Discorso
2 luglio 2010

L'Italia in Europa e nel mondo. Dove eravamo, dove saremo - Relazione di Massimo D'Alema

Seminario promosso dal Centro Studi del PD e dal Forum Esteri del PD


Mi scuserete se, dovendo introdurre questa discussione sul punto in cui è l’Italia nel nuovo scenario internazionale e sulle linee di una possibile politica estera come progetto nazionale condiviso, farò anche alcune considerazioni che possono apparire scontate a una platea nella quale scorgo molti specialisti che hanno certamente una competenza assai ampia in materia. Ma affrontare questo tema significa necessariamente dover ripercorrere alcuni passaggi fondamentali, dover ribadire alcune verità note per definire a grandi linee qual è il ruolo del nostro Paese, qual è stato in passato e quali sono i problemi e le sfide che ci troviamo di fronte in uno scenario nuovo. Scenario che, in verità, è ormai lo stesso da oltre vent’anni.
Siamo infatti entrati in una lunga transizione, iniziata nel 1989, ma i cui elementi di novità hanno subito un’accelerazione con l’accentuarsi della crisi che stiamo vivendo e che certamente ci consegnerà un mondo profondamente mutato.
Come detto più volte, il ruolo tradizionale dell’Italia, svolto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale e quindi dalla nascita della Repubblica, è stato definito dalle due grandi scelte che ne hanno caratterizzato la collocazione internazionale: la scelta atlantica dell’alleanza con gli Stati Uniti da un lato, e la scelta europea dall’altro. Quest’ultima ha reso il nostro Paese parte del nucleo fondatore, propulsivo dell’Unione europea, e tradizionalmente schierato sul fronte dei Paesi favorevoli all’integrazione politica del continente.
Atlantismo ed europeismo, quindi, sono state le due grandi coordinate della politica estera italiana, che si sono rivelate positive per il nostro Paese. Il legame euroatlantico ha infatti rappresentato per l’Italia una grande opportunità, ma anche un insieme di vincoli che hanno puntellato le nostre fragilità interne, che ci hanno aiutato a superare ostacoli, che hanno costituito un quadro di garanzia anche per l’unità del Paese.
Certo, durante la guerra fredda l’Italia è stata attraversata da un’aspra contrapposizione, e non c’è dubbio che la divisione in blocchi abbia introdotto elementi di rigidità nella vita politica interna: ha rappresentato un ostacolo a un ricambio delle classi dirigenti, anche per la presenza di un grande partito comunista; ha finito per cristallizzare un certo equilibrio politico, anche quando oramai aveva esaurito la sua “spinta propulsiva”, per usare un’espressione che fu utilizzata in un’altra direzione.
Tutto questo ha portato, non a caso, a vivere l’’89 anche come una drammatica crisi dell’equilibrio politico interno. Tuttavia, non c’è dubbio che la scelta euroatlantica abbia rappresentato una garanzia per la democrazia, un contributo fondamentale per la sicurezza del Paese. Si sono create, così, anche le condizioni affinché in questo quadro l’Italia potesse crescere come grande potenza economica, parte di quella parte più ricca del mondo che ha esercitato una fondamentale funzione politica, poi consolidata dopo la decisione di Rambouillet del ’75 nel G7, e successivamente con l’estensione alla Russia del G8. Scelte che hanno trasformato il club dei Paesi ricchi in un attore politico fondamentale sulla scena internazionale.
A partire dagli anni ’70, la scelta euroatlantica è stata inoltre esplicitamente condivisa da tutte le principali forze politiche del Paese, è diventata cioè un progetto nazionale, e non soltanto la scelta di una maggioranza. E questo non solo per ragioni di convenienza, ma perché in realtà il progetto eurocomunista del PCI e l’indipendenza da Mosca effettivamente spingevano il partito a considerare il quadro della NATO e dell’Unione europea come l’unico entro il quale poteva svilupparsi un progetto autonomo rispetto al comunismo sovietico.
Questa cornice condivisa delle grandi scelte della politica estera italiana ha rappresentato certamente un punto di forza.
A tale condivisione hanno contribuito in modo significativo la Democrazia cristiana, il Partito socialista, le forze che hanno governato il Paese, che hanno complessivamente interpretato l’atlantismo italiano non nella chiave di una grigia ortodossia ma come un’opportunità per l’Italia di ritagliare un proprio spazio nel quadro atlantico, di sviluppare una propria autonoma iniziativa.
Già dagli anni ‘50, a partire cioè dalla politica estera di Fanfani, questa autonoma iniziativa ha trovato soprattutto nel Mediterraneo un suo campo di applicazione, attraverso lo sviluppo di rapporti con il mondo arabo, che sono stati assai significativi per la politica estera italiana e per gli interessi nazionali.
Sullo sfondo delle grandi scelte in campo internazionale ci sono, infatti, gli interessi del Paese, che vive la dipendenza energetica come uno dei principali vincoli al proprio sviluppo e che ha concepito in misura notevole la propria politica estera come risposta strategica al tema dell’approvvigionamento energetico, sia nel rapporto con il mondo arabo sia nel rapporto prima con l’Unione Sovietica e poi con la Russia. E non è un caso che una grande azienda energetica italiana, l’ENI, sia stata uno dei principali soggetti della nostra politica estera nel corso di tutti questi anni, non soltanto una grande multinazionale.
La politica mediterranea dell’Italia ha rappresentato un tratto di continuità nella storia della prima Repubblica e un terreno concreto di collaborazione tra tutte le forze politiche al governo e all’opposizione.
A questo si aggiunga il fatto che l’Italia si è collocata in una posizione di frontiera nel campo della politica della distensione, del dialogo verso l’Est. Anche in questo caso, le relazioni economiche con l’Unione Sovietica sono state molto importanti, ma a queste si è affiancata la capacità dell’Italia di inserirsi sul terreno del dialogo politico, in particolare a partire dagli anni della distensione.
In questa politica estera si sono mescolati interessi, valori ed esigenze imprescindibili – ho accennato al tema dell’energia – ma anche vocazione e opportunità. E forse il merito maggiore della classe dirigente storica che ha governato il Paese, in particolare della DC, è stato quello di trasformare due peculiarità italiane, con i loro aspetti problematici, in opportunità per la politica estera. Mi riferisco alla presenza della Chiesa cattolica, cioè di un altro Stato, e alla presenza di un grande Partito comunista, cioè di una forza antagonistica.
Insomma, da un lato è stata gestita in modo molto intelligente la presenza della Chiesa come un’opportunità, e non come un problema, e dall’altro è stato utilizzato il peso del più grande Partito comunista dell’Occidente come un possibile strumento per aprire nuove vie di dialogo e di espansione del ruolo e della rilevanza dell’Italia. In questo senso ha giocato favorevolmente l’assenza, per il nostro Paese, di un passato coloniale ingombrante. Di recente abbiamo liquidato il lascito più pesante: mi riferisco all’accordo con la Libia, che pure contiene tanti aspetti che possono essere discussi. Accordo, però, nel quale il nostro Paese ha certamente avuto il grande merito di aver riconosciuto le proprie responsabilità, di aver costruito con la ex colonia un rapporto che forse nessun Paese europeo è stato in grado di costruire con le proprie.
L’Italia non è mai apparsa come una presenza temuta per il suo egemonismo. Tutto questo ha senz’altro favorito l’intreccio di molteplici relazioni internazionali. Il fatto che il nostro Paese sia accettato come partner in molte parti del mondo è un tratto del cosmopolitismo degli italiani e considero questo un asset importante nel tempo della globalizzazione.
La transizione che si è aperta nel 1989 ci ha progressivamente posto problemi nuovi e sfide ardue. Naturalmente questa transizione non ha messo in discussione le scelte fondamentali della politica estera italiana, che, anzi, ne sono uscite confermate e vincenti.
Vincente è la scelta atlantica, vincente è la scelta europea. NATO e Unione europea, infatti, sono apparsi come due pilastri del nuovo ordine internazionale. E vincente è la scelta a favore del multilateralismo, della partecipazione attiva al sistema delle Nazioni Unite, che ha caratterizzato anch’essa la nostra politica estera.
Dall’89 queste scelte di collocazione non pesano più come prima, non bastano più.
Nel nuovo scenario globale, infatti, esse sono necessarie ma non più sufficienti a definire lo spazio dell’Italia in un quadro in cui l’aumento della competizione economica globale, i flussi migratori, la nuova distribuzione del potere hanno fatto emergere nuovi protagonisti e hanno chiamato tutti quanti a compiere delle scelte.
Da questo momento in poi, la politica estera dei Paesi, la loro forza, si misura in termini di capacità di iniziativa, di assunzione di responsabilità, di messa a disposizione di risorse. Insomma, si apre una competizione in cui i vecchi equilibri di potere sono messi in discussione.
Tanto più che, oltre l’equilibrio bipolare, nel quale l’Italia si è ritagliata uno spazio conveniente, il sostanziale fallimento dell’unipolarismo americano, stagione che ha lasciato dietro di sé più guasti che successi, ci consegna un mondo che è ben lontano da quell’immagine idilliaca del multilateralismo che tanto piace alla cultura europea di ispirazione kantiana. Un mondo multipolare, ma non per questo multilaterale, o, come qualcuno ha detto, un mondo privo di polarità, nel quale nessuno è in grado di imporre un ordine. Un mondo segnato da conflitti, instabilità, terrorismo. Un mondo nel quale anche la grande illusione che fosse l’economia a dare un ordine e che alla politica non restasse che fare un passo indietro, per non disturbare il manovratore, si è consumata, lasciandosi alle spalle le rovine di una grande crisi dalla quale ancora si fatica a uscire gettando le basi di una nuova stagione di sviluppo equilibrato e sostenibile.
Tutto questo ha colto l’Italia in un periodo di trasformazione, di crisi del vecchio sistema politico. Un periodo segnato anche dall’emergere sulla scena nazionale di nuove forze che hanno indebolito, se non messo in discussione, persino le scelte tradizionali della politica estera.
Da un lato queste forze hanno affievolito il nostro europeismo: si è affacciato a destra un fronte euroscettico, che ha dovuto poi misurarsi con la necessità di una politica estera realista. Un fronte che oggi appare meno aggressivo, ma che tuttavia ha lasciato un segno in questo ventennio, andando a indebolire quel profilo europeista comunitario che aveva caratterizzato la politica italiana.
Dall’altro lato, allo stesso tempo sono emerse nell’estrema sinistra, chiamata a responsabilità di governo, frange antiatlantiche o forme di pacifismo antiamericano, che hanno rappresentato un problema nel momento in cui il Paese ha dovuto assumere rilevanti responsabilità per il mantenimento della pace e della sicurezza.
Queste difficoltà hanno pesato e pesano nella fase in cui quelle della politica estera non sono più grandi scelte di collocazione, perché oramai sono scontate e nessuno realisticamente può metterle in discussione. Piuttosto, sono legate alla capacità di assumere responsabilità, prendere iniziative, mettere in gioco risorse.
Intendiamoci, c’è qualcosa di inarrestabile nei cambiamenti che sono in atto. Nessuna politica estera italiana, o anche europea, può porsi l’obiettivo di arginare mutamenti dei rapporti di forza dell’ordine mondiale, che sono irreversibili, irrazionali e che, semmai, devono essere governati, sapendo cogliere le opportunità, oltre ai problemi che innegabilmente questi processi pongono.
È evidente che la crescita di nuovi protagonisti, fondamentali sul piano dei rapporti di forza economici, sta avendo un’influenza anche sul piano degli equilibri politici. Si calcola che l’Asia intorno al 2025 produrrà il 40% della ricchezza mondiale e conterà la metà della popolazione. È abbastanza difficile pensare che l’equilibrio del mondo possa fondarsi sul rapporto transatlantico così come l’abbiamo conosciuto nel corso di questo dopoguerra.
Anche l’America Latina, che sembrava un continente sconfitto dalla globalizzazione, ha trovato la via di un impetuoso sviluppo e di una crescente assunzione di responsabilità politica. Se vent’anni fa ci avessero detto che il presidente del Brasile avrebbe proposto una soluzione per la crisi iraniana, avremmo sorriso. Quell’iniziativa la si può valutare sotto diversi aspetti, ma tuttavia rientra nell’ordine delle cose possibili.
E arriverà anche l’Africa. Attraverso un travaglio drammatico, anche l’Africa sarà tra i grandi protagonisti del mondo verso il quale ci incamminiamo.
Insomma, è evidente che è in atto un ridimensionamento del ruolo dell’Europa, che spinge a ripensarlo. La fine del G8 è l’evento simbolico di questo mutamento degli equilibri mondiali. Il G8 è stato un grande vertice euroamericano, delle grandi economie occidentali, insieme al Giappone. Oggi rappresenta, invece, forse circa la metà della ricchezza mondiale, tra il 25% e il 30% in meno di quello che rappresentava quando nacque. Adesso si avvia a essere la riunione degli azionisti di maggioranza che non hanno più la maggioranza, riducendosi a un caffè in preparazione del G20.
In questo quadro vedo con preoccupazione la funzione che l’Europa sta esercitando in questo momento.
Mi pare evidente che, se l’Europa volesse avere un peso in questo nuovo contesto, dovrebbe fare un salto di qualità o, perlomeno, un deciso passo in avanti nella integrazione politica, utilizzando appieno le potenzialità che le offre il trattato di Lisbona.
Questo rilancio della vocazione europeista dovrebbe essere la prima scelta della politica estera italiana, ma non sembra esserci la volontà né a livello nazionale – l’Italia appare, anzi, accomodarsi bene nell’equilibrio intergovernativo che si è costruito – né a livello dei principali governi europei.
L’Europa porta sulle spalle buona parte della responsabilità del fallimento dell’ultimo G20. Di fronte a interlocutori che puntano alla ripresa e che, quindi, mettono in campo programmi di investimenti, occupazione, innovazione, ricerca, l’Europa appare prigioniera di un’ortodossia monetarista, che non ha dato prove molto brillanti.
Penso alla crisi finanziaria che abbiamo alle spalle e all’Europa dei tagli. Su questo tema ho ascoltato recentemente una relazione di Paolo Guerrieri. È evidente che quella europea non è crisi da debito: non siamo più indebitati degli Stati Uniti, lo siamo molto meno del Giappone.
Il grande problema europeo, viceversa, è la mancanza di crescita. Inoltre, va sottolineato che le strategie adottate dai grandi partner internazionali mirano non soltanto a rilanciare la crescita: quello che è interessante è che, in modi diversi, i grandi Paesi affrontano una delle ragioni di fondo della crisi. Crisi che, a mio giudizio, nasce da tre fattori:
- deficit di regolazione, che si potrebbe definire deficit di democrazia, di politica;
- crescita delle diseguaglianze, che anch’essa provoca la caduta dei consumi;
- deficit di innovazione. L’illusione di uno sviluppo sostenuto dai bassi salari dei Paesi emergenti ha determinato, da questo punto di vista, un rallentamento rispetto alla grande fase innovativa degli anni Novanta.
Se guardiamo i piani degli Stati Uniti, della Cina, del Brasile, appare chiaro che non si tratta soltanto di grandi programmi di investimenti, perché mirano anche a ridurre le diseguaglianze sociali attraverso scelte di stampo “europeo”: la riforma sanitaria degli Stati Uniti, l’avvio di una forma di welfare in Cina.
A questo proposito, ricordo che la crescita cinese del 2009 è stata trainata per la maggior parte dagli investimenti e dal mercato interno, a fronte di una caduta delle esportazioni.
Il Brasile ha conosciuto un fenomeno straordinario di riduzione delle diseguaglianze con l’ascesa sociale di 60 milioni di persone (di cui 30 milioni sono uscite dalla povertà e 32 milioni sono entrate nelle classi medie).
Non c’è traccia di politiche di questo tipo nell’ispirazione europea, non c’è slancio nella vecchia Europa. Anzi, essa si presenta come un freno all’adozione di politiche coraggiose su scala internazionale. Con il suo veto alla Tobin tax, inoltre, il presidente del Consiglio, da questo punto di vista, ha preso una brillante posizione di avanguardia nella politica di frenata.
Da europeista convinto penso che questa Europa sia e rimanga la risorsa fondamentale e che sarebbe il momento di ritrovare il nerbo dell’europeismo italiano. È necessario lavorare a una coalizione a livello continentale. Non mi riferisco soltanto ai governi, ma anche all’opinione pubblica, alle forze del mondo intellettuale e culturale. È davvero in gioco il destino dell’Europa. Le tendenze generali dicono che al tavolo dei potenti l’Europa ci sarà solo se unita, altrimenti è inevitabile che la logica del G20 porti a una sede ristretta: l’ufficio politico del G20 è l’incontro cino-americano, almeno sulle grandi questioni economiche.
L’Europa ha ancora un posto rilevante sui temi della sicurezza, è vero, ma non dobbiamo escludere che i grandi protagonisti economici assumano una crescente responsabilità anche su questo piano.
Qui, a mio parere, vi è un punto fondamentale: il posto dell’Italia nel mondo è legato a una ripresa vigorosa e coraggiosa del processo di integrazione europea, che dovrebbe rappresentare il cardine di una nostra politica estera condivisa.
A questa necessità affiancherei la questione del Mediterraneo. Noi dobbiamo essere necessariamente fautori di una piena assunzione, da parte dell’Unione, del Mediterraneo, del Sud, come nuova grande missione europea.
Infatti, l’ultima grande missione svolta dall’Europa è stata quella verso Nord e verso l’Est, che ha chiuso la stagione della guerra fredda. Oggi la missione dell’Europa è soprattutto a Sud.
Il Mediterraneo torna a essere centrale dal punto di vista della sicurezza, dell’equilibrio mondiale, della necessità di costruire una coesistenza pacifica tra mondo occidentale e mondo islamico, essendo questo il principale problema della sicurezza nel mondo. Questa coesistenza pacifica passa innanzitutto attraverso l’iniziativa europea. E faccio notare che passa attraverso il Mediterraneo anche la questione della sicurezza energetica.
Per affrontare il problema della sicurezza nel Mediterraneo negli ultimi anni abbiamo visto in campo due strategie: quella americana, cosiddetta del “grande Medio Oriente”, e quella francese dell’Unione per il Mediterraneo. Una proposta avanzata dalla Francia nella forma di “Unione mediterranea”, corretta poi come “Unione per il Mediterraneo”, cioè come una politica che coinvolge non solo i Paesi rivieraschi, ma l’Unione europea in quanto tale.
A mio giudizio, tutte e due queste strategie hanno avuto in comune un grave difetto che ha portato al fallimento di quella americana e a una sostanziale impasse di quella europea, basta pensare al fatto che il vertice dei capi di Stato e di governo dell’Union pour la Méditerranée è stato rinviato sine die. Mi riferisco alla convinzione che si potessero aggirare i nodi politici: il conflitto arabo-israeliano e la questione del rapporto con la Turchia.
Questi sono i due grandi nodi di una politica mediterranea. Per quanti progetti di disinquinamento marino, di collaborazione tra le piccole e medie imprese e tutta la fantasia che si possa dispiegare, credo che se l’Europa aggira quei due ostacoli senza affrontarli, difficilmente svilupperà una politica del Mediterraneo.
Si tratta di due questioni che corrispondono all’interesse nazionale dell’Italia. In Europa siamo tra i Paesi che hanno un rapporto più forte con la Turchia ed esso rappresenta una delle posizioni condivise della nostra politica estera.
L’Europa ha aperto un negoziato con la Turchia, alla quale ha indicato come possibile il traguardo dell’ingresso nell’Unione. La rinuncia alla coerenza su questo punto rischia di essere uno degli errori storici dell’Occidente, risospingendo quel grande Paese verso il mondo islamico e contribuendo all’instabilità del Mediterraneo.
Sulla questione mediorientale siamo di fronte a due estremi.
Da un lato vi è l’approccio scelto da molti anni al tema della pace arabo-israeliana, che ha sostanzialmente delegato ai protagonisti la ricerca della pace, riservando alla comunità internazionale un ruolo di incoraggiamento e affidando la soluzione del conflitto a un processo graduale. Un approccio che si è rivelato inefficace, anche perché il negoziato tra le parti è talmente asimmetrico che difficilmente può portare a risultati accettabili.
Dall’altro lato vi è l’estremo della totale internazionalizzazione del conflitto, che significa una soluzione in sede internazionale imposta alle parti. Soluzione che però non appare realistica, perché Israele non la accetta e perché ha una forza di condizionamento della politica mondiale che va molto al di là delle sue dimensioni.
Tra questi due estremi ci dovrà pur essere una terza via, cioè la capacità della comunità internazionale di non essere soltanto spettatrice di quello che avviene, ma di poter esercitare un ruolo attivo di incentivazione, di pressione, che deve avvenire nel quadro di un rapporto stretto tra Europa e Stati Uniti.
È curioso che, nel momento in cui gli Stati Uniti sembrano voler esercitare una maggiore pressione in quella direzione, l’Europa appaia una presenza molto debole nell’area. Eppure il documento approvato dai ministri degli Esteri europei alla fine del 2009 sembrava indicare, quantomeno, una volontà maggiore di impegnarsi e di esercitare una pressione.
Attenzione, perché qui è in gioco qualcosa di molto più importante della credibilità europea. Poiché è difficile fare una politica mediterranea se l’Europa non riesce a conquistare almeno una parte dell’opinione pubblica del mondo arabo, appare chiaro che intorno a questa questione si gioca qualcosa di fondamentale.
L’unica scelta di politica internazionale che può avere un grosso e positivo spillover effect – come dicono gli americani – in tutta la regione, è la pace arabo-israeliana. Ricordiamoci che gli americani pensavano che la guerra in Iraq avrebbe avuto uno spillover effect positivo su tutta la regione, calcolo rivelatosi sbagliato.
Anche per la portata simbolica del conflitto arabo-israeliano, penso che la comunità internazionale dovrebbe cominciare a dire che la pace in quell’area non è soltanto un interesse dei protagonisti, ma è un interesse vitale di tutto il mondo. E i protagonisti devono cominciare a sentirne la pressione.
In fondo, un esempio di come si possa agire è venuto dalle esperienze – in un contesto certamente meno complicato – del conflitto nel Libano. Il Libano è stato l’ultimo momento in cui l’Europa ha avuto un ruolo attivo rilevante. Non abbiamo lasciato ai protagonisti la ricerca della pace e c’è stata una forte pressione internazionale, una forte assunzione di responsabilità. In un primo momento il governo israeliano non era affatto favorevole al dispiegamento di una forza internazionale, considerando la sicurezza di Israele come una delle competenze esclusive delle forze armate israeliane. Alla fine, credo, dopo alcuni anni tutti i protagonisti, compreso il governo israeliano, devono riconoscere che l’intervento della comunità internazionale, e in particolare dell’Europa e dell’Italia, ha avuto effetti positivi dal punto di vista della sicurezza in un’area che si trova su un confine lungo il quale negli anni precedenti vi sono stati qualcosa come 14.000 incidenti. E anche due o tre guerre.
Insomma, sono convinto che l’Europa possa fare di più, e che dovrebbe assumere un ruolo più attivo ed esercitare una maggiore pressione.
Non voglio dilungarmi, ma penso che la forza della politica estera italiana si dispieghi anzitutto nella dimensione europea, nella capacità di incoraggiare l’Europa a occuparsi di più del Mediterraneo. E nella nostra capacità, insieme ai partner europei, di esercitare un ruolo in quella parte del mondo in cui ci troviamo, costruendo rapporti positivi.
Un altro grande tema è quello del rapporto con la Russia, su cui mi limito a sottolineare che occorre una politica europea, e non la rincorsa di singoli Paesi a sistemare i propri problemi economici con Mosca. Solo la politica europea, infatti, può essere fondata sul dialogo, sull’inclusione ma anche su quei principi come il rafforzamento della democrazia e il rispetto dei diritti umani, che sono componenti essenziali di una politica estera condivisa, accettabile, moralmente ragionevole, a cui un Paese come il nostro deve puntare.
Così come credo che abbiamo a lungo sottovalutato lo spazio dell’Italia verso l’America Latina.
Mi è capitato recentemente di riprendere un tema che mi sembra interessante, cioè la necessità di coltivare una nuova dimensione transatlantica che non passi soltanto attraverso l’Atlantico del Nord, ma che sia in grado di sviluppare rapporti positivi che comprendano l’America Latina e l’Africa, se non vogliamo un mondo incentrato sul Pacifico e sui rapporti transpacifici.
L’America Latina è un continente nel quale l’influenza italiana è enorme, e credo che l’abbiamo poco coltivata, nel senso che finora l’abbiamo concepita più come un rapporto affettivo, familiare, che non come in effetti è: una grande opportunità economica e politica.
Nello stesso modo dovremmo aprire un rapporto serio con un grande partner come la Cina.
In questo senso ricordo lo sforzo che è stato compiuto, in particolare dai governi di centrosinistra, con un impegno speciale di Romano Prodi, che continua anche al di là del suo ruolo di governo.
Certo, la Cina ci pone molti problemi, ma li avremmo ugualmente, anche se noi coltivassimo l’ostilità. Viceversa, se noi ci liberiamo dall’ostilità, credo che possiamo cogliere le opportunità legate alla crescita di questo grande Paese.
Insomma, penso che per l’Italia ci sia uno spazio da conquistare, uno spazio non più “garantito” come nel passato. Uno spazio che si conquista concependo la politica estera come un progetto nazionale, condiviso, che comprende la capacità di rilanciare il nostro Paese, di dare slancio alla nostra economia facendo le riforme necessarie, che comprende l’uso degli strumenti culturali, un serio multilateralismo e, nello stesso tempo, anche lo sviluppo di un sistema ampio di relazioni bilaterali.
Questi venti anni difficili che abbiamo alle spalle, in cui il ruolo dell’Italia si è complessivamente ridimensionato – il che, lo ripeto, è anche nell’ordine delle cose –, non sono stati, tuttavia, anni di un lineare declino.
Non a caso, vi sono stati momenti anche alti della nostra presenza internazionale e ciò è stato legato alla capacità di affrontare, a un tempo, nodi della politica interna e di assumerci responsabilità internazionali.
L’Italia che ha scelto l’euro, che ha dimostrato di essere affidabile in materia di conti pubblici, anche in parte sorprendendo l’Europa, che si è presa le sue responsabilità nei Balcani, è stata l’Italia che, nel 2000, ha ottenuto la presidenza della Commissione europea e il Commissario alla concorrenza all’interno della stessa legislatura. Si tratta di qualcosa che non era mai accaduto nella storia del dopoguerra. Contemporaneamente, il nostro Paese ha avuto il comando di una missione militare internazionale in una parte del Kosovo.
Non c’è un posto per noi, a tavola. Bisogna avere la forza di conquistarlo. E questo dipende da noi stessi. È chiaro che il Paese può esercitare un ruolo di primo piano quando è in grado di avere un progetto nazionale per affrontare i suoi problemi e nello stesso tempo quando è capace di assumersi le proprie responsabilità nelle sedi internazionali.
Nell’ultimo rapporto sulla politica estera italiana a cura dello IAI e dell’ISPI si descrivono tutti gli scenari possibili: ripiegamento nazionalistico, ricerca di alleanze speciali, diplomazia degli affari, piccolo cabotaggio e, infine, la parte positiva, e cioè l’idealismo delle nobili cause e il multilateralismo coerente.
Nella politica estera italiana questi ingredienti sono presenti un po’ tutti di volta in volta: una certa tendenza alla diplomazia degli affari, l’idea che si costruisce un posizionamento internazionale attraverso relazioni speciali… Salvo il fatto che relazioni speciali con il capo del nostro governo sono problematiche per quei leader che hanno il problema di rispondere alle opinioni pubbliche dei loro Paesi e più facili per quelle personalità che quel problema non hanno.
Trovo che fatichiamo, oggi, in questa giungla di scenari possibili, a costruire quel ragionevole mix, perché la politica estera è fatta di affari, della capacità di coltivare gli interessi nazionali, è fatta anche di ideali e valori positivi, di serietà nel perseguire un multilateralismo coerente, del quale ci si assumono le responsabilità e i costi. Non c’è un contrasto tra queste due dimensioni. L’Italia della risoluzione contro la pena di morte che vince nell’Assemblea dell’ONU è un Paese che sta simpatico a molta parte del mondo, il che non è dannoso neanche per gli affari.
Certo, questa politica estera richiede una scelta condivisa, un impegno. A tale proposito sottolineo il tema delle risorse.
Noi abbiamo toccato una punta alta dal 2007 al 2008, raggiungendo lo 0,35% del PIL. Adesso siamo riscesi allo 0,27%. Ma quello che colpisce in modo particolare è che in questo momento l’Italia ha cancellato dal bilancio nazionale la politica di aiuto allo sviluppo, ha cancellato in buona parte i suoi impegni multilaterali. Soffriamo di una imbarazzante morosità (non paghiamo il fondo mondiale per l’AIDS, non versiamo le quote a molte agenzie multilaterali).
È chiaro che la politica estera di un Paese come il nostro, così legata alla nostra capacità di essere protagonisti di un multilateralismo efficace, se vengono meno questi impegni si indebolisce enormemente dal punto di vista dell’immagine e della sostanza.
Tra le medie potenze, rispetto agli altri Paesi europei siamo tra quelli che hanno la spesa militare più bassa, lo 0,9% del PIL. Non parliamo della Gran Bretagna, ma neanche della Francia e della Germania, che spendono più di noi, eppure la partecipazione italiana alle missioni internazionali di pace è indubbiamente uno dei fiori all’occhiello della nostra politica estera ed è anche un’attività nella quale abbiamo saputo sviluppare una specializzazione apprezzata in tutto il mondo.
Essere protagonisti del multilateralismo costa. Questo tipo di specializzazione rischia di essere indebolito se non vi sono scelte coerenti anche dal punto di vista dell’impiego delle risorse del Paese.
Quest’anno la spesa pubblica ammonta al 52,5% del PIL. Un giornale ha scritto: come nel ‘96. Ma quel giornale si è scordato di aggiungere che, tra il ’96 e il 2000-2001, coloro che erano al governo portarono la spesa pubblica dal 52% al 46,7%. Dopodiché è cominciato il decennio in cui, al di là delle dichiarazioni, si è perso il controllo della spesa pubblica, e ciò che è impressionante è che questa crescita incontrollata avviene spendendo meno per la scuola, per l’università, per la ricerca, per la politica estera. Bisogna domandarsi: dove vanno questi soldi? È un tema serio. Lo dico perché il pericolo non mi sembra essere quello del socialismo della spesa. Semmai sono altre le forze che premono sulla spesa pubblica.
Insomma, lo spazio che c’è per l’Italia possiamo conquistarlo se c’è un’inversione di rotta dal punto di vista delle scelte, delle risorse, della ricerca del consenso intorno a un progetto condiviso.
“L’Italia-potenza” è alle nostre spalle. Nel nuovo equilibrio mondiale siamo passati da quarti, quinti a settimi nel 2009 da punto di vista della forza economica. La tendenza è inarrestabile, il nostro futuro non è più nel gruppo dei primi quattro o cinque Paesi più ricchi del mondo.
Ciò non significa che in questo mondo, che complessivamente diventa più ricco, non ci sia un grande posto per un Paese che ha intelligenza, spirito di iniziativa, cosmopolitismo, capacità di dialogare con ogni parte del mondo, perché queste sono le qualità degli italiani. Virtù che, a mio parere, ci consentono di avere un posto nel mondo globale. Ma per questo ci vogliono una politica forte e una classe dirigente lungimirante. Ci vuole un’inversione di rotta rispetto a quello che stiamo facendo negli ultimi anni, che non è all’altezza delle sfide e delle opportunità

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