria. La globalizzazione era una porta girevole che non andava in una direzione sola e ha prodotto lacerazioni e conflitti da cui oggi l’Occidente, che ne è stato il motore fondamentale, si sente minacciato. Minacciato sul piano della competizione economica, quindi nei suoi privilegi, nelle sue conquiste e nella sua ricchezza: importiamo povertà - è stato scritto - a causa della globalizzazione. L’Occidente, inoltre, si sente insidiato nella sua sicurezza, perché quella parte del mondo che rimane emarginata dalla globalizzazione e avverte la propria identità in pericolo, vede in esso un nemico. Gli immigrati, avamposti di questo mondo ostile, vengono da noi alla ricerca di benessere e futuro. Non c’è dubbio che di fronte a questi effetti boomerang, effetti di ritorno di un processo che noi pensavamo unidirezionale, le nostre società appaiono smarrite, incerte del loro futuro, attraversate da fenomeni di imbarbarimento legati anche a nuove povertà e a disumanizzazione.
Ed è in questo contesto che emerge l’idea che la religione, la fede, la Chiesa possano svolgere un ruolo di supplenza. La destra politica prende a prestito la religione come cemento della società, come elemento coesivo di cui l’Occidente ha bisogno nella competizione-conflitto con altre civiltà. D’altro canto, badate, qualcosa di simile, di parallelo, è accaduto nel mondo islamico. E non è un caso che sono l’Occidente e il mondo arabo quei luoghi in cui il fondamentalismo religioso, in forme estremamente diverse, ha assunto un peso così grande. Sono, infatti, le parti del mondo che vivono la globalizzazione o con un sentimento di paura o con un sentimento di esclusione e rancore.

Secondo l’ interessante classificazione che ha proposto un sociologo francese, Dominique Moïsi, ci sono poi altre aree del mondo che, invece, vivono questa fase con un atteggiamento di speranza: i grandi Paesi asiatici e quelli dell’America Latina. Qui la presenza delle religioni è grande, ma non occupa lo spazio pubblico allo stesso modo in cui ciò avviene in quei Paesi che vivono la globalizzazione come minaccia alla propria identità o al proprio status. Mi ha detto un amico brasiliano, in una telefonata di consolazione dopo la sconfitta elettorale che in fondo è normale che i Paesi dominati dalla paura siano quelli vecchi e siano governati dalla destra, mentre Paesi giovani e sospinti dalla speranza siano governati dalla sinistra… Rimane un certo rincrescimento per la parte del mondo in cui ci troviamo noi, però io credo che non si possa accettare questa condanna e che occorra cercare di guardare alle potenzialità che ci sono nel nostro mondo occidentale.

Tornando al mondo arabo e pensando a quell’esperienza di nazionalismo, voglio aggiungere che a determinare un ripiegamento verso il fondamentalismo religioso è stato in questo caso il sostanziale fallimento del tentativo di costruire uno Stato laico e di assicurare uno sviluppo moderno di emancipazione delle masse.

Ora, naturalmente, quando noi parliamo di un ruolo di supplenza della religione, ci riferiamo in realtà anche al fatto che esso si è esercitato in un modo ambivalente. Vuol dire che, in definitiva, se noi guardiamo al corso di questi anni, non possiamo negare che in una certa fase la religione, il cristianesimo, la religione cattolica, la Chiesa, hanno in qualche modo offerto una supplenza anche al socialismo. Pensiamo alla critica di Giovanni Paolo II al capitalismo globale e alle sue ingiustizie e contraddizioni. Di fronte ad un socialismo che taceva, carico delle sue vergogne e del suo senso di colpa storico, la Chiesa ha saputo offrire anche alla sinistra, in una fase determinata, la forza di una sua visione critica universalistica. Poi, però, è parsa ripiegare verso l’Occidente, chiudersi dentro questi confini, in una alleanza tra Occidente, cristianesimo e mondo giudaico-cristiano che, a mio giudizio, è rischiosa per la stessa Chiesa. Essa, infatti, rischia di perdere la carica di universalità del messaggio cristiano e di confinarsi entro i limiti di un mondo, il nostro. Tanto che sempre di più si potrebbe dire, parafrasando la celebre frase morotea riferita alla Democrazia cristiana: <>.

È fondamentale che l’Occidente capisca che è solo uno degli attori. E probabilmente l’Europa non è neanche uno degli attori fondamentali, se non saprà unirsi e non avrà fiducia nei propri valori e nel proprio patrimonio di civiltà. Così, mentre in altre epoche storiche il legame tra cristianesimo, mondo occidentale ed Europa poneva il cristianesimo al centro del mondo, oggi c’è il rischio che, se questo patto diventa esclusivo e opprimente, il cristianesimo finisca non dico in un’area periferica, ma certo in una parte delimitata.

Assistiamo, quindi, a questo duplice fenomeno: rinascita del sentimento religioso e riconquista religiosa dello spazio politico-statuale. Ripeto: sono due fenomeni che non coincidono e alla loro diversità deve guardare con attenzione chi voglia preoccuparsi di una riscossa laica, intesa non in senso anti-religioso, ma nel senso di una cultura laica che comprenda e si arricchisca del sentimento religioso.

Dunque, se consideriamo il fenomeno della riconquista dello spazio politico e statuale da parte della religione, vediamo che si tende a fondare una nuova alleanza tra la religione ed un potere che ha bisogno di darsi un’identità, tanto più esso si sente minacciato ed immerso in un conflitto. E certamente - come è stato detto dal professor Alfonso Catania - l’11 settembre ha rivelato questa debolezza dell’Occidente. Nel pensiero contemporaneo, l’11 settembre ha funzionato come il terremoto di Lisbona, che sconvolse il pensiero filosofico europeo del Settecento, facendo cadere l’utopia del migliore dei mondi possibili. Di fronte all’opinione pubblica è apparso quello che immediatamente Bill Clinton definì the dark side of globalization, il volto oscuro della globalizzazione: l’altra faccia di un processo che l’Occidente aveva guardato con ottimismo, come, appunto, ad un’espansione del proprio modello economico, sociale, culturale, statuale.

Vorrei fare un’altra osservazione legata all’attualità: noi – e intendo riferirmi alla sinistra democratica europea - abbiamo visto con molto ritardo la novità di questo scenario. Abbiamo continuato a leggere la transizione con vecchie categorie interpretative. Persino l’analisi dei comportamenti politici non ha tenuto conto di queste sconvolgenti novità. Ce lo ha ricordato il bellissimo intervento di Mauro Calise in sede di analisi del voto, quando ha detto: <>. Noi ci rivolgiamo all’opinione pubblica nella convinzione che l’elettore sia il citoyen. E abbiamo letto la transizione pensando che fosse finito il voto ideologico, di appartenenza, e che l’elettorato fosse spostato verso il voto di opinione, la scelta razionale ed individuale dell’offerta politica più vantaggiosa, più ragionevole, più realistica. Non era vero. O comunque, era vero soltanto per una porzione dell’opinione pubblica, mentre tornava prepotentemente un voto politico che se non vogliamo chiamare ideologico, di appartenenza, dovremmo definire identitario, cioè, appunto, mosso da passioni e paure, non da una valutazione razionale.

La destra ha intercettato le ragioni profonde per cui non si spostano più blocchi sociali nel senso tradizionale, ma pezzi di comunità. Un po’ alla maniera in cui, naturalmente senza spingere questo parallelismo oltre un certo limite, Remo Bodei ricordava la diversa capacità di persuasione dell’esponente nazionalsocialista e dell’esponente comunista nel dibattito con gli operai tedeschi, quindi la forza degli argomenti apparentemente irrazionali e la capacità di evocare un consenso mosso da passioni profonde.

Dunque, la destra è stata migliore interprete di quello che si muoveva nel fondo della società occidentale e ha saputo intercettarne attese e paure. Nello stesso tempo, ha offerto una risposta che si è largamente basata sull’alleanza tra Chiesa e potere, tra religiosità e potere. Tuttavia, noi sappiamo quanti pericoli questa alleanza porti con sé, in particolare per lo Stato, dal punto di vista della riduzione dei diritti.

A mio giudizio, infatti, un’alleanza di questo tipo in prospettiva entra in urto con il carattere pluralistico e democratico, con quei contenuti e quelle garanzie di libertà per tutti che sono la conquista dello Stato moderno. Ma porta pericoli anche per la Chiesa, perché in definitiva la tentazione del potere, che è una tentazione demoniaca nella storia della Chiesa, è sempre stata all’origine di quegli errori, di quei misfatti di cui Giovanni Paolo II ha dovuto chiedere perdono. E questa tentazione apre linee di frattura all’interno dello stesso movimento dei cattolici. Qui ne abbiamo sentito un’eco molto interessante sia nel corso del dibattito, sia nell’intervento così coraggioso di padre Piero Coda, che ha opposto l’idea di una Chiesa movimento sociale e storico, post conciliare, che non sceglie l’alleanza con il potere.

A proposito dell’intervento di padre Coda, vorrei aprire una parentesi. L’unico rimprovero che gli muovo, infatti, è di aver impropriamente attribuito a Gramsci questa visione egemonica, mentre piuttosto Gramsci considerava ciò esattamente sotto la specie del dominio. Viceversa, l’egemonia gramsciana somiglia molto a quell’idea di essere “sale e lievito” che padre Coda ha proposto. L’egemonia gramsciana si fonda, appunto, sul consenso e sulla capacità di costruirlo.

Chiudo la parentesi e torno a dire che ho trovato importante il suo intervento e il richiamo così forte al Concilio, al valore della libertà religiosa, alla forza di una separazione tra Chiesa e potere affermata nella Gaudium et spes che, abbiamo appreso con piacere, neppure un pontefice può rimuovere. Diciamo pure: è stata una notizia rassicurante da molti punti di vista.

E più a fondo, abbiamo sentito la distinzione tra Chiesa e istituzione che fornisce un fondamento di verità al potere, la distinzione tra Cristo e Paolo, che Vincenzo Vitiello ha spinto fino ad una cristologia che vede nel Cristo il portatore di una verità che non possiede se stessa. Quindi di una verità direi straordinariamente consona alla libertà dei moderni, alla democrazia, in quanto la democrazia non espunge la verità, ma rifiuta che essa sia premessa e fondamento della convivenza, collocandola semmai come la fine di una ricerca che avviene nel confronto tra i diversi.

Dico tutto questo, perché nulla sarebbe sbagliato quanto impostare questo dibattito sulla laicità come uno scontro fra credenti e non credenti. In realtà, il dibattito sulla laicità attraversa innanzitutto il mondo religioso, e lo attraversa nel senso di aprire una linea di frattura con un cattolicesimo post-conciliare che rifiuta l’idea di un patto fra la Chiesa-istituzione e il potere. Ma questo non ci esime anche dal ragionare su una risposta laica, dove con laica si intendono, appunto, le correnti di pensiero eredi dell’Illuminismo. Sono tanti, questi eredi… Alcuni hanno combinato anche guai, ma nel complesso, tuttavia, hanno avuto un peso importante nella storia europea.

Credo che abbiamo dalla nostra molte buone ragioni che non voglio neanche elencare tutte. Ma certo non è vero che lo Stato liberale si fondi sul relativismo etico, ma piuttosto si fonda sull’idea della pace, basata sulla tolleranza e, quindi, sulla necessità di una convivenza non costituita sulla religione. Una comunità fondata esclusivamente sulla religione, infatti, va inesorabilmente al conflitto con altre comunità. L’idea moderna di pace che nasce, appunto - come è stato ricordato - dalle guerre di religione, cioè l’idea di una pace costruita sulla tolleranza, è un grande valore. Non è affatto relativismo etico, così come non lo è la tutela della libertà degli individui, ivi compresa la libertà religiosa. Insomma, noi abbiamo accettato, forse un po’ troppo facilmente, che questi principi e valori svanissero, venissero considerati come qualcosa di non sufficiente a motivare le ragioni della convivenza.

Mi riferisco a valori fondanti così come si sono evoluti nel costituzionalismo democratico, attraverso un processo storico, attraverso conflitti per il riconoscimento dei diritti umani e di cittadinanza, fino al riconoscimento, nella Costituzione europea, dei diritti di genere, insomma, dei diritti di nuova generazione. Tutta questa costruzione straordinaria del costituzionalismo democratico, inteso come programma, è un grande patrimonio di civiltà che comprende il cristianesimo e non si esaurisce in esso.

Io sono stato fra quanti hanno ritenuto che fosse giusto non scrivere delle radici giudaico-cristiane dell’Europa nella premessa della nostra Costituzione perché altrimenti avremmo dovuto - come ricordava Todorov - fare l’elenco di tutte le radici e poi stabilire un criterio di gerarchia tra di loro. Non avremmo più scritto una Costituzione, ma un trattato filosofico o teologico, a seconda dell’inclinazione. Da questo punto di vista, vorrei dire che l’insieme di valori morali e norme giuridiche che stanno a fondamento della nostra convivenza e che si reggono etsi deus non daretur ha un potenziale di universalità che è persino maggiore del patrimonio giudaico-cristiano. In qualche modo, infatti, è in grado di parlare a diverse moltitudini, collegandosi a valori condivisi. Proprio come nella teoria degli insiemi, dove due insiemi si sovrappongono… Io sono abbastanza d’accordo, per esempio, nel dire che l’idea di non nuocere è uno di quei punti in cui gli insiemi si sovrappongono e quindi delineano valori che si fondano su convinzioni di natura etica e religiosa, che vanno al di là del patrimonio esclusivo del mondo giudaico-cristiano. Tanto più in un mondo in cui le culture si mescolano e le civiltà si incontrano. In definitiva, penso che il sogno regressivo di società eticamente e religiosamente compatte finirebbe per mettere in discussione la democrazia.

Mi domando persino se noi non dobbiamo porre con maggiore coraggio questioni oramai veramente fondamentali per il futuro delle nostre società. Noi parliamo giustamente della necessità di combattere gli effetti negativi di una immigrazione incontrollata, della clandestinità, della criminalità. Ora, io non sono per il disordine, sono sempre stato un uomo d’ordine, sono per tutelare la sicurezza dei cittadini. Ma forse non vediamo alcuni altri problemi che, proprio al fine della sicurezza, non sono meno essenziali. Noi parliamo dell’integrazione intesa come dialogo, come rispetto delle culture, ma esiste un problema fondamentale che riguarda il riconoscimento dei diritti politici e che va affrontato. Che cos’è la democrazia in una società in cui oramai il 10, il 15 % della forza lavoro non ha rappresentanza? Questo altera il meccanismo dello scambio, ovvero il meccanismo della democrazia come luogo dove si confrontano e si compongono gli interessi. Tendenzialmente una società che esclude una del lavoro subordinato diventa una democrazia censitaria sul modello delle poleis greche, non certo una democrazia moderna.

Insomma, sono in gioco, a mio giudizio, questioni di fondo e penso che noi abbiamo certamente buone ragioni da rivendicare. C’è un ‘’però’’: siccome la politica è anche capacità di misurare i rapporti di forza, occorre porsi una domanda sul perchè questa costruzione grandiosa appaia fragile sotto la spinta, che può sembrare irrazionale, della paura e dell’uso politico della religione. E’ solo, come qualcuno ha accennato qui, a causa dell’ignavia dei dirigenti che non sono abbastanza assertivi nel difendere questi valori? Questa è una giustificazione che torna (anche perché è la più facile) nella storia del movimento operaio: alla fine, sì, abbiamo perduto, perché eravamo guidati da persone che non avevano qualità (<>).

Io credo, invece, che vi sia qualcosa di più profondo che investe questa costruzione grandiosa, composta dal patrimonio costituzionale e democratico e dai diritti che esso indica come programma. Oggi, questa costruzione, frutto di una lunga storia, sembra non riuscire a formare intorno a sé un consenso prevalente in un’epoca di arretramento, di impoverimento, di minacce per la sicurezza, per lo status, rischiando di assomigliare a quell’insieme di promesse che lo Stato liberale non è in grado di mantenere. Per dirlo con il funesto teorema di Böckenförde: premesse che non può garantire, per il fatto che tra la forza di questo patrimonio e la società vi è, purtroppo, l’impotenza della politica. Perchè questo straordinario patrimonio democratico o è in qualche modo sorretto da un movimento storico che lo invera e lo trasforma in speranza, oppure appare come un insieme di norme e di principi astratti che non sono più in grado, credibilmente, di mobilitare gli esseri viventi, gli esseri umani nella loro concretezza.

E’, appunto, dall’idea che lo Stato liberale si fonda su premesse che non può garantire, che, non a caso, prende le mosse lo scritto di Ratzinger, in occasione de settant’anni del cardinale Casaroli, sull’imprescindibilità del cristianesimo nel mondo moderno. In esso si sostiene che c’è bisogno di una forza esterna in grado di offrire un fondamento alla convivenza e questa forza esterna è la religione. Dunque, la religione è tollerante perché dà un fondamento alla convivenza, si fa carico del fatto che ci sono anche dei non credenti. A questi si consiglia caldamente di comportarsi veluti si deus daretur, in modo che anch’essi possano liberamente conformarsi al nuovo principio fondante della convivenza. Non vi è obbligo, ma un consiglio molto pressante a comportarsi esattamente così.

Allora, se noi non vogliamo che si smarrisca il senso delle ragioni di fondo del nostro stare insieme e però vediamo che ci si volge alla religione come elemento fondante, dobbiamo capire che alle radici di questa crisi c’è la debolezza della politica, che dovrebbe essere declinata in due sensi: da una parte per l’affievolirsi della sua capacità di suscitare passioni e partecipazione, dall’altra, in particolare, per l’indebolimento dei suoi strumenti in grado di agire sulla realtà.

A mio parere, infatti, la crisi dello Stato liberale, prima che essere crisi dei suoi fondamenti, è crisi della sua capacità di governare la globalizzazione. Basta, per esempio, guardare all’impotenza dello Stato nazionale di fronte alla grandiosità dei processi economici, alla finanziarizzazione dell’economia, per cui è sufficiente un lieve stormir di fronde a Wall Street per mettere in ginocchio gli Stati. Abbiamo un bello scrivere di formidabili costituzioni, se poi lo Stato non è in grado di mantenere queste promesse, perché è povero degli strumenti, è privo di potenza. D’altra parte, perdendo capacità di coinvolgimento, di inveramento di questi principi, alla politica viene meno la condizione per cui essa continui a rappresentare un elemento essenziale del rapporto tra società civile, comunità e Stato, marcando così la propria impotenza.

Ora, noi ci siamo adoperati per molti anni, e giustamente, a decostruire elementi ideologici intesi come falsa coscienza, ecc. In fondo, venivamo da una tradizione nella quale l’ipertrofia delle aspettative messianiche aveva prodotto tanti guasti che era giusto mettere degli argini alla politica. Scherzando, però, mi è capitato di dire: adesso basta, perché il fiumicello è così essiccato che in questo momento ha bisogno più di affluenti che di argini. Dunque, dopo questa opera di decostruzione, che è stata una grande operazione ecologica, penso che ora vi sia bisogno di un’opera di ricostruzione.

Da questo punto di vista, Natoli ha detto una cosa che mi ha stimolato: ha contrapposto un’utopia liberale, di un liberalismo che si fa carico dell’ingiustizia sociale e della promozione umana, all’utopia marxista, in quanto l’utopia liberale è immanente e si rivolge all’uomo concreto. Mi è venuto in mente quando io, in gioventù, diventato segretario della Federazione Giovanile Comunista, fui invitato una sera da Franco Rodano a casa sua. Io pensavo volesse parlare dei problemi politici ed invece la prima cosa che mi disse non appena mi misi seduto fu: <>. La discussione si fece subito impegnativa. Marx – sosteneva Rodano - è uno straordinario pensatore del movimento storico, critico del capitalismo e delle sue contraddizioni, ma funziona se lo liberiamo dagli elementi finalistici, perché nel marxismo è insita l’idea dell’uomo di farsi Dio. Invece, il marxismo senza il comunismo deve rispettare Dio. Io rimasi colpito da questo discorso. Naturalmente, nel mio furore giovanile e nella mia passione per gli scritti giovanili di Marx, sospettai. Ho voluto ricordare questo episodio, perché anche noi politici, nella nostra più modesta frequentazione degli studi, abbiamo qualche testimonianza umana da poter portare.

Quindi, attenzione a non capire quanto il sogno dell’uomo nuovo abbia a che fare con l’uomo concreto. In realtà, intendiamo una forza che agisce dentro l’immanenza della storia. E’ difficile, cioè, pensare ad un movimento politico che non sia capace di suscitare passione perché portatore di una visione del futuro depurata degli aspetti messianici. E’ difficile pensare un riformismo che non sia mosso da idee forti, valori, principi, da una visione del futuro. Altrimenti il tutto rischia di ridursi ad una ingegneria sociale che non reggerà la sfida con nessun fondamentalismo, per quanto si possa essere in grado di sviluppare un discorso razionale. Il discorso razionale, l’argomento convincente non è necessariamente quello che prevale se non è in grado di suscitare passioni e muovere speranze.

In definitiva - e sono d’accordo con Bodei quando dice che è un programma di lungo periodo - non basta riaffermare i nostri principi, che pure hanno una loro forza. Li dobbiamo nutrire della capacità di restituire alla politica respiro, potenza anche nel senso ideale. Una politica in grado di governare le contraddizioni e le paure, di costruire le condizioni della convivenza, che non basta predicare, ma ha bisogno anche di essere strutturata dagli strumenti della politica e dello Stato. Una politica capace di restituire all’Occidente una visione meno impaurita del mondo globale, più fiduciosa in un patrimonio di civiltà che, se liberato da ogni integralismo e da ogni etnocentrismo, è necessario al mondo globale: democrazia, diritti umani, diritti del lavoro.

In fondo, noi abbiamo esportato soltanto una certa parte dell’Occidente: il mercato, la produzione di massa, ecc. Ma io - in questo sarò marxista nel senso buono - ho fiducia, per esempio, che la crescita del capitalismo in Cina finirà inevitabilmente per accompagnarsi con le lotte degli operai. Si è cominciato con la rivendicazione salariale e con la richiesta di libertà, perché in verità questo coté dell’Occidente ha una grande forza universale, ma solo se sappiamo proporlo come contributo ad un mondo globale.

E vorrei finire dicendo che, in questa prospettiva, si può anche riproporre e rilanciare un dialogo fecondo tra credenti e non credenti. La rinascita del sentimento religioso, infatti, non soltanto non è un ostacolo, ma è un fattore che può concorrere a ridare forza di prospettiva alla politica. A una condizione: che i non credenti riconoscano che la ricerca della verità, cioè la ricerca del senso ultimo dell’esistenza umana, della propria esistenza individuale, costituisce non una fuga dalla realtà, non un’inutile perdita di tempo, ma un tratto di nobiltà dell’essere umano. E che i credenti riconoscano che la fede è solo una delle risposte possibili a questa ricerca di senso dell’esistenza umana, perché - come ci diceva Todorov e in questo sono d’accordo con lui - anche una morale puramente umana può fondare il senso dell’esistenza individuale nel rapporto con gli altri.

Non a caso, la definizione di sinistra che mi piace di più è <>. Ecco, io penso che in un impegno che sappia guardare agli altri, che sappia pensare il mondo e non soltanto la porzione dove ci è dato di vivere, che sappia porsi il problema delle generazioni future, vi sia la possibilità di dare un senso alla propria esistenza. Non in contrapposizione con la fede religiosa, ma in un dialogo fecondo con essa.
Grazie!

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