Discorso
16 aprile 2009

PERCHE’ LA SINISTRA HA PERSO LE ELEZIONI? intervento di Massimo D’Alema <br>pubblicato su “L’Indice” di ottobre 2009

16 Aprile 2009
Presentazione del saggio a cura di Mario Morcellini e Michele Prospero (ed. Ediesse) presso il Centro Congressi della Facolta’ di Scienze della comunicazione dell’Universita’ di Roma La Sapienza


Presentiamo un libro che e’ una raccolta di saggi, un contributo interessante sia dal punto di vista dell’analisi dei flussi e della comunicazione elettorale, che dal punto di vista dell’analisi politica. La parte più significativa, interessante e originale del volume, a mio parere, riguarda lo studio delle ragioni politiche, dei fondamenti politico-culturali della condotta del Partito democratico: quale analisi della società e del sistema politico italiano, cioè, sia stata alla base del primo anno di esperienza del Pd, che si è conclusa con una sconfitta persino più grave della sconfitta elettorale.
In un certo senso, infatti, quello che e’ avvenuto dopo le elezioni ha dimostrato che il consenso elettorale al Pd era fragile. Si e’ trattato di una adesione in parte forzata dalla legge elettorale, piuttosto che di un sostegno al progetto del Partito democratico. Tanto e’ vero che un pezzo di questo elettorato che si è raccolto intorno al Pd in ragione della logica maggioritaria indotta dalla legge elettorale, in questo momento, secondo gli studi di opinione e le analisi dei sondaggisti, tende ad abbandonare il Pd. E i risultati elettorali più recenti lo confermano.
Il libro suggerisce un’analisi politica delle ragioni della sconfitta e, implicitamente, suggerisce un’analisi politica delle vie per una possibile ripresa. In particolare, il tema di fondo e’ che si imputa al Pd l’avere accettato una visione bipartitica o, meglio, bileaderistica della democrazia italiana, tendenzialmente semplificatoria e plebiscitaria. Poste tali regole del gioco, queste sono anche quelle che producono il vincitore. Il vincitore e’ interno. Si direbbe che noi abbiamo accettato di giocare “iuxta propria principia”, nel senso dei suoi principi, delle regole di colui che ha vinto le elezioni. Quindi si imputa al Pd un cedimento sul piano della cultura politica, che avrebbe poi avuto come conseguenza il risultato elettorale.
Ritengo che questa analisi sia in gran parte condivisibile e per certi aspetti ho anticipato alcune valutazioni in diversi interventi nel corso della discussione politica, che qualche volta e’ stata raffigurata come una rissa personale, mentre era un confronto legittimo e quanto mai necessario soprattutto all’indomani di una sconfitta. Poi ho anche avanzato, in modo più organico, sul piano propositivo, una piattaforma, un’idea del sistema politico italiano alternativa rispetto a quella bipartitica o bileaderistica. Mi riferisco al convegno dello scorso luglio, quindi successivo alla sconfitta elettorale, organizzato dalle fondazioni culturali , durante il quale presentammo la piattaforma di riforma costituzionale-elettorale.
In quella piattaforma si sostiene, appunto, un’idea alternativa rispetto allo schema bipartitico-bileaderistico, cioè l’idea che l’approdo della transizione italiana debba essere una riorganizzazione in chiave neoparlamentare del sistema democratico, intorno ad un numero contenuto di partiti. E restituendo loro anche quel ruolo fondamentale di mediazione nel rapporto tra l’opinione pubblica e le istituzioni democratiche. Il sistema elettorale di tipo tedesco potrebbe corrispondere a questa necessità, oltretutto con il vantaggio di restituire ai cittadini, attraverso il sistema dei collegi uninominali, il potere di scegliere da chi vogliono essere rappresentati, disinnescando gli elementi plebiscitari che caratterizzano l’attuale sistema politico e la legge elettorale, attraverso cui - com’è noto - è il leader, non i partiti, a nominare i parlamentari.
Il nostro, infatti, è un sistema partitocratico senza partiti, il che lo rende particolarmente paradossale e pericoloso: dove c’è la partitocrazia con i partiti, almeno questi hanno il compito di selezionare la classe dirigente. Viceversa, la partitocrazia senza partiti determina una pura e semplice cooptazione da parte dell’oligarchia o del capo, a seconda dei sistemi.
Si potrebbe obiettare, naturalmente, che questa analisi della sconfitta elettorale, che io condivido, è squisitamente politica e che forse non torna a riflettere sulle ragioni sociali del formarsi del centrodestra italiano. E qui dissento totalmente da alcune considerazioni, presenti in particolare nella parte iniziale del saggio, circa la sorpresa di fronte a questo risultato. A mio avviso, infatti, dal punto di vista dell’analisi della società italiana, nulla e’ meno sorprendente di questo esito elettorale.
Mi spiego: in questo quindicennio, gli unici risultati veramente sorprendenti sono stati quelli del ’96 e del 2006, quando, cioe’, ha vinto la sinistra. Esaminiamo la serie delle elezioni bipolari, tralasciando il ’94, perché allora si votò in una logica tripolare.
Nel 1996 il centrodestra, che si presentò diviso nel Polo della Libertà e nella Lega Nord, raccolse, sommando le schede, 19 milioni 60 mila voti. E parlo delle elezioni vinte dal centrosinistra.
Nelle ultime elezioni, il centrodestra, che si e’ presentato diviso nel Popolo della Libertà e nell’Udc, ha raccolto, sommando le schede, 19 milioni e 90 mila voti.
Mettiamo ora a confronto la sconfitta elettorale di Berlusconi del ’96 con la vittoria del 2008: i partiti del centrodestra (tra i quali comprendo, ovviamente, l’Udc), hanno raccolto esattamente lo stesso numero di voti. Se noi esaminiamo tutti i risultati elettorali, il centrodestra ha preso, sempre, circa 19 milioni di voti. Nella sconfitta del centrodestra delle elezioni del 2006, quando Prodi vinse le elezioni la seconda volta, effettivamente il centro destra non ebbe 19 milioni di voti, ma 18 milioni 987 mila voti.
Il centrosinistra e’ arrivato una sola volta, nel corso di tutta questa fase storica, a raggiungere la quota di 19 milioni ed e’ stato nel 2006. Altrimenti, ne e’ sempre rimasto ampiamente al di sotto, anche quando, nel ’96, vinse le elezioni, il che successe grazie al sistema maggioritario, perché – come abbiamo visto - gli altri erano separati: fu la divisione tra Polo delle Libertà e Lega nei singoli collegi a consentire l’affermazione dell’Ulivo. Ma fu una vittoria politica, fu la “tekné politiké” a prevalere. Se, infatti, dovessimo giudicare gli orientamenti della società italiana, nell’elezione del ’96, che fu la principale vittoria del centrosinistra, il 54 per cento degli italiani votò a destra. Lo sottolineai in un seminario a Gargonza, scatenando polemiche immotivate. Si disse: ecco la dimostrazione che D’Alema è partitocratico, è contro l’Ulivo, mentre erano semplicemente numeri e i numeri accompagnano il processo democratico.
Ogniqualvolta si va ad uno scontro di natura bipolare o bileaderistica, noi ci troviamo di fronte al fatto che il centrodestra raccoglie circa 19 milioni di voti intorno a Berlusconi. Questo e’ un dato forte, robusto, profondo. Lo dico perché sono state fatte molte analisi su come si e’ formato questo blocco, alcune, secondo me, semplificatorie.
Ad esempio, penso sia sbagliato ritenere che questo consenso sia soltanto il frutto dell’informazione distorta dei telegiornali. Certo, ciò non cancella l’esistenza di una anomalia del sistema democratico italiano, ma essa – che pur esiste - a mio parere non e’ la spiegazione del fenomeno. Si tratta di qualcosa di più profondo, che riguarda il costituirsi di un blocco sociale, di una cultura antipolitica che si e’ formata nella crisi del sistema democratico dei partiti. Riguarda anche la rottura della capacità di rappresentanza in particolare dei ceti medi del Nord, e la crisi nei rapporti tra lo Stato ed una parte dei ceti produttivi settentrionali. E’ nel Nord, infatti, che questo blocco elettorale e’ più compatto. Un esame serio dei movimenti elettorali ci dice che la parte più mobile del Paese e’, sostanzialmente, il Mezzogiorno, anche perché e’ più sensibile al richiamo del probabile vincitore, avendo maggior bisogno dello Stato.
In realtà, le partite elettorali hanno sempre avuto un risultato predefinito al Nord e nell’area Centro-Nord di tradizionale insediamento della sinistra, che, tutto sommato, ha retto nel corso degli anni. Nel bilanciamento tra questi due dati, le partite elettorali si sono tutte risolte nel Mezzogiorno. E’ stato il Sud che, di volta in volta, ha dato la vittoria all’una o all’altra coalizione. Il centrosinistra, anche quando ha governato, non ha mai governato Milano e la Lombardia. La destra ha governato, ma non ha mai conquistato l’Emilia o la Toscana, salvo qualche presidio, come succede anche a noi.
Ripeto, dove il sistema dell’alternanza ha dato il suo massimo effetto e’ stato nel Mezzogiorno, escluso il quale l’oscillazione elettorale tra gli schieramenti e’ limitatissima. Gli spostamenti sono più frequenti all’interno delle coalizioni, tanto e’ vero che molti sociologi e politologi hanno elaborato il concetto di “appartenenza debole”, con un movimento interno alla coalizione, oppure tra non voto e voto. Una differenza con quasi tutti i sistemi bipolari del mondo, che, invece, hanno un marcato scambio elettorale tra i blocchi.
Proprio le considerazioni sulla persistenza dell’orientamento verso il centrodestra, sulla consistenza delle sue ragioni sociali, ci fanno pensare alla necessità di una strategia di costruzione di un nuovo centrosinistra . Guardando al futuro, pongo, dunque, questo primo problema, perché mi pare che sia la principale questione che oggi l’opposizione si trova ad avere in un momento molto difficile, senza essere presa dall’angoscia per la sensazione di una così grande forza di espansione del capo e della maggioranza di governo.
A questo proposito, faccio ancora osservare che ogniqualvolta qualcuno ha vinto le elezioni, si e’ determinata l’impressione che non ci sarebbe più stata l’alternanza, salvo, poi, constatare che il vincitore ha sempre perso le elezioni successive. Anche questo e’ un tratto anomalo del sistema italiano, che dimostra l’estrema difficoltà a governare il Paese. Il sistema bipolare, infatti, ha prodotto il ricambio delle classi dirigenti, ma non ha favorito la nascita di governi efficaci e sappiamo che un sistema di alternanza fra governi scarsamente efficaci si risolve con la sconfitta elettorale di chi governa. Ciò è stato vero per tutti, anche per il centrodestra.
La costruzione di un nuovo centrosinistra passa anche attraverso una riorganizzazione del sistema politico-democratico che depotenzi gli elementi antipolitici e plebiscitari, che sono pure stati insufflati da sinistra, nonostante l’antipolitica, da qualsiasi parte provenga, vada sempre nella stessa direzione, cioè a destra. In questo senso, Di Pietro e’ del tutto speculare a Berlusconi: sono due forme di populismo di cui una e’ strutturalmente maggioritaria, l’altra inesorabilmente minoritaria. Sul terreno dell’antipolitica vince la destra, non c’e’ dubbio. E non e’ solo l’esperienza italiana a dimostrarlo, è una legge universale.
Occorre, quindi, ricostruire un sistema politico-democratico. La politica democratica vince sul terreno della mediazione, della costruzione del consenso, della riorganizzazione dei partiti. L’idea dello sfondamento plebiscitario, della soluzione personalistica del conflitto politico è illusoria e perdente, senza contare i danni che ciò produce al sistema democratico del Paese, che dovrebbe comunque essere la preoccupazione principale.
Queste considerazioni critiche significano che il progetto del Pd è sbagliato? No, non lo credo. E’ sbagliata la pretesa di autosufficienza. Ed e’ stata sbagliata una linea di politica istituzionale che ha favorito l’idea del bipartitismo e della competizione personale, quando bisognava cercare di indirizzare la precedente legislatura verso una intesa politico-istituzionale per fare la riforma elettorale in chiave di una proporzionale corretta, il sistema tedesco. Da questo punto di vista, l’analisi che offre il volume dell’ultimo scorcio della legislatura e’ assolutamente incontestabile.
Il progetto del Pd resta fondamentale. E’ evidente che la costruzione di un nuovo centrosinistra, anche se non può identificarsi con un solo partito autosufficiente, ha bisogno di una forza politica fondamentale, che ne sia il fulcro. Altrimenti ci si riduce ad una sommatoria di frammenti che, come tale, non ha alcuna credibilità di governo. Per nuovo centrosinistra intendo una rinnovata coalizione di governo che si deve poter costruire guardando in direzioni diverse, verso il centro e per un recupero della sinistra ad un impegno di governo. Naturalmente quella che sia credibilmente disponibile, essendo contrario all’idea di ammucchiare tutto.
Contrariamente a quello che si sostiene, l’alleanza incoerente di tanti partiti e partitini così come, in una certa misura, si realizzò con l’Unione, non è il frutto della proporzionale, bensì di questo sistema maggioritario, che, introducendo un premio di maggioranza così consistente, spinge a realizzare le alleanze più vaste possibili con l’obiettivo di vincere, anche se poi risulta difficile governare. Il paradosso e’ che questo sistema maggioritario enfatizza il peso determinante delle forze politiche minori, contrariamente a quello che sostengono i teorici dell’iperbipolarismo.
Vorrei osservare che Berlusconi, che avrebbe più motivi di noi, almeno sul piano dei numeri, per sostenere la vocazione maggioritaria del Pdl, ha invece appreso l’arte politica della costruzione delle alleanze in un modo straordinario. Innanzitutto non ha mai teorizzato di essere autosufficiente, ma ha sempre fatto dell’alleanza con la Lega l’asse di governo, rispettandola scrupolosamente. Fino a stamattina, quando, di fronte al diktat della Lega sul referendum,l ha fatto macchina indietro, anche scontando un minimo di popolarità. Ma l’alleanza viene prima della popolarità e – ripeto - parlo di una forza politica che più credibilmente potrebbe parlare di vocazione maggioritaria. Berlusconi, dunque, e’ sempre rimasto fedele ad un sistema di alleanze.
Nella vicenda della Sardegna, pochi hanno rilevato come la vittoria politica di Berlusconi sia stata ottenuta in una elezione in cui i partiti di opposizione al governo hanno raccolto il 54 per cento dei voti, per cui non si può certo dire che la maggioranza di governo abbia sfondato. Berlusconi si e’ preoccupato di allearsi con l’Udc, ha persino cercato il Partito Sardo d’Azione. Vi e’ stata, insomma, la paziente costruzione di un sistema di alleanze che ha consentito al capo del governo di allearsi con partiti di opposizione, i quali lo hanno aiutato a vincere portando un contributo non indifferente del 13, 14 per cento dei voti. Il Pd, invece, e’ rimasto prigioniero dell’idea della autosufficienza e della forza della leadership come elemento di sfondamento.
Forse un primo modo di ricominciare a costruire una prospettiva per il centrosinistra e’ recuperare il valore della politica. Se lasciamo al nostro avversario, che è maestro dell’antipolitica, anche il primato nella manovra politica, allora credo che davvero non ci sia più partita.
Recuperare capacità di far politica rispetto al nuovismo, ad una visione minoritariamente plebiscitaria, vuol dire fare i conti, innanzitutto, con una certa opinione che grava sulla sinistra. Una relativa perdita di autonomia culturale della sinistra nel doloroso processo di cambiamento c’e’ stata e il fatto che sia stata riempita da un nuovismo massmediologico ci ha spinto all’inseguimento di miti fuggevoli. Io sono per il rinnovamento. Sono cresciuto in un partito dove si formava una classe dirigente che veniva messa alla prova e poi si rinnovava. Ma certo non sulla base della logica che si demoliva un’intera classe dirigente senza averne un’altra, perché questo è autodistruttivo.
Osservo, inoltre, che il Paese e’ guidato da un signore ultrasettantenne che oggi raccoglie il consenso di una larga maggioranza di italiani e il fatto che ci presentiamo in modo più fresco, più giovane non ha ribaltato la situazione. Non risulta che abbiamo conquistato un solo voto sulla base di questo argomento, che, seppur valido, elettoralmente non fa breccia. L’obiettivo nobilissimo di rinnovare il ceto politico va comunque perseguito, ma è cosa diversa dall’obiettivo di vincere. Il Paese chiede autorevolezza, affidabilità, forza, credibilità, soprattutto in un momento di crisi, di incertezza del futuro. Non chiede la leggerezza. Se la qualità che noi offriamo e’ la leggerezza, e’ una qualità minoritaria. Credo che, in gran parte, questa autorevolezza e sicurezza del presidente del Consiglio siano una rappresentazione finta, tuttavia in qualche modo ha funzionato e funziona.
E’ evidente, dunque, che occorre fare un grande sforzo, rispettando tutte le opinioni, per recuperare una autonomia culturale del centrosinistra, una capacità di analizzare i processi reali, profondi della società e di non essere prigioniero di mode, di ondate di opinione, che molto spesso hanno scarso fondamento. Bisogna tenere conto della complessità del Paese. Spesso ci muoviamo in un universo molto limitato, che e’ quello dei lettori dell’informazione politica dei giornali, il che è giusto e và considerato, ma bisogna sempre pensare che si tratta di una opinione pubblica che rappresenta una minoranza nel Paese. Il resto e’ totalmente estraneo a questi circuiti informativi e si muove sulla base di altri problemi ed esigenze.
E’ necessario riorganizzare, anche in forme innovative, un vero partito. Ma l’idea che lo strumento partito sia un ostacolo al pieno dispiegarsi delle virtù del rapporto diretto tra leader e popolo e’ sbagliata, culturalmente subalterna, dannosa nelle sue conseguenze. E’ chiaro, infatti, che una volta dismesso lo strumento organizzato di rapporto con la società, noi siamo molto più deboli. E, anche qui, ciò significa affidarsi ad un terreno che è altrui. Nel passaggio tra i partiti precedenti e il Partito democratico vi e’ stato un momento di sbandamento organizzativo, caratterizzato anche dal sopraggiungere di teorie prive di qualsiasi fondamento, tuttavia diffuse e sostenute, secondo le quali il partito moderno non ha bisogno di avere iscritti.
A caldeggiare dall’esterno queste posizioni fu in particolare ‘’il Foglio’’ di Giuliano Ferrara, che generalmente tendo a considerare come uno che non ci vuole bene dal punto di vista politico. Se sostiene delle teorie, per quanto mi riguarda è già una buona ragione per guardarle con un certo sospetto. Tuttavia, queste posizioni hanno avuto una influenza nella fase di nascita del Pd e, secondo me, hanno prodotto conseguenze negative.
Queste, in definitiva, sono a mio parere le premesse per uscire da una crisi che e’ stata persino più grave della sconfitta elettorale: ricostruire un partito, tornare ad elaborare un pensiero sulla società italiana che non sia mutuato dal dibattito quotidiano, ricominciare a formare classe dirigente, rimettere in campo una visione dell’evoluzione del sistema democratico che non sia subalterna al plebiscitarismo di Berlusconi, cercare alleanze.
A mio avviso, il punto di partenza e’ recuperare la necessità di una grande forza politica organizzata, radicata nella società , che abbia una visione dello sviluppo del Paese fondato sulla democrazia parlamentare, sul rilancio del ruolo dei partiti. E da qui cominciare a sfidare Berlusconi, togliendoci l’illusione che arriverà un messia giovane e bello e che tutti gli italiani, sedotti, abbandoneranno il vecchio capo per affidarsi al nuovo . Questa e’ una illusione anche scarsamente democratica, ma comunque e’ e resta una illusione.
Grazie

stampa