Intervista
15 marzo 2010

DOBBIAMO PARLARE AI DELUSI DAL PREMIER

intervista di Luigi Leone - Il Secolo XIX


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PIERLUIGI Bersani candidato premier del centrosinistra «è nella natura delle cose». Ma, per avere una reale prospettiva di successo, «noi dobbiamo saper avanzare proposte serie e credibili anche agli elettori di centrodestra, che sono delusi dal governo e da Berlusconi». In tal senso, dunque, «è stato importante» che sabato la manifestazione di Roma «non sia scivolata nella volgarità e nel livore contro il primo ministro». E ciò, sebbene «proprio lui sia il principale avvelenatore del clima politico», con un atteggiamento che, oggi, «sembra precludere ogni ipotesi di riforme condivise».
Massimo D’Alema si proietta oltre la “dead line” delle regionali, che oggi lo portano a Genova per un tour elettorale che già gli ha offerto una convinzione: <
Presidente D’Alema, l’Udc a Roma non c’era e, anzi, ha criticato la manifestazione: non c’è il rischio che il baricentro dell’alleanza di opposizione si sposti verso sinistra?

«Le alleanze per questa tornata di amministrative si sono già fatte e la manifestazione non le cambia perché, appunto, era solo una manifestazione, non una prova dell’alleanza. Peraltro,
il rapporto con l’Udc ha compiuto un passo in avanti, anche se a mio giudizio avremmo potuto fare di più. Ha pesato una certa ambiguità delle scelte politiche fatte dal partito di Casini in alcune regionali meridionali, tuttavia il passo avanti resta e sarà premiato, soprattutto dopo sabato».

In che senso?

«E’ stata una grande manifestazione di protesta, ma composta, unitaria e senza sbavature. E’ stato un messaggio importante per il Paese, un segno di maturità dell’opposizione. Credo che anche l’onorevole Casini dovrebbe apprezzarlo. Poi ognuno è libero di andare o non andare in piazza, ma non è lì che si giudica la politica di un partito».

Già, ma come si tengono insieme l’Idv e l’Udc, Antonio Di Pietro e Pier Ferdinando Casini?

«In questo interrogarsi c’è molto di astratto. In diverse realtà Idv e Udc convergono in una comune prospettiva amministrativa e ciò dimostra come non si debbano confondere le dichiarazioni politiche con il concreto delle cose. Spesso mi capita di non essere d’accordo con le esternazioni di Di Pietro e con i suoi toni, però l’ho avuto come collega di governo e in questo ruolo è una persona estremamente sensata ed equilibrata. E poi, guardi, è vero che ci sono alcune distinzioni di carattere programmatico, ma fra Idv e Udc non vedo questa incolmabile distanza quando si parla di cose concrete come il Mezzogiorno o l’occupazione».

Presidente, prova di maturità perché c’è stata attenzione nei riguardi del Presidente della Repubblica, come aveva chiesto Bersani?

«Questo è un aspetto. Ma anche nei confronti del governo e del presidente del consiglio, che pure erano gli obiettivi della protesta, non ci sono state volgarità o livore. A volte c’è più violenza nelle parole di Berlusconi che nelle parole della piazza».

Parla di un clima avvelenato, il premier.

«Il principale avvelenatore è lui. È lui che soffia sul fuoco delle contrapposizioni, lui ha detto, molto prima che la gente scendesse in strada, che le elezioni regionali sono lo scontro fra il bene e il male. Quando uno imposta il confronto politico in questi termini, inevitabilmente finisce per esacerbare i toni. Che lo faccia lui, poi, è preoccupante perché in nessun Paese civile il capo del governo è il principale fattore di esasperazione della vita politica».

Prova di maturità anche per Bersani, che sembra potersi accreditare come candidato premier del centrosinistra?

«Non credo che Bersani debba sottoporsi a prove di maturità e mi pare del tutto ovvio che il leader del maggior partito dell’opposizione sia da considerare come il possibile candidato alla guida della coalizione. Per me non è una scoperta di oggi, appartiene alla normalità».

Non tutti gli osservatori, però, la pensano così.

«C’è uno strano modo di guardare la politica, con commentatori che fondamentalmente dialogano con se stessi. C’è troppa autoreferenzialità, si vedono le cose attraverso lenti deformanti. Bersani è un leader che vince un congresso dove votano tre milioni di persone, è un uomo con grande esperienza di governo, locale e nazionale. Insomma, ha tutte le qualità richieste a una premiership e sono lieto che la giornata di sabato sia stata un successo. Costruito con pazienza e anche con qualche rischio, ma un leader che non prende rischi non è un leader. Bersani, invece, lo è. Anche se, naturalmente, il tema di oggi non è la scelta del candidato per il 2013».

L’astensionismo incombe sulle regionali: il Pd deve cercare di limitare quello del suo campo o dare la caccia a quello di centrodestra?

«Io spero che non ci sia molto astensionismo, perché è sempre un sintomo preoccupante di distacco fra cittadini e istituzioni. Ma il richio è più nel campo del centrodestra, dove l’elettorale è deluso e demotivato. Dipende da noi saper parlare a questo elettorato: dobbiamo essere convincenti, presentandoci come seria forza di governo. Mai come adesso il problema non è fare la gara a chi grida di più, ma affrontare con chiarezza i problemi del Paese. A cominciare da quelli economici, che il governo ha trascurato e addirittura negato».

Sul voto peseranno, e quanto, il caso-liste e le inchieste giudiziarie?

«Le sembrerà strano, ma il caso-liste peserà più delle inchieste. Non perché sia più grave, ma perché questo episodio ha colpito al cuore l’immagine di efficienza, di partito del fare che Berlusconi aveva sapientemente diffuso sul conto del Pdl. Che, invece, ha dimostrato una notevole incompetenza, soprattutto nell’esercizio delle funzioni pubbliche. Quanto accaduto ne dà, diciamo così, una certificazione e ciò avrà un effetto elettorale».

Lei dove colloca l’asticella della vittoria: se finisce sette regioni a sei per il centrosinistra avete vinto?

«Voi queste domande le dovete assolutamente fare, ma noi non dobbiamo assolutamente rispondere. E’ uno dei casi in cui ognuno deve fare il proprio mestiere».

Perché quella volta in cui ha risposto ha finito con il dimettersi da primo ministro?

«Trovandomi a casa di amici, con un giornalista ebbi la malaugurata idea di abbandonarmi a una confidenza. E la vita mi ha insegnato che non bisogna abbandonarsi a confidenze, soprattutto con persone che hanno la cattiva abitudine di scrivere sui giornali… Al di là delle battute: penso, ripeto, che ci siano le condizioni per avere un risultato molto migliore di quello che prevedevamo due mesi fa e persino di quello che possiamo prevedere oggi. Due settimane sono la campagna elettorale e davvero è presto per fare una previsione».

A prescindere da come finiscano le elezioni, lei ritiene che dopo si possa aprire la stagione delle riforme condivise?

«Se si dovesse giudicare adesso, non si vede quale spazio possa esserci. Poi Berlusconi è imprevedibile... C’è, però, un altro aspetto di cui bisogna valutare la portata: il voto potrebbe variare i rapporti interni alla maggioranza, perché Berlusconi è sempre più in affanno, mentre la Lega sembra destinata a diventare più forte. Io non so come questo giocherà sulla tenuta complessiva del governo, ma per ora mi preoccupo che il voto dimostri che il centrosinistra torna a essere competitivo. E che il governo del Paese è contendibile, per usare un termine societario».

Voi sostenete che Berlusconi ha iniziato la parabola discendente: la fine di questo quindicennio può essere la fine di un’epoca, con il rischio di una comune rovina dei contendenti?

«La crisi del berlusconismo segna un passaggio di fase politica. Non credo che sia in discussione il bipolarismo, ma le forme che ha assunto nel nostro Paese sì. Si è sostenuto per molti anni che Tangentopoli è stata figlia dei partiti, ora siamo a una Tangentopoli senza i partiti».

Bè, non proprio a leggere certi verbali delle inchieste.

«Intendo dire che siamo alla implosione di un sistema politico che si è fondato sul protagonismo di ceti rampanti della società civile. Queste forze, che si sono riunite soprattutto intorno a Berlusconi, hanno dimostrato di non essere in grado di affrontare i problemi italiani. Non c’è stata nessuna riforma, nessuna modernizzazione del Paese. Sono stati riprodotti, invece, gli stessi mali che sul suo finire aveva manifestato la Prima Repubblica, l’occupazione delle istituzioni e l’uso privatistico delle stesse. Berlusconi è l’uomo che più di ogni altro rappresenta questo. Ci sono elementi di una crisi di sistema, che richiederebbe coraggiose riforme, volte a restituire dignità alla politica, riducendone i costi e il numero di persone che vivono di politica, a partire dal dimezzamento del numero dei parlamentari>>.

Presidente d’Alema, ma sono così diversi i rapporti fra di Minzolini con il premier e di Santoro con voi?

«Innanzitutto, Minzolini è uno dei numerosi direttori di testata nominati da Berlusconi, mentre è una delle pochissime voci critiche. Oltretutto, non di rado critico verso l’opposizione>>.

Voi, però, a suo tempo ne avete fatto un europarlamentare…

«Evidentemente ciò non ha intaccato la sua libertà di giudizio. Le mando un po’ di spezzoni tivù in cui si parla di me...».

Il senso della domanda è un altro.

«Certo e le rispondo. Noi possiamo avere persone che sono della nostra stessa area politica, è innegabile, ma Berlusconi tende ad avere dei dipendenti. E’ una cosa diversa dall’adesione politica, ideale, intellettuale, che non preclude la critica».

Oggi è in Liguria, sfida in bilico fra Burlando e Biasotti.
«La Liguria è una regione alla quale sono profondamente legato, che ha vissuto un periodo complesso e difficile ma che ha trovato governo capace di interpretarne la vocazione moderna, di accompagnare il processo di riorganizzazione produttiva dopo il ridimensionamento della grande industria pubblica. Spero che ci siano davvero le condizioni perché Burlando possa continuare a farlo con tranquillità e io voglio dare un contributo a una causa che è tanto più importante in un nord che si avvia a prendere questa impronta leghista e dove la presenza del centrosinistra è un elemento essenziale di pluralismo>>.

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