Discorso
22 febbraio 2010

LA SINISTRA EUROPEA OLTRE LA CRISI - LE SFIDE CRUCIALI DEL PROSSIMO DECENNIO (VERSIONE ITALIANA)

THE EUROPEAN LEFT BEYOND THE CRISIS : CHALLENGES OF THE NEW DECADE
Public lecture – London School of Economics and Political Science


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Cari amici,
ringrazio gli studenti italiani e la London School per l’invito che mi è stato rivolto a parlare di un tema così impegnativo. Non si tratta certamente di una riflessione semplice in un momento nel quale la sinistra europea appare investita da una profonda crisi e impegnata nella ricerca di nuovi obiettivi e nuovi fondamenti culturali in grado di aprire un orizzonte di rinnovamento e di rilancio. Nelle recenti elezioni europee i partiti socialisti, laburisti e socialdemocratici sono stati pesantemente sconfitti e all’interno dei diversi paesi dell’Unione, in particolare di quelli più grandi, le prospettive politiche della sinistra ci appaiono assai problematiche. Sembra essersi consumata una grande stagione che ha visto la socialdemocrazia europea protagonista della trasformazione e del governo delle nostre società; eppure questo fenomeno si presenta oggi a noi non come l’esito ragionevole di una vittoria della cultura liberista sulla tradizione socialista, ma al contrario come un sorprendente paradosso. La sinistra arretra infatti proprio nel momento in cui la grande crisi finanziaria, economica e sociale chiude il ciclo di una globalizzazione senza regole dominata dall’ideologia ultraliberale.
Tramonta l’illusione dogmatica dell’infallibilità del mercato. Al centro del dibattito pubblico tornano idee fondamentali che sono proprie della tradizione socialista. Anzitutto la necessità che siano la politica e le istituzioni democratiche a orientare e regolare lo sviluppo economico perché solo a questa condizione lo sviluppo capitalistico si concilia con i principi della democrazia, della giustizia sociale e della tutela delle libertà individuali. Si riscopre che non è il denaro che produce denaro così come ha voluto far credere l’oligarchia finanziaria dominante, ma è il lavoro che produce la ricchezza e il valore come scrivevano i nostri classici. Il mondo uscirà dalla crisi profondamente trasformato e certamente siamo all’inizio di una fase nuova della globalizzazione economica nella quale avranno un peso maggiore le esigenze dell’eguaglianza e della promozione umana.
Anche su piano politico è in corso un grande cambiamento. Anzitutto il cambiamento in atto negli Stati Uniti d’America. Si è conclusa la stagione neoconservatrice, quella delle decisioni unilaterali e delle politiche aggressive. La nuova Amministrazione annuncia una svolta: la ricerca di un dialogo con il mondo islamico; un rinnovato impegno per la pace in Medio Oriente. Si mette l’accento sulla necessità del dialogo, sulla prevalenza dell’uso del soft power occidentale o, per lo meno, di uno smart power che non si affidi soltanto all’uso brutale della forza. Si annunciano la chiusura di Guantanamo e la fine di una stagione nella quale, nel nome della lotta al terrorismo, è stata giustificata la tortura e la violazione dei diritti umani. Si afferma, finalmente, una visione multilaterale dell’ordine internazionale e, in questo quadro, la necessità di una partnership più equilibrata fra USA e UE. Certo sono evidenti anche le difficoltà della nuova politica americana: la durezza dello scontro in Afghanistan; la escalation della tensione con l’Iran e soprattutto lo stallo del processo di pace in Medioriente per la fragilità e le divisioni del campo palestinese e per l’intransigenza nazionalista della leadership israeliana. Ma proprio di fronte a queste difficoltà appare evidente la debolezza dell’iniziativa europea; l’incapacità della UE di proporsi come un partner attivo ed efficace. Siamo quasi di fronte ad una sorta di dichiarazione unilaterale di multilateralismo da parte della nuova amministrazione americana mentre sempre di più l’unico grande partner globale degli Stati Uniti sembra essere la Repubblica Popolare Cinese. Questa situazione nasce anche dalla sconfitta e dalla debolezza della sinistra in Europa mentre – ecco il paradosso di cui ho parlato - tornano ad essere necessarie le nostre idee, persino quelle che noi stessi avevamo dimenticato o che sostenevamo con molta timidezza considerandole ormai passate di moda.
Di fronte a questa grande svolta sembra proprio il socialismo in Europa a essere più in difficoltà. Gran parte del nostro continente è oggi governata da una leadership conservatrice e il declino della destra neoliberista sembra andare non a vantaggio dei progressisti ma, in molti paesi europei, a vantaggio di un’altra destra nazionalista, populista, talora apertamente reazionaria e razzista. Eppure, mentre in Europa accade questo, nel resto del mondo sono le grandi forze progressiste che guidano l’impegno per aprire una nuova prospettiva oltre la crisi e gettare le basi di una nuova stagione economica e politica. Sono i Democratici negli Stati Uniti d’America e in Giappone, così come sono progressisti di diversa natura i leader e i partiti alla guida dei grandi paesi emergenti dall’India al Brasile all’Africa del Sud.
Una riflessione particolare merita la realtà della Cina. La Cina ha rappresentato in questi anni uno dei fenomeni più travolgenti della globalizzazione e della crescita mondiale. Il mix di autoritarismo e di liberismo già sperimentato in altri paesi asiatici ha sostenuto lo sviluppo impetuoso dell’economia cinese. Rispetto alla utopia di Gorbaciov che pensava di potere tenere insieme il socialismo in economia e la democrazia politica i cinesi hanno rappresentato una soluzione esattamente opposta unendo la dittatura del Partito comunista alle ragioni del mercato e dello sviluppo capitalistico. Ma anche il modello cinese appare messo in discussione dalla crisi attuale perché sono venuti in evidenza gli squilibri e le contraddizioni di una crescita basata sull’esportazione e sulla compressione del mercato interno. Appaiono oramai insostenibili gli squilibri crescenti fra città e campagna e il livello infimo delle retribuzioni. La risposta cinese alla crisi si orienta verso un recupero di politiche che hanno caratterizzato l’esperienza socialdemocratica in Europa. Può sembrare strano che i comunisti virino a sinistra diventando socialdemocratici, ma ciò che si sta muovendo in Cina sembra andare proprio in questa direzione. La crescita di quest’anno è stata pari all’8,9%. Una crescita che, malgrado la brusca caduta delle esportazioni, è stata sostenuta dagli investimenti e dai consumi interni; perché stanno crescendo i salari e si stanno investendo risorse importanti nel campo dell’assistenza sanitaria e nel campo della previdenza. Insomma certe conquiste che nella vecchia Europa si vorrebbero oramai passate di moda cominciano invece a contagiare mondi lontani.
Perché invece proprio qui nella vecchia Europa sembra essere così difficile la sfida per i progressisti? Proprio qui in questa parte del mondo che ha visto nei secoli scorsi l’affermazione più alta dei valori democratici, dei principi della giustizia sociale e delle libertà individuali? Sembra ripetersi la divisione degli anni Trenta del secolo scorso quando di fronte alla grande crisi e alla grande depressione, in America si affermò il new deal mentre nel cuore dell’Europa prevalsero il nazionalismo, il fascismo e l’antisemitismo. Naturalmente non penso che oggi possa ripetersi la tragedia di allora e tuttavia il rischio è che il nostro continente si avvii verso un declino non solo economico ma anche politico, civile e culturale. Il rischio è che l’Europa, nel nuovo mondo che uscirà dalla crisi, conti di meno e che si appanni anche il ruolo della nostra cultura e della nostra civiltà.
Un acuto sociologo francese Dominique Moïsi ci ha descritto un mondo di oggi diviso tra 3 sentimenti: la speranza, che anima i grandi paesi che si affermano come nuovi protagonisti sulla scena mondiale, il rancore degli esclusi e dei perdenti, e la paura dei più ricchi che temono di perdere i loro privilegi. L’Europa è per eccellenza il continente della paura. Il timore dell’aggressiva competitività delle economie asiatiche; la paura degli immigrati che sconvolgono la nostra organizzazione sociale e che, soprattutto oggi con la crisi e la disoccupazione, appaiono ai più poveri come un nemico e una minaccia; la paura del terrorismo e dell’Islam che hanno accresciuto la sensazione di vivere in una fortezza assediata e il bisogno di ricollegarsi a un’identità civile e religiosa forte e radicata.
La destra ha fatto di queste paure la sua forza e si è presentata, in molti paesi, proprio alle classi sociali più deboli, come la forza in grado di proteggere le persone e di garantire gli interessi e i valori costituiti.
Nella seconda metà degli anni Novanta, la grande maggioranza degli europei si rivolse a noi, ai socialisti e al centrosinistra per cercare una risposta e una difesa di fronte alle sfide della globalizzazione. Ma noi non siamo stati complessivamente in grado di dare una risposta positiva alla domanda di questa larga opinione pubblica. I socialisti europei si sono sostanzialmente divisi di fronte a questa sfida. In alcuni paesi e in alcuni partiti ha prevalso l’illusione che gli effetti della globalizzazione potessero essere contenuti e che si potesse difendere l’assetto sociale frutto del secolo socialdemocratico e del welfare state. Dall’altra parte vi sono stati partiti e leader che hanno invece cavalcato con entusiasmo il capitalismo globale; che hanno innovato il nostro lessico: non hanno più parlato di employment preferendo l’espressione employability, hanno sostituito la parola tutela con la parola opportunità, hanno lasciato da parte la parola welfare parlando di education. Tutti noi abbiamo – chi più chi meno – avvertito l’influenza di questa innovazione che ha avuto la sua origine soprattutto nel New Labour. Certamente questo ci ha aiutato ad assicurare ai socialisti ancora una stagione di governo. In più credo che ciò abbia rappresentato una reale e necessaria modernizzazione della nostra cultura. Tuttavia non siamo riusciti a porre rimedio alle diseguaglianze sociali crescenti generate dallo sviluppo senza regole del capitalismo globale e siamo apparsi sostanzialmente nel solco di una cultura neoliberale e quindi coinvolti anche noi tra le forze responsabili della crisi di oggi.
Il problema è che il socialismo europeo, sia nelle sue componenti più tradizionali, sia nei settori più innovativi, non è riuscito, di fronte alla globalizzazione, ad andare oltre all’orizzonte del riformismo nazionale. In particolare – questa è la mia opinione – la grande opportunità legata al processo d’integrazione politica dell’Europa è stata colta solo in piccola parte. Dopo l’avvento della moneta unica sarebbe stato il momento per un salto di qualità. Era necessario coordinare le politiche in materia di sviluppo, ricerca e innovazione e armonizzare le politiche fiscali e di bilancio. Era necessario costruire una vera Europa sociale e governare insieme ed in modo solidale la sfida dell’immigrazione. Era necessario quindi rafforzare il bilancio e i poteri dell’Unione europea aprendo la strada a un “riformismo europeo” capace di superare i limiti dell’esperienza degli stati nazionali. Questa era la prospettiva che era stata indicata da Jacques Délors.
Non dimentichiamo che in quel momento 11 paesi su 15 dell’Unione erano guidati da leader socialisti. Cercammo di indicare una nuova via con il Consiglio europeo di Lisbona. Ma quel programma riformista che pure era coraggioso non era sostenuto da istituzioni forti, risorse adeguate, una chiara volontà politica.
La sfida del mondo globale sta proprio nella capacità di governare i processi a livello sovranazionale. Noi europei abbiamo la forma democratica più avanzata per il governo della globalizzazione. Sarebbe interesse innanzitutto dei socialisti e dei progressisti valorizzare e rafforzare le istituzioni dell’Unione. In fondo la destra crede nelle virtù taumaturgiche del mercato. Ma anche noi abbiamo fatto un uso timido e insufficiente delle potenzialità dell’Unione europea e non è un caso che il declino dell’europeismo nella coscienza dei cittadini europei, sottolineato dell’esito dei referendum in Francia, Olanda e Irlanda, coincida con la caduta dell’influenza socialdemocratica in molti grandi paesi del nostro continente. Per la destra le cose sono in definitiva più semplici. La destra che abbiamo di fronte ha una visone strumentale e riduttiva dell’Europa legata agli interessi ed alle convenienze dei singoli stati. Le istituzioni europee si presentano per loro fondamentalmente come il luogo in cui ricercare un confronto e una mediazione tra i governi. C’è un forte ritorno nazionalista. Allo smarrimento degli individui nella “società liquida”, alla sfida difficile della convivenza con persone di altre razze e di altre civiltà, la destra risponde offrendo soluzioni semplici anche se regressive: la riscoperta delle radici identitarie, del rapporto con il territorio; l’uso politico della religione (la tradizione giudaico-cristiana europea) spogliata della sua carica universalistica e ridotta a religione dell’Occidente nel conflitto con le altre civiltà. Al malessere dei lavoratori e dei ceti produttivi, la destra reagisce alimentando illusioni protezionistiche o sollecitando l’ostilità verso gli immigrati o la rivolta verso forme di solidarietà sociale (come in Italia quella tra il Nord ricco e il Mezzogiorno meno sviluppato).
Queste risposte hanno indubbiamente la forza della brutale semplificazione della realtà. Esse sono sostanzialmente illusorie e portano con sé anche un rischio di mistificazione e di violenza; ma fanno breccia in particolare nei settori popolari più deboli che si sentono più impauriti e meno protetti nella difesa delle loro tradizionali acquisizioni. Non basta certamente denunciare questo inganno se la socialdemocrazia e il centrosinistra non vogliono ridursi a rappresentare una minoranza più illuminata e più protetta (insegnanti, lavoratori pubblici, pensionati o quella borghesia intellettuale che ha cultura e buoni sentimenti e per di più vive nei quartieri dove non ci sono né immigrati né rom).
Vorrei dire allora – senza che sembri che io sia troppo arcaico – che il primo grande problema per i progressisti è di rimettere con forza le radici nel popolo: a cominciare dalla capacità di riscoprire il conflitto sociale nelle sue forme moderne e di dare rappresentanza al mondo del lavoro e ai suoi interessi. Mai come in questo momento è apparso chiaro quanto il lavoro – non soltanto il lavoro dell’operaio ma anche quello dell’artigiano e del piccolo imprenditore – sia stato penalizzato dallo sviluppo distorto degli ultimi 15 anni che ha avvantaggiato la rendita finanziaria e la speculazione. Se è vero che il protezionismo sarebbe una risposta egoista e insostenibile alle difficoltà dei sistemi produttivi europei e al disagio sociale dei nostri operai, è anche vero che alla necessaria apertura dei mercati non può che corrispondere un’espansione dei diritto sociali e del lavoro. Abbiamo vissuto lo scorso anno la grande lezione del disastro derivante dalla deregulation finanziaria. Cerchiamo di prevenire i prevedibili disastri che stanno per capitare per effetto della deregulation sociale o ambientale.
La crisi non è stata un incidente di percorso dovuto agli errori di calcolo o all’ingordigia senza scrupolo di qualche banchiere; essa ha messo in evidenza un vuoto di regole e di controlli che è in definitiva l’espressione di un deficit di democrazia dovuta alla asimmetria tra la crescita di un’economia mondiale e la debolezza delle istituzioni internazionali o l’inadeguatezza dei vecchi stati. Il tema della democrazia torna ad essere centrale nella visione dei progressisti ed anche fondamentale per ristabilire un rapporto forte con le opinioni pubbliche dei nostri paesi. A tutti i livelli: democrazie dei lavoratori nelle aziende, democrazia dei consumatori, dei risparmiatori e degli utenti, come diritto alla partecipazione, al controllo e alla trasparenza.
La crescita senza regole del capitalismo globale non ha avuto soltanto effetti economici e sociali, ha cambiato la realtà politica. Si sono affermate concentrazioni di potere finanziario, industriale e mediatico sottratte ad ogni controllo. il declino dei soggetti politici tradizionali (stati, partiti) ha favorito un grande spostamento del potere reale. In Italia, ad esempio, uno dei grandi protagonisti dell’economia ha fondato un partito. In altri casi il potere economico ha esercitato un enorme condizionamento sulla politica. In sostanza è la democrazia stessa a essere messa in discussione; si riduce cioè la possibilità di una partecipazione consapevole e non manipolata dei cittadini alle scelte. È una sfida davvero cruciale per l’avvenire della sinistra perché si tratta di rimettere in discussione le forme stesse della politica creando nuovi canali di comunicazione nella società (come è stato, ad esempio, nella esperienza italiana delle elezioni primarie o nella sperimentazione fatta in Grecia di forme di partecipazione deliberativa). Ma dall’altra parte la sfida rischia di essere perduta per l’impotenza della politica e delle istituzioni nazionali di fronte ai grandi fenomeni economici globali. Ecco perché diventa essenziale il potenziamento di grandi organismi sovranazionali.
Il secondo grande tema per fare avanzare una risposta progressista alla crisi è quello dell’uguaglianza. In questi anni abbiamo avuto un certo pudore, forse anche perché condizionati dal ricordo dell’egualitarismo livellatore del socialismo burocratico. Abbiamo preferito parlare di eguaglianza delle opportunità. Questo rimane certamente giusto ma nello stesso tempo, bisogna riprendere con forza un impegno per una distribuzione più equa della ricchezza. In un indimenticabile saggio di quasi venti anni fa Norberto Bobbio reagendo a quanti sostenevano che la distinzione tra destra e sinistra non avesse più ragione d’essere dopo la caduta del Muro di Berlino scrisse che l’aspirazione all’eguaglianza restava il tratto distintivo della sinistra nelle nostre società. Io credo che avesse ragione. D’altro canto il prevalere della destra e della sua ideologia ha favorito la crescita di diseguaglianze intollerabili non solo tra paesi ricchi e paesi poveri, ma all’interno delle nostre società. In Italia, per esempio, nel corso degli ultimi 15 anni, mentre i redditi da lavoro sono rimasti sostanzialmente fermi, i redditi da capitale sono cresciuti del 44%. Il recente rapporto dell’OCSE (dicembre 2008), intitolato Growing unequal. Income distribution and poverty in OECD countries, mostra come negli ultimi anni, malgrado la crescita significativa della ricchezza globale, sia cresciuta anche povertà e diseguaglianza sociale nella larga maggioranza dei paesi sviluppati. Tutto ciò produce non soltanto società ingiuste ma è divenuto ormai una delle ragioni della crisi economica perché la distribuzione ineguale della ricchezza non sostiene la crescita dei consumi e del mercato interno e la valorizzazione del lavoro, anche dal punto di vista retributivo, riduce le motivazioni dei lavoratori e produce in definitiva una ridotta produttività del lavoro. Tornare a valorizzare la fatica e lo sforzo intelligente delle donne e degli uomini; valorizzare il lavoro e la produzione contro gli eccessi della speculazione e della rendita finanziaria ecco le ragioni di un moderno conflitto sociale di cui il centrosinistra europeo deve farsi protagonista per rimettere radici nella società. Un recente saggio, assai stimolante, di due ricercatori inglesi (Richard Wilkinson e Kate Pickett, “The spirit level”) si sostiene, come dice anche il sottotitolo, che more equal societies almost always do better. Ciò che è interessante nel volume è la dimostrazione – sulla base di ricerche empiriche – che oltre una certa soglia di reddito non c’è proporzione tra crescita della ricchezza e miglioramento della qualità media della vita delle persone. In realtà si vive mediamente meglio – per esempio più a lungo e più sani – in società dove grazie a sistemi evoluti di protezione sociale e di garanzia pubblica le diseguaglianze di reddito, di cultura e di opportunità sono più ridotte.
Infine dalla crisi si esce con la prospettiva di un nuovo ciclo di sviluppo più equilibrato e sostenibile solo se si punta sull’innovazione, sulla ricerca scientifica e sulla cultura. Si tratta di recuperare il nucleo del programma europeo del Consiglio di Lisbona: cioè l’idea di una crescita basata sulla conoscenza. Per troppo tempo lo sviluppo si è retto sui bassi salari dei paesi emergenti e il dominio della finanza occidentale nel mondo ha fatto affluire ricchezze nei nostri paesi non legate alla capacità produttiva e innovativa. Non solo innovazione dei processi produttivi per guadagnare competitività ma innovazione dei prodotti orientando lo sviluppo verso tecnologie ambientali, forti di energia alternative al petrolio e al carbone, ricerca biomedica così come è indicato nelle scelte che la nuova Amministrazione democratica degli Stati Uniti ha compiuto. È questa la via per una nuova qualità dello sviluppo che raccolga in una chiave che non sia antiscientifica e regressiva la nuova sensibilità ambientalista e i vincoli non eludibili per la salvaguardia del pianeta. La cultura non è solo condizione per lo sviluppo economico ma più in generale per migliorare la qualità della vita, per promuovere un cambiamento della struttura dei consumi che ci porti oltre ogni logica dello spreco e della esasperazione individualistica.
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Democrazia, uguaglianza, innovazione non sono solo i titoli di un programma progressista per uscire dalla crisi che viviamo. Sono anche le idee forti per un progetto di società e per una globalizzazione che metta al centro l’essere umano e i suoi diritti.
Ci vuole una forza progressista europea che abbia il coraggio di rimettersi in gioco, che apra le vele per cogliere il vento del cambiamento internazionale lasciandosi alle spalle le timidezze e il basso profilo degli ultimi anni. Si capisce che proprio in Europa il crollo del comunismo e il progressivo logoramento dell’esperienza socialdemocratica hanno pesato su una sinistra rimasta prigioniera del suo disincanto e incapace di andare oltre un pragmatismo ispirato al buon senso, alla razionalità economica e alla solidarietà sociale. Ma una sinistra così debole nella sua identità è apparsa disarmata di fronte al populismo sanguigno della destra che ha proposto a una opinione pubblica europea smarrita e impaurita l’ancoraggio ai valori tradizionali: Dio patria famiglia. Ma questa destra che governa gran parte dell’Europa non appare in grado con le sue politiche di aprire davvero una nuova prospettiva. L’UE prigioniera degli egoismi nazionali stenta sulla via della ripresa, mentre crescono la disoccupazione e il disagio sociale. E soprattutto l’Unione si presenta politicamente debole in un mondo investito da rapidi e sconvolgenti cambiamenti.
L’unica istituzione europea che appare vitale e capace di affermare il proprio ruolo al di fuori della logica della mediazione intergovernativa è il Parlamento. E ciò malgrado un risultato elettorale che non ha certo visto prevalere le sinistre e che ha portato ad una frammentazione politica. Qualche giorno fa il Parlamento europeo ha respinto l’accordo euroamericano per la lotta al terrorismo perché prevede pratiche lesive delle libertà e dei diritti individuali. Un segnale forte di coerenza con i valori costitutivi dell’Unione ed anche un richiamo importante alla nuova amministrazione americana perché tenga fede all’impegno di una svolta rispetto agli orrori di Guantanamo e delle extraordinary renditions. Ma complessivamente l’Europa delle destre non sembra essere in grado di assumere quel ruolo di fondamentale protagonista politico che oggi sarebbe essenziale.
Il ministro italiano Giulio Tremonti ha recentemente detto, parlando alla scuola del Partito Comunista cinese che la crisi ha segnato la fine dell’età coloniale. Forse egli intendeva anche compiacere i suoi ascoltatori e probabilmente la fine dell’età coloniale era già cominciata da almeno un secolo. Tuttavia non c’è dubbio che la crisi segna la conclusione di una lunga epoca di dominio del Nord del mondo sul resto del pianeta. Si tratta di un cambiamento straordinario che sta procedendo con una fortissima celerità. Il gruppo dei paesi occidentali più ricchi non detiene più la grande parte della ricchezza del mondo così come era avvenuto per sessant’anni dopo la Seconda guerra mondiale. Nel breve volgere di un decennio probabilmente solo la Germania resterà nell’elenco dei paesi aventi diritto – per dimensione del PIL – a partecipare al G7. Poi al posto della Francia, della Gran Bretagna e dell’Italia arrivano la Cina (in sorpasso sugli Stati Uniti), l’India e il Brasile. D’altro canto il declino del G8 (un vertice del mondo sostanzialmente euroamericano) in favore del G20 è il segnale politico più evidente di questo mutamento della realtà e dei rapporti di forza.
La più grande sfida dell’Europa nel prossimo decennio è proprio quella di affrontare questo grande cambiamento. Una sfida che richiede innanzitutto unità politica se il nostro continente vuole continuare a contare qualcosa nel mondo.
A destra prevale un senso di ostilità e di paura; la convinzione, che è in realtà una velleità, che si possa frenare il mutamento in atto. Su questa strada l’Europa anziché offrire al mondo il suo patrimonio civile di libertà, democrazia politica, giustizia sociale e diritti individuali, rischia di rinnegare sé stessa. Il mondo globale ha bisogno della civiltà europea. A condizione che noi europei non concepiamo l’Unione come una fortezza dell’Occidente cristiano. L’UE è un progetto politico aperto, un modello di società inclusiva, una visione del mondo fondata sulla pace e sulla collaborazione fra i popoli. Questa Unione Europea deve aprirsi ad un grande paese islamico come la Turchia. Questa Europa deve integrare gli immigrati – senza i quali siamo destinati a invecchiare e declinare – riconoscendo loro cittadinanza e diritti e pari dignità in cambio di lealtà e rispetto delle nostre leggi.
Questa è la sfida difficile di un centrosinistra moderno che faccia del progetto politico dell’Europa il cuore della sua proposta, oltre le esperienze dei socialismi nazionali del ‘900. Qualche passo in questa direzione è stato compiuto. Ma molto resta da fare ed è sostanzialmente il compito di una nuova generazione.
Disse JFK nel luglio del 1960 “Oggi il nostro impegno deve essere rivolto al futuro perché il mondo sta cambiando. La vecchia epoca è finita. Le vecchie strade non ci sono più”. E’ tempo di una nuova generazione al potere. “Giovani che non sono prigionieri delle vecchie paure e dei vecchi odi, che si possono lasciare alle spalle i vecchi slogan, le vecchie delusioni, i vecchi sospetti”. Anche oggi viviamo un tempo di cambiamento. Anche oggi vale il messaggio di speranza che allora fu lanciato da un indimenticabile Presidente degli Stati Uniti d’America.
Grazie


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