Discorso
4 febbraio 2009

Tavola rotonda sul tema “La politica estera italiana dagli anni 50 a oggi” -<br>Intervento di Massimo D’Alema

Convegno su “Amintore Fanfani e la politica estera italiana” -
Sala del Cenacolo, Roma


Vi ringrazio, innanzitutto, per avermi dato la possibilità di partecipare ad una iniziativa così prestigiosa, nella quale vorrei trattare della politica estera italiana a partire dal contributo fondamentale che Amintore Fanfani dette come capo di governo, prima negli anni ’50, poi nel passaggio fondamentale dell’avvio al centrosinistra. E del contributo che dette come ministro degli Esteri a più riprese, in particolare durante il secondo e il terzo Governo Moro, dal 1965 al 1968. Si tratta, infatti, di un periodo molto importante della vita politica italiana e delle relazioni internazionali. Fanfani ebbe elevate responsabilità di governo anche in altri momenti, ma credo che in quella fase egli dette un’impronta assai rilevante alla politica estera del nostro Paese.
Naturalmente quando parlo di una impronta personale e originale non mi riferisco agli indirizzi fondativi, che risalgono ad una stagione anteriore. Emilio Colombo ricordava giustamente le grandi coordinate della politica estera italiana: la scelta atlantica, la scelta europea e, aggiungerei, l’impegno attivo dell’Italia che vide Fanfani protagonista non secondario nella costruzione di un ordine internazionale imperniato sul sistema delle Nazioni Unite. In questo senso, direi che tali fondamenti hanno persino una premessa costituzionale. L’art. 11 della Costituzione, infatti, configura la nostra Repubblica come un Paese che si predispone ad un’integrazione internazionale e che fa dell’accettazione del sistema delle Nazioni Unite, dell’integrazione europea, dei vincoli derivanti dall’appartenenza a questo sistema e alle alleanze internazionali un suo proprio cardine.
Le scelte fondanti, dunque, furono precedenti e senza dubbio ebbero in Alcide De Gasperi il grande protagonista. Ma Fanfani fu l’uomo che interpretò queste decisioni fondamentali e cercò di caratterizzare in questo ambito, ovviamente senza forzare le principali coordinate della politica estera italiana, un ruolo più attivo, creativo e dinamico del nostro Paese. Tanto da essere definito da qualcuno, a volte, un velleitario.
Fanfani volle dare una interpretazione – come è stato scritto – non claustrofobica dell’Alleanza Atlantica, con lo sforzo di ritagliare per l’Italia una funzione attiva nell’avvio di una politica di distensione e dialogo con il blocco dell’Est e con l’Unione Sovietica. E nel Mediterraneo volle promuovere una politica attenta al processo di decolonizzazione, in grado di fare dell’Italia un Paese del dialogo nei confronti di movimenti nazionali e di farle giocare un ruolo di primo piano, in uno sforzo di mediazione che fu esercitato in modo assai intraprendente e coraggioso in alcune circostanze non irrilevanti. Mi riferisco al rapporto con il mondo arabo all’indomani o nel corso della crisi di Suez, e al rapporto Est-Ovest a ridosso della crisi di Cuba e dei missili.
Ora non vi è dubbio che questo dinamismo fanfaniano interpretava, evidentemente, anche una spinta culturale più ampia, in particolare un’aspirazione del mondo cattolico a rendersi protagonista, in uno scenario segnato dalla guerra fredda, di processi di distensione, di pace. In questo senso, è stato ricordato il legame assai forte tra l’azione politica di Fanfani e l’azione che, su un piano più culturale, ha sviluppato un uomo come Giorgio La Pira. Penso ai “Colloqui Mediterranei”, ma anche all’azione che egli intraprese nei confronti della guerra nel Vietnam, per la ricerca di una soluzione negoziata. Fanfani fu sicuramente, nel mondo democristiano, uno degli interpreti più attenti di queste spinte, di questi sentimenti, di queste aspirazioni che venivano dal mondo cattolico e cercò di dar loro una forma politica.
Nello stesso tempo, la ricerca di uno spazio italiano nasceva anche dalla necessità del nostro Paese di evitare di rimanere prigioniero di una logica direttoriale che certamente avrebbe stretto l’Italia in una posizione subalterna: non dimentichiamo, in sede atlantica, il rapporto speciale fra Stati Uniti, Regno Unito, Francia e, poi, Germania. O il rischio di esclusione, in sede europea, a causa di quella visione franco-tedesca a cui noi abbiamo sempre intelligentemente contrapposto una strategia dell’integrazione politica dell’Europa, considerata fortemente rispondente agli interessi nazionali.
In realtà abbiamo vissuto, nel corso di tutta la nostra vicenda di questo dopoguerra, il timore di essere il primo degli esclusi. Ad esempio, essere il primo degli esclusi da un vertice internazionale a quattro che, come ci ha ricordato Colombo, fu evitato dall’iniziativa italiana. Oppure il primo degli esclusi da una riforma del Consiglio di Sicurezza che, assegnando seggi permanenti alla Germania e al Giappone, lascerebbe solo l’Italia tra gli sconfitti della seconda guerra mondiale. Una condizione, insomma, difficilmente accettabile per un Paese come il nostro.
La politica di Fanfani fu ugualmente guidata dai fondamentali interessi nazionali quando si rivolse al versante del Mediterraneo. Non dimentichiamo che l’Italia, Paese dipendente per quanto attiene all’approvvigionamento delle materie prime, ha fatto del rapporto con il mondo arabo una condizione essenziale per la propria sicurezza energetica e per dare una solida base ad una propria politica di sviluppo economico. Anche qui, è difficile pensare all’azione mediterranea di Fanfani come separata dal ruolo che l’Eni di Enrico Mattei ebbe in quegli stessi anni.
L’Eni fu, in qualche modo, strumento e beneficiario di una politica estera di dialogo con il mondo arabo. Una politica che, con una certa spregiudicatezza e non senza tensioni nel campo occidentale, in particolare con la Francia, portò l’Italia a sostenere i movimenti di liberazione. D’altra parte l’Italia era favorita, in questo, dal ruolo limitato avuto nella fase del colonialismo, a differenza di potenze coloniali europee quali la Gran Bretagna e la Francia. Non a caso, il sostegno al fronte di liberazione algerino fu la premessa di un rapporto di non lieve entità con l’Algeria, alla quale oggi siamo legati da ben due gasdotti. C’e’ un interessante volume di Ivano Russo, giovane studioso che lavora con la Fondazione Italianieuropei, che ricostruisce le tensioni nel rapporto italo-francese, tra Fanfani e De Gaulle.
Parliamo di una politica estera che ha fatto del dialogo con il mondo arabo e del sostegno ai movimenti di liberazione nazionale un punto di peculiarità italiana e senza caratteri anti-americani. E’ molto interessante questo movimento della politica atlantica, che non fu mai interpretato, nella visione di Fanfani, in tono anti-americano. Semmai, il rapporto speciale con gli americani serviva a bilanciare un certo rischio di emarginazione del nostro Paese in Europa. Dunque, iniziative che guardavano al rapporto con gli Stati Uniti come una chiave per il possibile successo. Questo e’ valso sia per il tentativo di mediazione su Suez, dove senza dubbio gli americani giocarono un forte ruolo di contenimento dell’iniziativa anglo-francese, sia nel rapporto con l’Algeria, sia nel tentativo di attuare una politica mediorientale. Operazione, quest’ultima, resa più difficile dal rapporto cruciale tra Stati Uniti ed Israele.
Questa interpretazione - ripeto - non metteva in discussione le coordinate di fondo, atlantismo, europeismo, fedeltà ad un sistema di alleanze occidentali. Tuttavia interpretava in modo più dinamico il ruolo dell’Italia in quel contesto, come Paese di frontiera, in grado persino di trasformare un problema italiano, e cioè la presenza di un grande partito comunista, in una risorsa, in una opportunità sulla linea di uno spazio italiano verso una politica di distensione.
Credo che in tutto ciò vi sia stata una grande forza della classe dirigente democristiana, certo con alcune articolazioni. Ad esempio, uomini come Segni o come il non democristiano Martino interpretavano una visione più ortodossa dell’atlantismo. E credo che anche qui non vada sottovalutato, in una visione più dinamica e neoatlantica, il peso che ebbe il Quirinale sotto la presidenza Gronchi, il quale, per certi aspetti, si spinse anche oltre in questa interpretazione dinamica, con iniziative che, in alcuni momenti, posero qualche problema nel rapporto con gli alleati.
Ora, compiendo un salto, vorrei dire che il contributo di Fanfani in questa interpretazione più dinamica delle grandi scelte della politica estera sia stato determinante non solo per quanto riguarda le decisioni della Democrazia Cristiana. Penso, infatti, anche alla politica estera del Partito Socialista o alla politica estera di Craxi nel rapporto con il mondo arabo. Da questo punto di vista non trovo una soluzione di continuità. Trovo una sostanziale continuità.
Ritengo questo lascito un patrimonio importante e positivo, al quale contribuì anche il Pci di Enrico Berlinguer. Non c’è dubbio, infatti, che se noi siamo arrivati alla metà degli anni ’70 ad una così larga condivisione dei valori fondamentali dell’atlantismo e dell’ europeismo, che prima avevano costituito motivo di divisione nel campo politico italiano, ciò fu innanzitutto grazie alla maturazione della posizione del Pci sotto l’impulso di Berlinguer e al progressivo prendere le distanze dall’Unione Sovietica. Ma, d’altra parte, in questo percorso il Pci fu anche aiutato da una visione, così forte nel mondo cattolico e democratico italiano, di un’Italia certamente atlantica, certamente alleata degli americani e, nello stesso tempo, attivamente impegnata per la distensione, per un processo di pace nel Mediterraneo. Insomma questa interpretazione del ruolo dell’Italia nell’Alleanza Atlantica e nell’integrazione europea fu, per il Partito Comunista, qualcosa che facilitò l’adesione ad una scelta atlantica ed europeista.
Continuo a pensare che questo patrimonio rimane ancora oggi, nelle condizioni mutate, un importante fondamento. E’ evidente che l’Italia del dopo 1989 è alla ricerca di un proprio ruolo, venendo meno, in definitiva, quella funzione di Paese di frontiera nel dialogo tra i due blocchi, quella posizione cruciale nell’Alleanza Atlantica e nel sistema di alleanze occidentali. Un Paese difficile, ma che, per la sua collocazione geo-politica, era stato al centro dell’attenzione internazionale.
Il rischio di una marginalità in un mondo in cui vanno rapidamente ridefinendosi equilibri, in cui emergono nuovi protagonisti, è stato e resta molto forte. Un rischio al quale si reagisce da un lato rafforzando i legami tradizionali. A questo proposito continuo a pensare che il rapporto con gli Stati Uniti sia per noi una forte assicurazione, una importante garanzia che l’Italia sia tra gli interlocutori che contano, rispetto ai maggiori Paesi europei che spesso sono i primi a pensare di escluderci dai tavoli che contano. Dall’altro lato, però, molto dipende dalla nostra capacità di avere una iniziativa in quella parte di mondo dove esercitiamo una più diretta responsabilità, il Mediterraneo allargato. In questa parte di mondo, l’iniziativa italiana è legata alla capacità di essere un Paese che promuove dialogo e processi di pace.
In questi ultimi quindici anni di cosiddetta seconda Repubblica, che tante volte ci fa rimpiangere la prima, sostanzialmente in due momenti l’Italia ha avuto un ruolo internazionale di grande rilevanza. Il primo e’ stato nel corso della crisi dei Balcani, quando indubbiamente, nel tentativo di favorire la pacificazione in una terra dilaniata dalle guerre civili, l’Italia giocò un ruolo da protagonista. In quel conflitto, l’Italia fece la sua parte, con sofferenza, all’interno del sistema delle alleanze occidentali, ma anche sviluppando un dialogo, in uno sforzo di mediazione che fu una delle ragioni della funzione importante che svolgemmo. In quel caso si trattava di essere membri del gruppo di contatto e al comando di una missione internazionale sotto bandiera italiana, cosa che non era mai capitata prima di allora.
Il secondo momento è stato il Libano, quando, anche approfittando di una fase di difficoltà della diplomazia francese nell’ultimo scorcio della presidenza Chirac, noi abbiamo preso la leadership di un’azione per la pace e poi il comando di una missione che riportava le Nazioni Unite in Medio Oriente, in un teatro così tormentato e così drammatico.
Non c’è il minimo dubbio, quindi, che anche l’Italia di oggi ha giocato un ruolo importante quando si è mossa su una linea che definirei “fanfaniana”, cioè non sulla linea di una ortodossia, bensì di una piena lealtà e collaborazione. Sia nei Balcani che in Libano abbiamo collaborato innanzitutto con gli Stati Uniti d’America, senza i quali nessuna iniziativa avrebbe avuto successo. Fu più semplice nei Balcani, fu un po’ più complicato in Libano, ma la Conferenza per la Pace si fece a Roma per volontà del Dipartimento di Stato. Altrimenti sarebbe stata pura velleità.
Dunque, collaborazione con gli Stati Uniti e capacità di dialogo con gli altri, in una interpretazione dinamica della nostra funzione. Anche ai fini di una politica occidentale, infatti, serve un’Italia il grado di dialogare con gli altri. Un’Italia che non abbia queste capacità non serve neppure all’Occidente. Penso che Fanfani lo avesse capito e che abbia svolto questo ruolo con molto coraggio nel suo tempo. Per questo ritengo che la sua lezione resti per molti aspetti attuale.

Grazie

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