Discorso
26 settembre 2009

“INTELLETTUALI E PARTITI POLITICI NELLA STORIA DELLA REPUBBLICA” – GIORNATA DI STUDIO IN ONORE DI UGO SPAGNOLI

Aula Magna dell’Università degli Studi di Torino



Intervento di Massimo D’Alema

Siamo chiamati a parlare del tema del rapporto tra intellettuali e politica oggi, in un clima reso mesto da un senso di nostalgia, dal contrasto tra un’epoca d’oro e la desolazione del presente. Sono in un’età nella quale si potrebbe anche cedere a questo sentimento, avendo cominciato molto giovane e avendo vissuto un tratto non breve della storia della Prima Repubblica. Ma l’esercizio della politica è incompatibile con questo sentimento e credo che l’insegnamento di quella generazione riguardi innanzitutto il fatto che il cedevi sia colpa grave, alla quale chi partecipa alla lotta politica non può indulgere. In fondo, l’etica del politico è ben riassunta da Max Weber, quando dice: andare avanti, nonostante tutto.
Ho ascoltato e ho riflettuto sull’introduzione di Luciano Violante. C’è solo una parola che non mi è piaciuta. Quando, a conclusione della sua introduzione, egli dice: “Ugo fu fedele ai valori, non alla burocrazia”. Una delle ragioni del rapporto fra intellettuali e politica fu proprio nel fatto che, allora, non c’era una burocrazia, ma c’erano le classi dirigenti, in grado di misurarsi con le forze intellettuali, di coinvolgerle, di sostenere un dibattito vero. E’ difficile ricostruire il rapporto con una figura come quella di Ugo Spagnoli e dei tanti intellettuali che entrarono in relazione con la politica, in quel tempo, senza considerare che, dall’altra parte, c’era una classe dirigente, capace di comprendere il valore del contributo intellettuale e misurarsi con esso.
A questo proposito, vorrei fare un’altra osservazione, prima di passare ai tempi nostri. Credo sia necessario guardare con serietà alla crisi di questo rapporto non soltanto dal lato, innegabile, della crisi dei partiti. A mio parere, infatti, vi è anche una crisi della cultura italiana e, in particolare, un distacco della cultura rispetto al grande tema del destino del nostro Paese. Voglio dire che, a partire dagli anni Ottanta, accanto alla crisi della politica, al suo impoverimento, al dissolvimento dei partiti, alla sostituzione dei grandi partiti popolari, che avevano una struttura culturale forte, con i partiti carismatici e personali, c’è anche una crisi della cultura italiana nel senso di una caduta della capacità delle forze intellettuali fondamentali del Paese. Questo non significa, naturalmente, che non vi siano tanti casi di intellettuali di valore che hanno dato un grande contributo, ma mi riferisco a qualcosa che non è soltanto legato all’impegno dei singoli.
Mi riferisco alla partecipazione della cultura italiana, delle sue grandi componenti , che ha caratterizzato il dopo guerra, dall’esperienza dell’antifascismo, fino alla fine degli anni Settanta. Questi non sono solo gli “anni di piombo”, ma anche gli anni in cui si esaurisce la “spinta propulsiva” della prima Repubblica . Si esaurisce la capacità di quel sistema politico di interpretare l’esigenza di sviluppo e di crescita di quel Paese. Da quel momento in poi, si apre anche un varco tra la cultura italiana e il destino dell’Italia. Ciò è stato rievocato con una bellissima parola: viene meno quella “allegria” di chi si sente parte di una speranza di miglioramento del Paese e una parte del mondo intellettuale ripiega nelle sue specializzazioni. Quando il rifugio nelle specializzazioni, per cui si ha massimo rispetto, diventa anche un modo per distaccarsi dalla vita civile e sociale nel suo insieme, esso si trasforma in una forma di separatezza. Intendo quel “prezzolinismo” anche di sinistra, per cui si dice: non c’è niente da fare. Oppure quel cosmopolitismo di chi, appunto, si pensa cittadino del mondo perché oramai vive il suo essere italiano con un certo disincanto.
Sono convinto che è fondamentale che si riallacci un rapporto tra il mondo intellettuale, soprattutto della nuova generazione, e la politica, le istituzioni. E che si rimettano in movimento energie profonde intorno al tema del futuro dell’Italia. Reinventare i partiti, certo, è uno dei compiti, ma forse siamo di fronte a qualcosa di più vasto. Si tratta di capire in quale direzione questa lunga e confusa transizione italiana debba indirizzarsi, come completare un’opera di riorganizzazione delle istituzioni, come ripensare lo spazio dell’Italia in un mondo che sta tumultuosamente cambiando. Il che è una grande opera di cultura, oltre che di politica, in tutti i campi: dalla cultura tecnico–scientifica e dalla innovazione produttiva, alla cultura giuridica e storico-filosofica.
Noi non abbiamo la percezione esatta del momento che il nostro Paese sta vivendo. Nel dopo guerra siamo stati la quinta, la sesta potenza industriale del mondo. Il mondo è cresciuto, ma, tutto sommato, il gruppo dei Paesi occidentali più ricchi ha detenuto la gran parte della ricchezza. Il che ci ha assicurato una posizione economica e politica di primato, siamo membri del G7. Adesso si è aperto un periodo tumultuoso nel quale l’Italia, in 15 anni, diventerà ventesima. Dopo sessant’anni, questa e’ la fotografia di quello che sta succedendo. Stiamo dentro un processo tumultuoso di riorganizzazione del mondo, per cui si tratta di capire che posto, questo Paese, riuscirà ad occupare. Questo tema è totalmente fuori dal dibattito politico, ma anche dal dibattito intellettuale.
Anche il mondo cattolico aveva i suoi intellettuali organici, in una forma diversa rispetto al Pci, ma non si può capire la Dc senza quei centri di cultura e di elaborazione, quelle grandi riviste e scuole. Certo, è difficile pensare che si possa tornare ad un rapporto di quel tipo, ma voglio portare l’esempio di un sistema politico completamente diverso dal nostro: gli Stati Uniti. Qui ci sono partiti che non hanno nulla a che vedere con la tradizione dei grandi partiti europei ed italiani. In questi anni, il dibattito tra le forze intellettuali sul destino dell’America, il conflitto tra il pensiero neoconservatore e il pensiero democratico ha riguardato un confronto intellettuale di altissimo livello, che ha impegnato tutte le forze culturali fondamentali di quel Paese. Non si può capire la politica neo conservatrice senza andare a leggere i saggi di studiosi, filosofi, pensatori, politologi che l’hanno ispirata. E, dall’altra parte, il pensiero democratico.
Quindi non è vero che il rapporto tra intellettuali e politica ha necessariamente bisogno di quel tipo di partito, a cui difficilmente si può tornare. Viceversa ha, certamente, bisogno di una classe dirigente politica e intellettuale, potrei aggiungere economica e imprenditoriale, in grado di dare corpo ad una riflessione, ad un confronto sulle grandi questioni che riguardano il futuro del Paese. Oggi questo, nel nostro Paese, purtroppo, manca. Anche l’informazione tende a banalizzare …
Ieri ho partecipato ad un convegno con Giuseppe Pisanu e Pier Ferdinando Casini. Abbiamo parlato di alcuni problemi italiani: della politica estera alla luce della tragedia in Afghanistan, di come affrontare il tema dell’immigrazione. Abbiamo suggerito alcune proposte, anche di carattere legislativo. Ebbene, oggi non c’è un solo articolo dove si riporti un contenuto di ciò che è stato discusso in quella sede. La politica o produce risse, e quindi è censurabile, oppure dialoga e produce inciuci, e quindi e’ altrettanto censurabile. Se questa è la raffigurazione che viene data, se il dibattito pubblico viene forzosamente ridotto a questo schema e tutto ciò che non sta in esso viene espunto, e’ chiaro che si produce un distacco con la società. Ogni contenuto, ogni idea, ogni proposta è rigorosamente esclusa, è considerata una non-notizia, e’ considerata fuori dai confini del dibattito pubblico.
Gianfranco Fini per parte sua ed io per parte mia, ci siamo impegnati per dar vita a istituzioni che mantengono un rapporto tra ricerca e impegno politico. La Fondazione Italianieuropei esiste da undici anni ed e’ apparsa come se fosse stata creata nel mese scorso per dare fastidio a questo o a quel segretario del mio partito. Se noi pubblichiamo un libro che contiene contributi di intellettuali e studiosi di grandi livello, come abbiamo fatto in questi giorni sulla questione del lavoro, non rappresenta una notizia. Solo se nella conferenza stampa di fa una battuta contro qualcuno, allora si può avere la speranza di un titolo. Noi facciamo uno sforzo di elaborazione, discussione, confronto, in sedi nelle quali, fermo restando la differenza delle posizioni, non si rinuncia al dialogo con l’altra parte. Certo, là dove è possibile dialogare, dove almeno esistono basi linguistiche comuni … Insomma, conduciamo una ricerca molto aperta, senza nessuna barriera ideologica. Discutiamo con tutti, sulla base di un rigoroso e generoso criterio meritocratico, non di opinione. Ma questo tipo di attività, che considero preziosa perché getta le basi per un funzionamento virtuoso del sistema politico e del suo rapporto con la società, è del tutto marginale rispetto ad una tendenza alla semplificazione e all’imbarbarimento del dibattito pubblico.
I modelli del rapporto tra ricerca, forze intellettuali, partiti sono molto diversi nel mondo. C’è il modello tedesco delle grandi fondazioni, che sono parte integrante dei partiti politici, retroterra di elaborazione, ma anche luoghi di formazione della classe dirigente, che hanno un carattere pubblico perché finanziate dallo Stato. C’è l’esperienza francese dei club, che, viceversa, non fanno capo ai partiti, ma alle singole personalità, un po’ come in Italia. C’è l’esperienza americana della organizzazione di istituzioni culturali di area. Non credo che noi torneremo ad avere istituti culturali dei partiti e ci deve essere un certo pluralismo.
Il problema, che riguarda davvero il funzionamento dei partiti, è se essi sanno guardare a questo sforzo di elaborazione in modo aperto. Finora questo è avvenuto molto casualmente e, a mio giudizio, in una maniera del tutto insufficiente. C’è qualche caso felice: Fare Futuro e Italianieuropei, ad esempio, l’anno scorso hanno promosso un convegno sul federalismo alla vigilia della discussione parlamentare della legge delega sul federalismo fiscale. Alcuni contenuti di quel convegno hanno concorso a migliorare la legge delega.
Insomma, il lavoro di ricerca solo raramente riesce a filtrare e questo è un punto delicato, perchè gli intellettuali possono anche accettare di non avere onori , ma c’è una cosa a cui non possono acconsentire: che il loro impegno non abbia possibilità di interlocuzione, non sia in grado di incidere sui processi legislativi, sulle scelte politiche … Il problema, a mio avviso, è dunque questo: non tanto il tornare ad avere intellettuali organici, quanto piuttosto il guardare ai centri di elaborazione, che ci sono, e valorizzarne il lavoro non in termini retorici, ma nella capacità di trarre da quell’impegno di ricerca, contenuti che arricchiscano e qualifichino la decisione politica. E’ questo circuito che bisogna rafforzare.
Da questo punto di vista, sono interessato al congresso del mio partito anche come presidente di una fondazione culturale, perché spero che si apra un nuovo ciclo, nel quale si prenda coscienza che costruire un grande partito nuovo è, in primo luogo, un’opera di cultura. Se si apre un processo di questo tipo, credo che ci sia più spazio per tutti ed anche più senso al lavoro che svolgiamo.
Grazie.

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